martedì 31 luglio 2012

Apa Pafnunzio: la paura di morire


Apa Pafnunzio ogni sera invocava il ritorno del Signore, come aveva insegnato a pregare il Veggente di Patmos: “Matanathà, vieni Signore Gesù”. Chiedeva con tutto il cuore il suo avvento ultimo, quando avrebbe inaugurato i cieli nuovi e la terra nuova nei quali abita la giustizia e la pace. Pregava con ardore, ma nello stesso tempo aveva timore di quel ritorno, o più semplicemente aveva paura di morire. Sapeva che la morte era l’incontro con l’Amato, eppure aveva paura ugualmente. Come sarebbe stato quel salto nel buio? Prima ancora: avrebbe sostenuto la dura agonia, l’agone, il combattimento finale tra vita e morte?
Un mattina, ormai verso l’ora sesta, un fratello apparve sulla porta della cella. Vedendolo stanco del viaggio Pafnunzio lo invitò a entrare, a sedersi; attinse acqua fresca dall’orcio e gliela porse, quindi condivise con lui il magro pasto. Dopo che insieme si furono rifocillati in silenzio, lo straniero prese la parola. Veniva dal lontano monastero delle Celle e portava la triste notizia che apa Giovanni aveva reso la sua bella anima a Dio.
Benché apa Giovanni fosse più anziano di appena pochi anni, apa Pafnunzio lo aveva scelto come maestro per essere iniziato nel cammino monastico. Le loro anime e i loro cuori si erano fusi in uno al punto da diventare fratelli. Il deserto li aveva divisi per anni, ma pure senza parlarsi e senza vedersi, continuavano ad essere un cuore solo e un’anima sola.
A sera, dopo che lo straniero ebbe ripreso il suo viaggio, apa Pafnunzio accese davanti all’icona della Madre di Dio due candeline, una per sé e una per apa Giovanni. Ora che aveva saputo della morte del padre-fratello, non aveva più paura di morire, era sparito ogni timore e pregò con nuova pace: “Maranathà, vieni Signore Gesù”. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 41)



lunedì 30 luglio 2012

Padre Novo, un “gigante”


Tra i primi religiosi a conoscere il carisma dell’unità, Padre Andrea Balbo (padre Novo), francescano dell’Ordine dei Frati Minori, è stato definito un ‘gigante’. Tanti i motivi per ricordarlo: aver contribuito a far nascere la branca dei religiosi in seno alla famiglia dei Focolari, essere stato per loro guida sicura, e per un compito speciale: aver accompagnato Chiara Lubich come suo confessore fino agli ultimi momenti. “Preghiamo per lui con la certezza che dal Cielo continua a seguire tutti noi nella tensione alla santità”, scrive Maria Voce nella lettera in cui comunica a tutti i membri dei Focolari la notizia della sua morte.

Per continuare a leggere questo testo:

Link a un video saluto di Padre Novo ai religiosi in occasione del loro incontro, del febbraio 2009: http://youtu.be/F8_mFeua4Dc

domenica 29 luglio 2012

Padre Novo è partito per il Cielo


Avevo chiesto a Gesù che mi facesse essere presente al momento della sua partenza, e mi ha esaudito. L’ultima volta che era stato ricoverato in ospedale era stato un anno fa. Adesso la stessa infezione di allora si era riacutizzata. Forse ce l’avrebbe fatta, come ce l’aveva fatta le molte volte che era stato ricoverato d’urgenza. Ma il fisico era ormai debilitato e il declino degli anni si faceva sempre più evidente. “Dopo domani, sabato, vado a trovarlo”, mi sono detto. Dopo un po’ ci ripenso: “E perché non domani? Chissà…”. Venerdì mattina parto. Alla stazione mi attende p. Camillo che mi accompagna all’ospedale di Abano Terme dove Novo è ricoverato. “Da ieri – mi dice Camillo – non dà più segni di conoscenza, è in coma, ma noi parliamoli come se lui sentissi, non si sa mai…”.
Lo trovo immobile, con gli occhi chiusi, la maschera dell’ossigeno, il respiro affannoso. Gli sto accanto, gli parlo… fino a quando apre gli occhi e mostra di riconoscermi. Gli porto i saluti di tutti, lo ringrazio per quanto ha fatto per Chiara, per l’Opera, per tutti noi, gli ricordo i momenti più belli, la presenza in questo adesso di Gesù in mezzo a noi e di Chiara, Foco, Silvano, Micor, Nazareno... Gli comunico insomma le cose nostre più belle e più vere… Dopo un’ora gli sussurro: “Hai amministrato tante volte l’unzione degli infermi per Chiara, sei contento se questa volta l’amministriamo a te?” Per la prima volta muove la testa, in un lieve accenno di assenso.
Rimango ancora qualche ora con lui. Sento che si allontana lentamente… Quando vedo che apre di nuovo gli occhi, gli chiedo se è contento di recitare l’Ave Maria e la prego per lui, che segue guardandomi. Una signora, che assiste l’ammalato del letto accanto, mi domanda se sono suo fratello…
Nel pomeriggio torna p. Camillo con l’olio degli infermi. Forse sarà opportuno attendere domani, quando verrà p. Theo e che sia lui ad amministrare il sacramento. Ma è prudente aspettare domani? Novo è ormai irrimediabilmente sopito, non potrà seguire, ma la mattina ha espresso il suo consenso. P. Camillo, con il bell’abito francescano che Novo ha portato per tanti anni, dona il sacramento. Anch’io ungo la fronte con il santo olio. Le parole della liturgia sono di una bellezza rara. Scende il perdono e la grazia di Dio.
Posso ormai ripartire. Ancora poche ore e padre Novo parte per il Cielo.

