venerdì 31 gennaio 2014

Francesco, un papa “glocal” 3/3


Il vescovo di Roma, perché così locale, appare più che mai globale, nel superamento della tensione tra globalizzazione e localizzazione di cui parla al n. 235, per evitare i due estremi: un universalismo astratto da una parte, un museo folkloristico dall’altra. Il rischio maggiore sembra quello di lasciarsi intrappolare nel particolare, fino ad essere «condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio dif­fonde fuori dai loro confini». Ed ecco la felice conclusione: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia». 

giovedì 30 gennaio 2014

Francesco, un papa “glocal” 2/3

Ho associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma.
Nello stessi tempo, quando nella sua Esortazione apostolica riferisce il pensiero dei diversi episcopati, il papa mostra di possedere uno sguardo e un interesse universali. L’affermazione del suo essere vescovo di Roma e della volontà di decentralizzazione, che colloca nuovamente al loro giusto posto gli episcopati locali, non contraddice la sua vocazione universale. Perché vescovo di Roma è pastore della Chiesa universale. Lo dice innanzitutto, anche se indirettamente, indirizzando la sua lettera a tutti i vescovi, presbiteri e diaconi, persone consacrate e fedeli laici. Si rivolge a tutta la Chiesa e a tutte le Chiese, mosso dalla sollecitudine universale che gli è propria. Inoltre, se cita gli episcopati mondiali, molto più cita i suoi predecessori, a cominciare da Paolo VI.

Proprio in questa Esortazione c’è un passaggio nel quale afferma esplicitamente questa sua missione “globale”, là dove invita a prestare attenzione e a essere vicini alle nuove forme di povertà e di fragilità. In esse siamo chiamati a «riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati». Dopo aver enumerato varie povertà papa Francesco nomina i migranti che, appunto in quanto tali, non sono più localizzabili in una Chiesa locale, ma si ritrovano sbattuti da un Paese all’altro. Chi è il loro pastore? A questo punto ne rivendica l’appartenenza e rivela il suo cuore paterno capace di andare al di là delle frontiere: «I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti» (n. 210). Mentre scriveva queste righe avrà forse pensato alla sua visita a Lampedusa, o all’esperienza della propria famiglia naturale? La sua paternità qui si confonde con la maternità, che come tale abbraccia il mondo intero.

mercoledì 29 gennaio 2014

Francesco, un papa “glocal” 1/3


“Glocal”. Il neologismo coniato dal sociologo Zygmunt Bauman mi è venuto alla mente leggendo l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. La glocalizzazione o il glocalismo, barbara traduzione italiana, tendono a comporre globalizzazione e localizzazione come esigenze correlate della società contemporanea: tutelare e valorizzare identità, tradizione e realtà locali nel più ampio orizzonte mondiale.
Ho associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma. Tale si è subito dichiarato, la sera stessa, dalla loggia vaticana, rivolgendosi alla folla radunata in piazza san Pietro. Nel suo saluto ha volutamente omesso la parola “papa”, che richiama la funzione universale del ministero petrino. Da allora, come vescovo di Roma, nelle omelie e nei discorsi, ha continuato a usare esclusivamente la lingua italiana, nonostante sappia parlare altre lingue, a cominciare da quella materna, lo spagnolo. Tanti dei suoi gesti concreti tendono a demitizzare una immagine troppo ieratica del papa. Nell’Esortazione apostolica invita a non parlare «più del Papa che della Parola di Dio» (n. 38), affermazione ovvia, ma non molto ricorrente.
Come tiene a sottolineare che è vescovo di Roma, così papa Francesco mette sempre più in luce la responsabilità e la corresponsabilità degli altri vescovi locali, avvertendo, come afferma esplicitamente nell’Evangelii gaudium, «la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (n. 16). Si tratta, a suo giudizio, di «una conversione del papato»: «A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (n. 32).
Nello stesso n. 32 ripete la necessità di «una conversione pastorale» da parte del papato e delle strutture centrali della Chiesa universale. Riferisce in proposito il pensiero del Concilio Vaticano II che le Conferenze episcopali, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, «possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”». Ma questo auspicio «non si è ancora pienamente realizzato, perché non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria».
Pochi numeri prima Francesco aveva affermato: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (n. 16). Analogamente scrive che «Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”» (n. 51).

