Pazienti
nell’attesa, vigilanti nello spirito, cuore sveglio, giovinezza del cuore,
inconsunti dai giorni, rivolti a Dio in attesa, sempre in attesa. Pur avendo
sperimentato fatiche e delusioni, non si sono arresi al disfattismo, non hanno
“mandato in pensione” la speranza.
Di chi
sta parlando Papa Francesco? Del vecchio Simeone e della profetessa Anna che
accolgono il bambino Gesù nel tempio di Gerusalemme. Eppure, ascoltando la sua
omelia, sembra stia descrivendo le centinaia di persone consacrate che il 2
febbraio scorso, nella basilica di san Pietro, si sono ritrovate con lui a celebrare
la festa della Presentazione. Altre migliaia, nello stesso giorno, si sono
radunate attorno ai loro vescovi in molte diocesi del mondo. Ci sono anche
quelle che hanno posticipata la celebrazione della giornata mondiale della vita
consacrata al giorno successivo, sabato, perché molte durante la settimana lavorano,
nella scuola, in ospedale, in ufficio...
Una vita
consacrata stanca, inquinata dagli scandali, appesantita dalle remore del
passato, in procinto di estinguersi… Ormai è una routine sentire parlarne in
questi termini. Sì, è meno appariscente di una volta, ma non meno generosa nel
servizio concreto e silenzioso, fatto di intercessione e di preghiera, di
vicinanza e di accoglienza, di testimonianza e di annuncio. Una presenza
capillare e spesso ignorata, una generosità data per scontata. Papa Francesco
riconosce il dono che essi sono per la Chiesa: “Penso a voi, sorelle e fratelli
consacrati, e al dono che siete”.
A queste
persone che accolgono in casa la giovane donna che ha partorito sotto il
portico, che dedicano il tempo ad ascoltare chi ha perduto il senso della vita,
che sono ancora capaci di stare in mezzo ai ragazzi, Papa Francesco propone
come modello due vecchi che nel tempio di Gerusalemme sanno riconoscere e
accogliere la novità, tenere viva l’attesa e la speranza, lasciarsi stupire. Le
sue parole possono essere intese – e da alcuni lo sono state – come un
rimprovero: perché vi lasciate prendere dal troppo lavoro? (potrebbe essere il
riconoscimento che anche con l’avanzare degli anni non ci si mette a risposo,
ma si continua ad essere in donazione!); perché cercate il successo? (in quale
ambito? nel servizio degli emarginati? in competenza con chi?). Non vi è
piuttosto, nelle parole del Papa, la comprensione per una vita esigente,
difficile, usurante e perché tale capace di “addormentare il cuore,
anestetizzare l’anima, archiviare la speranza negli angoli oscuri delle
delusioni e delle rassegnazioni”? Di qui l’appello a “restare svegli, a
vigilare, a perseverare nell’attesa”. È il richiamo alla testimonianza
fondamentale della vita consacrata, l’attesa di Dio, la memoria vivente della
meta finale a cui ogni persona tende, della tensione escatologica verso la
quale è incamminata la storia, il mondo intero: il Signore che viene. Sono
tante le pagine evangeliche che hanno ispirato il sorgere di sempre nuove
espressioni di vita carismatica nella Chiesa. Tutte prendono sul serio le
parole ultime, con le quali si chiude la Rivelazione: “Lo Spirito e la sposa
dicono: Vieni!… Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 17.21). È la preghiera
che innerva ogni forma di vita consacrata, la preghiera che rivolge al Signore
a nome di tutta la Chiesa e che la mantiene in attesa.
Con poche
pennellate Papa Francesco, nella sua omelia, ridipinge la bellezza di questa vocazione.
È una vita “consacrata”, ossia interamente donata a Dio, nella gioia, nella
generosità, suscitata dalla scoperta di essere amati e dal desiderio di
rispondere all’amore con l’amore. Ma il cammino è lungo e anche le persone
consacrate non sono risparmiate dalle prove della vita, fisiche, morali,
spirituali, personali e condivise con quanti esse vivono… Chi non conosce
amarezze e delusioni? Allora la fedeltà può diventare pesante, la meta apparire
troppo lontana, irraggiungibile, l’ideale del primo amore farsi opaco... Il
Papa conosce bene il duro cammino nell’esistenza: “la stanchezza prevale sullo
stupore, l’abitudine prende il posto dell’entusiasmo… le esperienze negative, i conflitti o i frutti
che sembrano tardare ci trasformano in persone amare e amareggiate”.
Ed ecco,
al posto di un rimprovero, l’appello di un padre amorevole, di un pastore che
ha cura del suo popolo: “andare indietro e attraverso un’intensa vita
interiore, ritornare allo spirito di umiltà gioiosa, di gratitudine silenziosa”.
Egli traccia anche un itinerario concreto e semplice: l’adorazione, “il lavoro
di ginocchia e di cuore”, la preghiera concreta che lotta e intercede, così da
“risvegliare il desiderio di Dio, l’amore di un tempo, lo stupore del primo
giorno, il gusto dell’attesa”.
Infine l’immagine
con cui si chiude l’invito di Papa Francesco: accogliere tra le braccia il
Bambino, il Dio della novità e delle sorprese, così come lo accolse Simeone. La
tradizione narra di tanti santi e sante che hanno avuto questa esperienza
sensibilmente: Francesco d’Assisi a Greccio, Antonio da Padova a Camposampiero,
Maria Maddalena de Pazzi, Pio da Pietralcina, Piccola
sorella Magdeleine di Gesù… È un’esperienza che ognuno vorrebbe
rivivere e alla quale tutta la vita consacrata è chiamata, per una speranza di
vita sempre nuova. La novità di Dio si presenta come un bambino. Accogliendolo,
il passato si apre al futuro, il vecchio che è in noi si apre al nuovo. “Se –
conclude il Papa guardando a Simeone e Anna – come loro vivremo l’attesa
nella custodia della vita interiore e nella coerenza con lo stile del Vangelo,
se come loro vivremo così l’attesa, abbracceremo Gesù, che è luce e speranza
della vita”.
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