Per conoscere l’inizio della sua straordinaria avventura:

L’olio di apa Pafnunzio


Quando in sul sabato il sole, verso l’ora nona, smussava i dardi infuocati e l’aria di faceva più mite, i probatissimi monaci uscivano dalle loro celle e si incamminavano verso il luogo convenuto. La solitaria vita non impediva d’essere uniti insieme per vincolo d’amore... Ciascuno procurava alcuna coserella da mangiare, chi noci, e chi fichi, e chi datteri, e chi erbe, e chi le lunga radice della pastinaca dal sapore dolce aromatico e così insieme facevano carità. Sotto la scorsa indurita dal vento e dal sole, che li faceva apparire rozzi e irsuti, si nascondevano cuori docili e attenti.
Apa Pafnunzio da un po’ di tempo rimaneva tuttavia contrariato e quell’adunanza, per lo solito così fraterna e coriale, non gli rallegrava il cuor com’era d’uso per l’innanzi.
Uno dei fratelli mai gli contraccambiava il saluto; nel cerchio dei fratelli teneva il luogo più lontano da lui e anche quando Pafnunzio volutamente gli si metteva accanto egli sembrava ignorarlo. Un altro gli indirizzava parole pungenti, canzonandolo in maniera beffarda, tanto da fargli male.
Le attenzioni e il discreto interesse che gli altri mostravano per lui non valevano a compensare l’amaro che gli procuravano i primi due. Era come se nel cibo buono qualcuno avesse messo assenzio.
Sulle prime Pafnunzio tornava nella sua cella col cuore triste. In seguito si domandò se non dipendesse da lui l’atteggiamento indifferente e financo ostile dei due eremiti. Ricordò che non doveva togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello, ma la trave dal suo e che non gli importava se essi gli dimostrassero amore: certamente lo avevano nei suoi confronti, era lui incapace di coglierlo. Era lui che doveva amare.
Pazientò in questo nuovo atteggiamento per lunga pezza, fin quando un sabato il primo gli si mise accanto e gli domandò se mancasse di qualcosa e se avessi bisogno di aiuto per la cura della sua cella; il secondo gli confidò i suoi dolori e i suoi peccati.
Il sabato seguente apa Pafnunzio portò un orciolo d’olio perché tutti inttingessero la loro crosta di pane.  Tornarono a vivere insieme per vincolo d’amore. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 40)

sabato 28 luglio 2012

Apa Pafnunzio a lume di candela


La fatica del giorno era ormai terminata. Apa Pafnunzio aveva intrecciato corde con le rudi fibre che offriva il deserto. Durante il lavoro monotono aveva recitato a memoria l’intero vangelo di Marco. Aveva poi recitato i primi cinquanta salmi del salterio, aveva mangiato pane di segala con le erbe cotte raccolte nel fazzoletto di terra strappato all’arida landa. Seduto sul sasso fuori della cella, appoggiato alla roccia, guardava incantato l’accendersi delle stelle su in cielo. Da quanti anni guardava le stelle al calare della notte? Eppure non si era mai stancato e ogni sera lodava Dio per quello spettacolo che sempre gli appariva nuovo e lo lasciava attonito. “Le chiama ognuna per nome”, dicevano di Dio le Scritture. Dunque Lui le conosceva tutte, ad una ad una, e ognuna di essa per Lui aveva un nome! Davvero onnipotente era Iddio e onnisciente. Se conosceva le stelle per nome, quando più conosceva per nome ogni uomo e donna sulla terra, ogni monaco del deserto… Conosceva per nome anche lui, Pafnuzio!
Rientrò nella cella e accese la candela davanti all’icona della Vergine, la Madre di Dio, la Teothokos, per cantare l’inno della notte. Rimase infine in silenzio. Non guardava più la Tuttabella, che amava con tutto l’affetto del cuore, ma la fiammella che bruciava davanti ad essa e che aveva rimpicciolito il lume, prossimo ormai ad estinguersi. Spontanea fiorì la preghiera sulle sue labbra: “Quella candela si consuma per dar vita alla fiamma; dammi, Signore, di consumare la mia vita per te, come una candela…” (I detti dei Padri del deserto di Scite, 39)

giovedì 26 luglio 2012

Apa Pafunzio davanti alla morte


Nel silenzio della sua cella, scavata nelle roccia, collocata nel più vasto silenzio del deserto, aba Pafnunzio andava spesso col pensiero alla morte. Sarebbe accaduto che un giorno, non vedendolo arrivare alla sinassi, l’incontro degli eremiti che si teneva il sabato sera, qualcuno avrebbe camminato fino alla sua cella e lo avrebbe trovato disteso sulla terra nuda, con le braccia incrociate e il sorriso sulle labbra. Non che si sentisse vecchio o che accusasse indisposizioni particolari. I digiuni, le veglie, l’aria secca del deserto lo conservavano in buona salute. Ma prima o poi sarebbe accaduto e avrebbe finalmente incontrato il suo Signore.
Come sarebbe stato quel momento? Cosa gli avrebbe detto? Avrebbe voluto che il cuore fosse libero da ogni pur minimo attaccamento, sgombro come il deserto attorno; infuocato d’amore come lo era il cielo certe sere all’orizzonte. Avrebbe voluto che le sue mani fossero colme di amici, di tutti quegli uomini e quelle donne per i quali, pur lontani, aveva pregato, sofferto, sperato... Avrebbe voluto offrirgli il mondo intero.
Uscì infine sulla soglia della grotta e fissò il sole del tramonto, che ancora brillava, vivo, nell’aria tersa della sera. Lo guardò scendere rapido all’orizzonte. Stette lì, immobile, fin quando dall’alto calò la notte, sempre più nera. Gli parve un segno dello spegnersi della sua vita.
Fu in quel momento che gli fiorì sulle labbra la domanda: “Perché invece che attendere la morte, che forse sarà lontana, non vivere come se l’incontro avvenisse ogni giorno, ogni sera, ogni ora, adesso?” (I Padri del deserto di Scite, 37)