Un ulteriore segno rivelatore della sua volontà di collegialità sono le frequenti citazioni e i riferimenti ai documenti dei vari episcopati che appaiono nella sua Esortazione. Prima di tutto alla V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi e al Documento di Aparecida del 31 maggio 2007; egli stesso ne aveva curato la redazione; ma anche al Documento di Puebla (23 marzo 1979). Riferisce inoltre il pensiero delle Conferenze episcopali e delle loro commissioni di studio degli Stati Uniti (n. 64, 220), Francia (n. 66, 205), Brasile (n. 191), Filippine (n. 215), Congo (n. 232), India (n. 250), Argentina (n. 263). Anche quando cita le esortazioni apostoliche post-sinodali pontificie, ha sempre cura di ricordare che sono stati i vescovi a suggerire quella o quell’altra affermazione, così per Ecclesia in Oceania, in Africa, in Asia, in Medio Oriente, in Europa.

martedì 28 gennaio 2014

La prova dell’esistenza del Paradiso

Sto leggendo la storia degli inizi degli Oblati, scritta nel 1871. Un breve capitolo traccia la biografia di uno dei primi giovani che si unì al gruppo iniziale e che, a causa della saluta fragile, rimase ad Aix per più di 40 anni. Divenne il padre spirituale della città, molti andavano a chiedere consiglio da lui, predicava nelle varie chiese della città…
Sono stato in archivio a cercare le sue carte e ho trovato un blocco di quaderni con note scritte a partire dal 1833, con una calligrafia bellissima e ordinata, su tanti temi che erano oggetto delle sue conversazioni e omelie. Leggerle è un’impresa perché la scrittura è piccola e sbiadita. Chissà quante cose belle ci sono. Nessuno leggerà mai quei fogli… Eppure rivelerebbero una persona di grande statura.
Così ho capito che deve esistere il Paradiso. Altrimenti tanta umanità andrebbe perduta per sempre. Il desiderio di conoscere in profondità p.Ippolito Courtès non può essere disatteso, deve realizzarsi, il Paradiso deve esserci! In Paradiso non ci saranno i suoi scritti, ma lui stesso, così come Dio lo ha pensato e voluto, nella pienezza del suo disegno realizzato. E come lui tanti altri… Sarà un Paradiso!
Come anticipo di Paradiso gusto una briciola dei suoi pensieri:
“Se non prega, il cuore si secca… Lo Spirito Santo è luce; è lui che dona i sensi per gustare il divino. Occorre dunque ritirarsi nel nostro cuore per amare e per pregare; là, ascoltiamo la parola di Dio e, dietro sua ispirazione, le azioni saranno più sante, l’ascendente sui fratelli più decisivo”.
“Mio Gesù, mia vita, mia luce, Verbo incarnato, posso ascoltarti senza credere in te? Tu la perfezione ideale, tu che hai vissuto e sei morto come Dio fatto uomo, ti abbraccio con tutte le forze della mia intelligenza, ti amo e ti benedico con tutte le forze del mio cuore”