mercoledì 25 luglio 2012

Apa Pafnunzio: il momento più bello


Aveva soltanto un desiderio, apa Pafnunzio, conoscere Dio. Aveva preso a digiunare più del consueto, fino a quaranta giorni, come Mosè, come Elia e come il Signore nel deserto. Gli parve il momento più bello. Ma al termine dei quaranta giorni s’accorse di non conoscere ancora Dio. Prese allora a vegliare giorno e notte, senza dare riposo alle sua palpebre, ora in piedi, ora seduto, ora in ginocchio. Gli parve il momento più bello. Ma al termine dell’interminabile veglia s’accorse di non conoscere ancora Dio. Si diede allora a battere il suo corpo, fino a quando il sangue cominciò a colare a terra, come il Signore quando fu flagellato alla colonna. Gli parve il momento più bello. Ma quando ebbe terminato questa dura penitenza s’accorse di non conoscere ancora Dio.
Discese allora al fiume e rimase sulla sponda ad aspettare. Non poteva traversarlo perché infestato dai coccodrilli. Il giorno seguente, allo spuntare del sole, dall’altra parte del fiume apparve Amma Anna che veniva ad attingere acqua.
“Madre santa, dimmi una parola - la supplicò l’apa Pafnunzio. Qual è il momento più bello della tua vita?”
“Il momento più bello nella vita – risposa Amma Anna – è la preghiera: perché si parla con Chi più si ama”.
Apa Pafnunzio tornò nella sua cella e iniziò a parlare con il suo Signore. S’accorse che lo amava e che ne era riamato. Da allora quello cominciò ad essere il momento più bello nella sua vita.  (I detti dei Padri del deserto di Scite, 35)

martedì 24 luglio 2012

Pafnunzio, il vecchio eremita


Pafnunzio, il vecchio eremita, aveva un solo desiderio, amare appassionatamente il suo Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente, le forze. Avrebbe voluto amarlo proprio in quel momento in cui sentiva di volerlo amare, senza aspettare più tardi. Avrebbe voluto amarlo come nessun altro avrebbe mai potuto amarlo. Quando però guardava il suo cuore ritrovava a stento quell’amore primo che lo aveva mosso a lasciare tutto per il deserto. Come in un terreno incolto erano cresciuti tanti cespugli d’erbe selvatiche, tanti altri piccoli amori che assediavano il primo amore. Ormai era troppo vecchio per mettersi di nuovo a coltivare il campo con le energie che aveva da giovane quando estirpava sul nascere ogni gramigna, con l’ardore del neofita. Voleva amare, ma non sapeva più come si fa ad amare con tutto il cuore, l’anima, la mente le forze. Si addormentò con la nostalgia di un amore grande grande… Nel buio della notte venne l’apostolo Paolo a confidargli che negli ultimi anni di sua vita si vantava ormai soltanto delle sue debolezze, perché soltanto in esse di manifestava la potenza del suo Signore. Il sonno agitato si distese nella pace e accanto al giaciglio tornò a splendere la lampada della speranza. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 32)

lunedì 23 luglio 2012

Al santuario di Boccadirio


Dalla piana tra Monteferrato e Montalbano all’appennino Tosco-Emiliano per visitare il santuario di Bocca di Rio, giuridicamente nella diocesi di Bologna, ma affettivamente santuario della città di Prato. Venne infatti a Prato una delle veggenti della Madonna, Cornelia Evangelisti, vi divenne Monaca, e una volta superiora ebbe la forza di fermare alle porte del monastero le truppe spagnole che stavano mettendo a ferro e fuoco la città nel famoso sacco di Prato del 1512, cinquecento anni fa.
Era il 16 luglio 1849 quando Donato e Cornelia, bambini con le pecore al pascolo, quando, mentre stavano in preghiera, videro improvvisamente una signora con in braccio un bambino, che subito riconobbero per la Madonna. “Tu, Donato, ti farai sacerdote – disse loro – e tu, Cornelia ti farai monaca. Desidero che in questo luogo venga costruita una chiesa in mio onore e a quanti verranno qui a pregarmi prometto protezione e grazie”. È così da più di cinquecento anni. Le numerose grazie sono testimoniate da commoventi e semplici ex voto appesi alle pareti della chiesa.
Lassù tra le montagne, in quella verde valletta incantata, nel cortile erboso tra il loggiato della chiesa e l’accogliente chiostro, si rinnova continuamente il miracolo di persone che vanno a visitare Maria, a pregarla, a confidarsi con lei. Un santuario locale, a dimensione umana, dove ogni volta ci si trova a casa e si avverte la presenza viva di Maria.

domenica 22 luglio 2012

Villa La Magia e una vacanza da gustare


Alle pendici del Montalbano
Da Monferrato a Montabano, le due catena di colline che incorano la piana tra Prato e Pistoia. Dalla villa Ricci al Parugiano, alla villa medicea de La Magia. Anche questa casa-torre medievale, nel Quattrocento si trasforma in villa, sapiente incastra tra opera della natura e opera dell'uomo, nel parco millenario. I Medici la collocano nella collazioni di ville che possiedono nel territorio: Pratolino, Marignolle, Cerreto Guidi, Lappeggi, l'Ambrogiana, la Petraia, Castello, Artimino, Montevettolini...
La Magia, vicina al Barco Reale Mediceo, diventa un tassello importante nel panorama delle proprietà della famiglia de' Medici. La Magia diviene punto d'appoggio per le battute di caccia nel vicino Barco Reale e centro di controllo delle attività produttive agricole. La zona era ricca di selvaggina. Nel mese di dicembre del 1595, Ferdinando I scrive dalla Magia alla sua consorte, la duchessa Cristina di Lorena: "Hoggi ho fatto bella caccia et ho avuto grandissimo gusto et mando costà un carro trionfante di undici porci, che più non s'ha potuti portare".
Nobildonne di Villa La Magia
Ho passeggiato nel parco, sotto un sole reso piacevole dal vento, dal verde, dall’aria pulita.
Come i Pazzi ai piedi del Monteferrato e i Medici ai piedi del Montalbano, i Ricci di Firenze d’estate venivano in villeggiatura a due passi da casa mia, a Prato, nella campagna di san Paolo. Anche la piccola Caterina de Ricci, passava le vacanze qui nei campi, prima di entrare nel convento in città.
Oggi si cercano vacanze esotiche. Allora bastava uscire dal chiasso e dai cattivi odori che d’estate ammorbavano la città e godere del silenzio dei campi, dell’aria aperta…
Non è necessario essere Pazzi, Medici o Ricci né godere di vasti possedimenti, per tornare a gustare una vacanza fatta di ritrovi familiari, di distensione, di pace dell’anima…  

sabato 21 luglio 2012

A Montemurlo, alla ricerca di Maria Maddalena de Pazzi


Maddalena,
al tempo in cui era nella villa,
quando si chiamava ancora  Caterina
Villa Pazzi al Parugiano

Prima del Mille vi sorgeva una torre di guardia e poi un castello dei Conti Guidi. Una storia di 1000 anni, quella della villa del Parugiano, a Montemurlo, a due passi da Prato, ai piedi del Monferrato, nella vasta area verde, che reca ancora i segni dell’antica centuriazione romana.
Attraverso la storia della villa si può ricostruire l’evoluzione di un intero territorio, con le creazioni artistiche, l’industrioso lavoro agricolo, le usanze, le battaglie... Quando, dopo l’assedio di Castruccio Castracani del 1325, la fortificazione venne distrutta, la famiglia fiorentina dei Pazzi, vi costruì la sua villa di campagna, trasformandola in una grande fattoria, tipica degli insediamenti rurali del contado fiorentino. Nel Cinquecento, con ampliamenti e riadattamenti, essa acquistò la fisionomia delle eleganti e signorili ville rinascimentali.
Ciò che mi ha attratto alla villa non sono tanto le opere d’arte che essa raccoglie, gli affreschi alla boscheresca che decorano le stanze, la splendida cappella seicentesca. Mi attira qui santa Maria Maddalena de Pazzi, ricordata da una edicola del 1700, lungo la strada, appena fuori la villa.
Nel periodo estivo i Pazzi soggiornano spesso nella villa. Vi veniva anche Caterina, questo il nome di battesimo della futura Maria Maddalena. Gracile nel fisico, raccoglieva attorno a sé i figli dei contadini per le prime lezioni di catechismo, allettandoli con piccoli regali.
Fu qui che, mentre sedeva sul prato con le donne di casa, ebbe la prima estasi: si sentì come ferita da un dardo e perse temporaneamente la parola e perfino il respiro.

La cappella all'interno della vita,
iniziata a costruire nell'anno
della nascita di Caterina
L'edicola sulla via
Per il momento la villa non mi schiude i suoi cancelli. I nuovi proprietari non amano aprirla al pubblico. Devo contentarmi di fotografarla dal di fuori, sporgendomi sopra i muri di recinzione. In compenso trovo un’accoglienza straordinariamente cordiale nella biblioteca e nel centro culturale del comune di Montemurlo. La responsabile in persona, Luana Grossi, con squisita disponibilità mi ambienta nella letteratura e nella tradizione che, con affetto, custodisce il ricordo della santa, celebrata ogni anno con manifestazioni civiche.
Vengo così a conoscere che nella villa si conserva ancora la camera di Caterina, modesta come una celletta, presto trasformata in oratorio, con la reliquia della “cuffia”. Nel giardino crescono ancora la pianta di arance amare e il pero rinati dai ceppi di quelli piantati dalla santa, di cui si vantano virtù miracolose. L’arancio in particolare avrebbe il potere di sanare il mal di testa, un dono procurato alla santa per gli altri, mentre per sé si procurava il mal di testa patito da Gesù cingendosi con una corona di rami spinosi di melangolo.
In questa villa Caterina maturò la determinazione di monacarsi. Lasciato l’ambiente sereno della sua prima giovinezza, entrò dalla carmelitane a Firenze, diventando Maria Maddalena.
Rileggerò le sue parole dell’estasi, la rivedrò danzare danze di Paradiso, l’ascolterò mentre parla di Cielo… e poi tornerò a Montemurlo, a bussare al cancello della Villa.

venerdì 20 luglio 2012

In pace con tutti e un quartiere accogliente



Nel post del 16 luglio scorso, quello sul treno, scrivevo “Non immaginiamo mai che gli altri possano provare i nostri stessi sentimenti, altrimenti sarebbe così naturale fare all’altro ciò vorremmo fosse fatto e noi, non fare all’altro ciò che non vorremmo fosse fatto a noi”. Mi è giunto il seguente commento:
Ultimamente mi sto accorgendo di come la gente sia "buona". L'ho notato nei volti o nelle frasi ascoltate. La gran maggioranza degli uomini e delle donne sono persone che desiderano essere in pace con tutti e un quartiere accogliente; mi è bastato andare alla fontanella pubblica, che da poco è stata aperta nel mio quartiere. Siamo tornati come ai vecchi tempi: “Buongiorno… È giusto che la fontanella si interrompi ogni mezzo litro altrimenti si avrebbe uno spreco… È importante non dover buttare più via tanta plastica…” Mi piace sentire frasi sensate, potersi salutare e parlare con persone con le quale non lo avevi mai fatto. Basta guardare con occhi nuovi e ti senti riavere, anche se il telegiornale fa di tutto per buttarti giù.

giovedì 19 luglio 2012

L’ospitalità di Vallombrosa


… … … … Vallombrosa.
Così fu nominata una badia
Ricca e bella né men religiosa
E cortese a chiunque vi venia.

Così l’Ariosto nell’Orlando Furioso.
Ancora, dopo secoli, vi si ritrovano le stesse caratteristiche: ricca e bella, contornata da una foresta superba; religiosa e cortese, perché nonostante le vicende storiche e l’espropriazione da parte dello stato, la comunità monastica continua a testimoniare una presenza fortemente religiosa. Cortese l’ho inteso e sperimentato nel senso benedettino di ospitalità. Basta da solo il sorriso di padre Mario per far sentire ognuno accolto e a proprio agio. È la Regola di san Benedetto ancora viva: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"». Il monaco è consapevole che il monastero è casa di Dio e che l'ospite è Cristo e con lui è pronto a condividere le ricchezze spirituali di una vita vissuta alla costante presenza di Dio.
È l’insegnamento di Gesù, che invita ad accogliere l’altro nella certezza di accogliere lui stesso, è l’invito di Paolo ad “accogliersi l’un l’altro” (Rm 15,7). È principio di socialità nuova.

mercoledì 18 luglio 2012

Dio si serve di un povero uomo


Ucraina, Lituania, Tailandia, Polonia, Germania, Austria, Venezuela, Brasile, Malta, Portogallo, India, Italia. Sono i Paesi dai quali provengono i 30 superiori di seminari per il corso di formazione che si svolge da anni qui a Vallombrosa. Da tre giorni sono con loro, in questo cenacolo sacerdotale pieno di luce e di gioia.
Come risuonano bene tra di noi le parole di Benedetto XVI: “Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente tra gli uomini e di agire a loro favore. Quale audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, rende degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua…”.
Nessuna enfasi o esaltazione nella nostra immagine del prete. “Quando esercitiamo il nostro ministero – diceva Vanhoye durante il suo ritiro alla curia romana – dobbiamo anche offrire noi stessi in unione con l’offerta di Cristo. Per le nostre persone il sacerdozio battesimale è più importante del sacerdozio ministeriale”. E il Concilio Vaticano II: “I sacerdoti del Nuovo Testamento… sono, come gli altri fedeli, discepoli del Signore… sono fratelli tra fratelli, come membra dello stesso e unico Corpo di Cristo, la cui edificazione è compito di tutti.” Il nostro specifico: ci troviamo in mezzo ai laici “per condurre tutti all’unità della carità” (Presbyterorum Ordinis, 9). O come ricorda Pastores dabo vobis: “riunire la famiglia di Dio come fraternità animata dalla carità e condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo” (74). C’è missione più grande e più bella?

martedì 17 luglio 2012

Sarà il treno giusto?


- Il primo pensiero quando sali in treno?
- Sarà quello giusto?
Sfoglio distratto “La freccia”, il mensile aziendale delle Ferrovie dello Stato e lo sguardo mi cade su quella domanda indirizzata ad una giovane donna del mondo dello spettacolo. La risposta mi ha fatto sobbalzare. Quante volte anch’io, salendo sul treno o sull’aereo, mi sono domandato: Sarà quello giusto? Non mi sarei mai immaginato che anche altri si pongono la stessa domanda. Una piccola forma di nevrosi o d’insicurezza?
Quante volte pensiamo d’essere soli ad affrontare paure nascoste o ansie inconfessate? Invece siamo tutti essere umani, che provano medesimi sentimenti di gioia, di paura, di soddisfazione…
Ho letto un articolo, da qualche parte, su i gruppi di giovani che si lasciano andare ad atti vandalici o peggio. Presi uno per uno, nessuno di loro vorrebbe fare quello che fanno insieme, ma ognuno pensa che gli altri siano diverso e che provino gusto nel compiere quell’azione malvagia. Allora ognuno vuole essere come si immagina che gli altri siano, anzi vuol mostrarsi davanti a loro ancor più accanito, in una escalation perversa.
Non immaginiamo mai che gli altri possano provare i nostri stessi sentimenti, altrimenti sarebbe così naturale fare all’altro ciò vorremmo fosse fatto e  noi, non fare all’altro ciò che on vorremmo fosse fatto a noi.

lunedì 16 luglio 2012

La festa di cugini


Con la festa dei cugini si chiude la prima settimana di eventi estivi nel giardino di casa. Non è una buona idea invitare tutti i cugini, con rispettivi moglie e mariti, a passare una serata insieme? Una volta sono venuti quelli da parte del babbo, questa volta quelli da parte della mamma (che per tutti è ormai l’ultima zia rimasta…)
A fine cena spuntano i nipoti: ci si conosce tra le diverse generazioni, si rinsaldano i legami familiari.
Momento di festa, di gioia, di ricordi, di condivisione di progetti… anche una cura preventiva per la diffusa crisi della famiglia.

domenica 15 luglio 2012

Il ponte su La Vella


Il ponte su La Vella
Quando di sotto sento sciabordare l’acqua, gongolo di gioia. Scorre limpida, con sussurri lievi, canticchiando melodie che io soltanto intendo e che mai mi suonano monotone. Mi domando da dove venga e dove vada. Me ne sto sempre qui, tranquillo, senza aver mai risalito il corso del ruscello. Non deve partire da molto lontano perché è quasi un filo d’acqua. Sono rari i giorni novembrini quando, perdendo la sua consueta calma, s’adira e vien giù gonfio di superbia. Per lo più scende lemme lemme, un rigagnolo soltanto. Ma quelle rare volte, più rinforza, più mi fa sentire importante: lo sovrasto.
Nei tempi andati c’è stato anche chi l’ha tenuto in gran conto, e temuto. Pochi metri più a valle, gli hanno delimitato la riva sinistra con mura ciclopiche, un ricordo degli antichi Etruschi, che su a monte scavavano marmo verde e modellavano terre cotte. Forse allora faceva paura.
A chi farebbe paura oggi La Vella? In questi giorni d’estate proprio a nessuno. Non mi manda giù neppure una goccia. Sento che più in alto un rigagnolo scorre ancora, limpido come sempre, ma chissà dove si perde; qui non arriva.
L'argine sinistro
È in questi momenti che mi sento completamente inutile e mi lascio andare a pensieri malinconici, fin quasi alla depressione. Tutti possono passare da un argine all’altro camminando sull’erba rasata e asciutta che copre il greto e i dolci declivi da ambo le parti. A che serve un ponte se non fa attraversare un fiume, o almeno un ruscello?
Me ne sto in silenzio, al riparo di un’acacia, di un tiglio e di una quercia, i miei tre alberi ombrosi che di tanto in tanto, agitati dalla brezza, fremono e mormorano per non farmi sentire solo.
- Ve ne sono grato, amici. So che cercate di tenermi compagnia, ma l’acqua mi manca, m’hanno fatto per lei… L’arcata elegante di mattoni non luccica più di riflessi argentei.
- Non vedi come noi ti macchiettiamo col gioco dei raggi di sole filtrati dalle foglie danzanti?
- Ve ne sono grato, amici. Ma che ci fo qui, senz’acqua?
Lo so che La Vella non è la Drina, e che io non sono il Ponte sulla Drina. La mia non è una storia secolare, degna d’essere raccontata e tramandata. Avrei qualche speranza se tu che scrivi di me fossi un Ivo Andrić! Pazienza.
Sono soltanto un piccolo povero ponte artigianale, privo d’importanza, su un fiumiciattolo privo d’importanza, che congiunge due sponde prive d’importanza: un quartieruccio di periferia e un parco pubblico che porta verso la collina sassosa, di pini stentati.
- Questa mattina, fa il tiglio, ho visto passare di corsa su di te due ragazzini che andavano a giocare sul prato. Li ho sentiti a lungo mentre si rincorrevano. Avrebbero potuto scendere sul greto asciutto e invece erano contenti di passare da te.
- Io dopo pranzo, fa la quercia, ho visto due anziani che si parlavano tra di loro dei tempi andati. Uno di qua, uno di là dal ponte, ma intanto hanno scelto te per parlarsi a distanza.
- Io questa sera, fa l’acacia, ho visto un ragazzo e una ragazza che si baciavano appoggiati al tuo parapetto, tutti e tre baciati dal sole del tramonto. Perché si saranno fermati proprio lì da te?
- Quando sono crucciato m’acceco. Quasi che l’acqua fosse la mia sola ragione d’essere. Ma forse avete ragione, amici miei. Il ponte è passaggio e incontro. Passaggio di armate o di bambini, incontri di persone importanti o d’innamorati… che importanza può avere? Sono semplicemente un ponte. Per oggi mi basta fare da ponte.

Ho scritto questo breve racconto per l’ormai consueta serata tra amici nel giardino di casa. Un’occasione per stare insieme, per condividere le proprie poesie, gli scritti tenuti nascosti nel cassetto, per mostrare le proprie creazioni artistiche. Un’occasione per rinsaldare l’amicizia.

sabato 14 luglio 2012

Sui muri la pietà popolare a Maria


Ai piedi del poggio, lungo la via, sul muro di un casolare diroccato, è incavato un tabernacolo (per quanto ancora?) dove splende una dolcissima icona di Maria che allatta il figlio Gesù. Più avanti scorgo una lapide, datata 1947, e posta da i non meglio noti G. e A. Simoni:
Ascolta o Santa Vergine
Chi il tuo soccorso implora,
assistici pietosa
adesso e all’ultim’ora,
tu dopo Dio sei l’unica
speme del mondo inter.
Nel mio passeggio ecco un altro tabernacolo, questa volta ben conservato, che ritrae l’Immacolata. Lo sovrasta una scritta, postavi da Antonio Di Leonardo Ceccatelli, li 20 ottobre 1732, che non parla tanto di Maria quanto degli effetti che il suo “sì” ha prodotto nel diavolo, antico serpe, che non avrebbe tentato Eva se avesse saputo che da quel peccato sarebbe sorta tanta grazia:
Vergine bella allor che l’alto avviso
A te l’angiol portò, come mai tinse
L’antico serpe di gran rabbia il viso.
Ah se la prima donna altero ei vinse,
odiò la sua vittoria, odiò il suo inganno,
che troppo ei n’ebbe poscia, e scorno, e danno.
Testimonianze semplici e ancora eloquenti dell’amore per Maria.

venerdì 13 luglio 2012

Dreaming California da Prato


Chi non ha mai sognato la California?
L’altra sera quattro ragazzi pratesi ci hanno accompagnato lungo le strade della California, raccontandosi il loro viaggio da San Francisco a Los Angeles, nella suggestiva cornice della Corte del Pretorio.
Il Palazzo Pretorio, per chi non fosse mai stato a Prato, è uno straordinario edificio medievale, uno dei palazzi civici più belli dell'Italia centrale, composito in mattoni rossi d'impronta duecentesca e in bianca pietra alberese di epoca tardo-gotica, con una elegante scala esterna cinquecentesca.
Sul retro del palazzo si apre un cortile, da sempre celato al pubblico, che mostra l’altra faccia del palazzo, ora finalmente restaurata. Il cortile accoglie eventi e rassegne che in questi giorni accompagnano le sere d'estate dei pratesi. Una di queste è “Cities like me”, che porterà, quanti sono rimasti a casa, in 12 città, da Los Angeles, a Lisbona, a Samarcanda...
I quattro ragazzi ci hanno raccontato la California che hanno visita nel corso di una loro tournée teatrale. L’hanno fatto con le loro testimonianze, musiche, foto, filmati… in una originale coreografia scenica. Con loro anche una donna americana ora residente a Prato.
Bello il racconto, ma più belli ancora i processi della comunicazione: immagini, parole, suoni, movimento, voce vengono elaborati in un processo di continua interazione nel quale gli spettatori sono coinvolti e presi dentro. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare… e ben vengono in aiuto le nuove tecnologie.
Bello soprattutto il ritrovarsi insieme della gente, che ha voglia di uscire, condividere, sentirsi parte viva della città.
Anche l’Orsa Maggiore è venuta a vedersi lo spettacolo, librandosi sullo squarcio di cielo che s’apre sull’antico cortile.

mercoledì 11 luglio 2012

San Benedetto a Prato


Era in via di estinzione. Ora è pieno di vita, con 12 monache, metà delle quali giovani. Il monastero delle benedettine di Prato è una riprova del vigore perenne della Regola di san Benedetto. La sua travagliata storia ebbe inizio nel 1616 per un atto coraggioso di tredici suore benedettine di un monastero vicino a quello attuale, che vollero vivere secondo la riforma del Savonarola. Tredici allora, dodici ora…
Vi sono tornato questa sera per celebrare la festa di san Benedetto. “Nulla assolutamente anteporre all’amore di Cristo”. Forse la frase più bella della sua Regola. L’ha espressa al negativo, eppure essa indica un attaccamento incondizionato a Gesù, e un invito ad un intimo personale rapporto con lui.
La bella frase della Regola… ma non è originale. Prima di Benedetto l’aveva già della sant’Antonio del deserto e prima ancora San Cipriano. Forse è proprio questa la grandezza di Benedetto, l’aver saputo far propria la grande tradizione della Chiesa, quella che alla fine della Regola lo portava a dire che quello che ha scritto è soltanto una semplice iniziazione per i principianti, per il resto occorre andare alla Scrittura quale “norma rettissima per la vita dell’uomo” e all’insegnamento di quanto hanno scritto prima di lui: Agostino, Basilio, Cassiano…

martedì 10 luglio 2012

A proposito di Caronte Scipione e Minosse


Ricevo diverse reazioni a quanto due giorni fa ho scritto sul caldo estivo.
C’è chi, come questo fedele lettore, che ha la fortuna di vivere in campagna:

È questo il bello della natura... questo alternarsi delle stagioni...
Stando a Ripalimosani, nel Molise, è come recuperare e continuare quel contatto con la natura che è un vero dono di Dio! La natura non si affanna, non fa programmi, non fa violenza, la natura ama.
In questi giorni "fervet opus"... si sta trebbiando (macchine e uomini al lavoro intenso dopo nove mesi dall'aver seminato...). Al margine della strada i camion ricevono grano, orzo... senza nessuno a guardia!
Altri campi, a fieno, sono già tagliati…

lunedì 9 luglio 2012

Prato vista dallo Sri Lanka



È piccola la mia città, ma è sempre la mia città.
Ogni volta che vi torno mi piace gironzolare per le sue strade medievali,
guardare le torri, i modesti palazzi, i monumenti ricchi di storia,
chiese e castello, mura e contrafforti,
ascoltare l’antica parlata degli anziani seduti in piazza del comune,
rivivere quell’aria Trecentesca…
È sempre bella mia città.
Ma diventa più bella ogni volta che la mostra ad amici e conoscenti,
che mi piace guidare in disimpegnate passeggiate turistiche,
guardandola con i loro occhi.
Questa volta con quelli curiosi di due giovani Oblati srilankesi.
L’incanto si moltiplica e si colora d’esotico.
Lo sguardo condiviso dà occhi diversi
e sempre fa scoprire tonalità nuove. 

domenica 8 luglio 2012

Scipione, Caronte, Minosse…: Ritroviamo il ritmo



«Ma quando finirà questo caldo?». «Alla fine dell’estate», rispondo senza esitazione. Ai primi dell’inverno sento immancabilmente ripetere l’analoga domanda, a volte con tono angosciato: «Ma quando finirà questo freddo?». Lo stesso per le piogge d’autunno…
Urbanizzati, abbiamo perduto il senso dell’alternarsi delle stagioni e la pazienza che asseconda la dovuta durata dei tempi. Non consideriamo più la pioggia come salutare fecondatrice della terra, ma come fastidioso impedimento a muoverci per strada. Non sappiamo più che il caldo è necessario per la maturazione delle messi e quindi per la nostra sopravvivenza. Non c’è più alcuna relazione tra il banco del supermercato e i ritmi della natura: c’è ancora la frutta di stagione? Si può comprare tutto, in ogni giorno dell’anno e il prodotto è del tutto slegato dal campo e dall’avvicendarsi dell’estate e dell’inverno. La globalizzazione è penetrata fin nei tempi stagionali.
L’omologazione colpisce spesso anche le stagioni della vita umana: bambini scaraventati nel mondo degli adulti, persone di “una certa età” che vogliono mostrarsi giovani ad ogni costo. E inevitabilmente un certo appiattimento raggiunge lo stesso ambito della vita cristiana: i tempi liturgici dell’Avvento, della Quaresima, della Pasqua, segnano davvero il cammino dell’anno? Abbiamo ancora la consapevolezza di essere chiamati ad un autentico cammino di vita spirituale, con le sue tappe, le sue “stagioni”, fatte di momenti di slancio, di prova, di fecondità, dalla durata non prevedibili? Anche senza una fede religiosa la persona umana necessita di un percorso di vita interiore con i tempi “invernali” di incubazione, quelli dubbiosi della “primavera” o creativi dell’“estate”.
Perché non approfittare della pausa estiva per riappropriarci dei tempi e dei ritmi? A cominciare da quelli propriamente stagionali (e godiamocelo il caldo!), da quelli che scandiscono la giornata dividendola tra notte e giorno, mattina e sera. Fino a ritmare i momenti del silenzio e della conversazione, della preghiera e del gioco, alla conquista di un’armonia di vita che dà equilibrio e senso al nostro cammino. 

venerdì 6 luglio 2012

L’altra metà del cielo



Il Cardinal Seunens, durante il Concilio, ricordò ai Padri che metà dell’umanità erano donne, mentre al Concilio di donne non se ne vedeva neanche una. Fu così chiamata Rosemary Goldie, australiana (che poi ho avuto la gioia di avere come professoressa al Laterano!), prima di altre 22 donne.
Riguardo al blog di ieri mi è stato fatto notare che ho messo soltanto foto di religiosi. In effetti la vita religiosa non è fatta, come l’umanità, metà di uomini e metà di donne: le donne sono tre volte gli uomini!  Sì, si meritavano una foto!

giovedì 5 luglio 2012

Eros, philia, agape nella nuova evangelizzazione


È appena uscito un libro curato da G. Sánchez Griese (Vita consacrata e nuova evangelizzazione. L’imprescindibile complementarietà, Edizioni Ares, Roma 2012) che riporta, tra gli altri, un mio contributo: La forza del carisma nella Nuova Evangelizzazione, p. 83-102.
Termino evocando i tre tipi di amore che stanno all’origine carisma e che devono essere sempre presenti per assicurarne la vitalità:

All’origine di ogni fondazione troviamo un eros, una passione, un’attrattiva irresistibile per un progetto evangelico e apostolico che lo Spirito fa brillare davanti al futuro fondatore o fondatrice. L’eros li strappa alla limitatezza della loro esistenza. La luce è talmente grande da non far loro considerare le difficoltà che potrebbero frapporsi alla realizzazione del sogno intravisto. Sperimentano una forza e un’audacia a cui nulla potrà resistere, nella convinzione che “Omnia vincit amor”. Senza questa passione non può nascere nessun progetto di nuova evangelizzazione.
Perché la spinta potente dell’eros possa concretizzarsi nell’opera a cui i fondatori sono chiamati, occorre che quell’amore si trasformi in philia. L’idea luminosa, la passione per attuare il progetto intravisto, deve essere comunicata e condivisa con altri. Accanto al detto di Virgilio potremmo citare quello altrettanto famoso di Aristotele: “Tra gli amici tutto è comune”. A differenza di un artista, mosso anch’egli dall’eros creativo, il fondatore non persegue da solo la propria intuizione, non crea la propria opera d’arte come espressione di genio solitario. Piuttosto sa coinvolgere altri, attorno a sé, infondendo in essi le medesime idealità; li fa vibrare all’unisono e con loro dà vita ad una nuova creazione. Senza questa condivisione, che si fa comunione fino alla ricerca comune, non prende corpo il progetto di una nuova evangelizzazione; essa è necessariamente espressione di un gruppo di amici, di compagni, di fratelli.
Mosso dall’eros e sostenuto dalla philia il fondatore, e con lui il suo progetto, non ha futuro se l’amore non trova la sua terza espressione, l’agape. Nell’impatto con la realtà cruda del mondo verso il quale il fondatore è attratto, nelle difficoltà che possono sorgere all’interno della comunità, nelle contrarietà sul versante sociale ed ecclesiale, l’eros iniziale può oscurarsi, la philia sembra venir meno. Perché il progetto vada avanti occorre adesso essere mossi dalla fede nella cose che più non si vedono, dalla volontà di donazione senza limiti alla causa: dall’agape, appunto. Dopo quello di Virgilio e di Aristotele, conviene ora citare Gesù stesso: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). L’amore, fatto agape, è pronto al sacrificio, al dono di sé.
È questa terza espressione dell’amore, l’agape, ad assicurare alla nuova evangelizzazione la sua riuscita.

mercoledì 4 luglio 2012

Il Castello esteriore di Chiara Lubich


L’Osservatore Romano ha pubblicato l’intervento di Bruno Moriconi alla presentazione del libro di Jesús Castellano, Il Castello esteriore (a cura di F. Ciardi). 
Per leggere l’articolo clicca qui

martedì 3 luglio 2012

I sentimenti di Gesù: la misericordia


“Dio è grande nell’amore e ricco di misericordia”, ci dicono i salmi.
Gesù, con il cuore d’uomo, ce lo ha fatto vedere.
Ha misericordia dei peccatori e dei malati, delle vedove in pianto, delle folle errante e affamate.
C sono due pagine soprattutto del vangelo che meglio di tante altre mostrano il cuore di Gesù:
La donna colta in adulterio. Gesù non le fa la predica, le dice soltanto: Nessuno di condanna? Neppure io. Che signore, il Signore!
Il ladrone: Oggi sarai con me in paradiso. Quanta fretta: oggi! Che dolce compagnia: con me. Che dono straordinario: il paradiso.
Si può essere può amore di così?

lunedì 2 luglio 2012

I sentimenti di Gesù: la “com-passione”


Il mese di giugno è terminato, ma non è mica finita la contemplazione del cuore di Gesù!
Tra i suoi sentimenti (sentimento, da “sentire”, percepire con i sensi, e Gesù era vero uomo, aveva i sensi con cui percepire!) uno dei più belli è la compassione, nel senso etimologico della parola: entrare nel mondo delle persone e della società, condividerne le ansie, i problemi, i bisogni, fino a “sentire” le stesse “passioni”, ad avere lo stesso “pathos”. Egli prova compassione davanti alle folle (Lc 4: 14-22), le percepisce stanche, sbandate, senza una guida. In altre pagine il Vangelo racconta che, mosso dalla compassione, Gesù vive la “com-mozione”, si “muove verso” di loro, risponde alle attese e si fa maestro per insegnare la verità, pastore per indicare la via, medico per risanare le malattie e pane per saziare la fame e donare la vita (cf. Mt 9: 35-38).
Ha un cuore per sentire quello che noi sentiamo (ci capisce! Quante volte ci lamentiamo del fatto che nessuno ci capisce fino in fondo) e per muoverlo verso di noi (ci viene accanto e vive con noi, fino a vivere con noi e ad aiutarci).
Proprio un cuore che batte all’unisono con noi.