lunedì 27 gennaio 2014

Eravamo liceali…

Fabio a sinistra, Oliviero a destra

3 luglio 1968. Erano appena iniziati gli esami di maturità classica. Il fotografo del giornale “Il lavoro”, poi incorporato nel quotidiano “La Repubblica”, scattò una istantanea a me e ad alcuni miei compagni. Da allora non li ho più rivisti.
Dopo quasi 50 anni ricompare improvvisamente uno di loro. Mi ha rintracciato tramite il mio blog e mi ha mandato una e-mail con alcune foto di allora. Quasi non mi riconosco in quel ragazzo liceale.
Scopro così che Oliviero Arzuffi è docente di letteratura italiana e consulente editoriale presso importanti realtà istituzionali, autore di numerosi testi riguardanti tematiche sociali. Tra i più conosciuti: Emarginazione A-Z; Alla ricerca dell'utopia; Oltre le sbarre; Poesia della vita. Oltre ai saggi di natura sociale è autore di Armaghedon (trilogia drammatica) e di Escaton, premio speciale della giuria a Stresa nel 1998.
La sua ultima opera, recentissima, si intitola “Caro Papa Francesco. Lettera di un divorziato”, Oltre edizioni, Sestri Levante 2013. In essa Oliviero, divorziato risposato, utilizzando la formula confidenziale della «lettera aperta» si rivolge, con tono rispettoso ma fermo, al Papa, invitandolo a rivedere la disciplina tuttora vigente nella chiesa cattolica. Ne fa una interessante sintesi il teologo moralista Giannino Piana sulla rivista “Rocca” del 15 Ottobre 2013.
Oliviero, in pagine suggestive e coinvolgenti, delinea gli stati d’animo che hanno il sopravvento in chi è andato soggetto a tale esperienza: dalla perdita dell’autostima all’affiorare di pesanti sensi di colpa (accentuati dalla presenza dei figli), dalla solitudine e dal disadattamento alla paura e alla trepidazione con le quali si va incontro alla nuova scelta.
Facendo riferimento alla propria esperienza diretta e rivendicando, nello stesso tempo, il diritto-dovere del laico di far sentire la propria voce nella chiesa – diritto-dovere ribadito peraltro con forza dai testi del Vaticano II –, si fa poi interprete del profondo disagio che affligge i divorziati risposati e propone una sua lettura dei testi evangelici nei quali distingue tra norma-precetto e norma escatologico-profetica. La prima ha il carattere di norma chiusa, alla quale occorre aderire incondizionatamente, senza alcuna limitazione; la seconda è, invece, una norma aperta, che va opportunamente mediata di fronte a situazioni particolari e che spinge costantemente l’uomo in avanti e lo sollecita ad un impegno di permanente conversione.
Non si tratta, certo, di rinunciare a ribadire con forza l’ideale verso il quale ogni cristiano deve tendere mettendo in campo tutte le proprie energie; si tratta, più semplicemente, di tenere in seria considerazione la complessità delle situazioni umane, non sottovalutando il fatto che l’amore coniugale è una realtà fragile, soggetta a molti condizionamenti, una realtà che va pertanto custodita con grande cura; e che, a sua volta, la fedeltà non è un dato acquisito una volta per tutte ma una conquista quotidiana.

Attendiamo tutti con fiducia il prossimo sinodo sulla famiglia per vedere aprirsi nuove prassi pastorali.

domenica 26 gennaio 2014

La comunità di Aix era veramente una famiglia

La stanza della prima comunità di Aix

Oggi domenica, abbiamo avuto modo di festeggiare il 198° anniversario dell’inizio della nostra comunità di Missionari Oblati di Maria Immacolata, nata ad Aix-en-Provence il 25 gennaio 1826. Uno dei primi membri ci ha lasciato la sua testimonianza entusiasta:

“La comunità di Aix era veramente una famiglia. Tutti vivevano della stessa vita, e tutti i cuori si aprivano sotto i raggi di un medesimo sole. Essi erano come riscaldati senza posa dall’affetto di un padre le cui attenzioni per tutti era ciò che di più attraente si può immaginare… Il “Cor unum et anima una” che il Fondatore raccomanda nelle Regole, come una delle caratteristiche della sua Congregazione, era veramente il segno distintivo di questa piccola comunità che cercava in mezzo a mille difficoltà esterne di gettare le sue prime radici per elevarsi in seguito sino al punto in cui a Dio sarebbe piaciuto innalzarla…
Le firme dei primi cinque nel documento di fondazione,
il 25 gennaio 1816
 I membri di questa piccola famiglia, stretti attorno al loro superiore, quasi come i pulcini sotto le ali della chioccia, offrivano uno spettacolo commovente per i legami di amore che unendoli al loro superiore li univa tra loro. Erano proprio l’immagine dei primi cristiani così come ce li rappresentano gli Atti degli Apostoli. Non c’era rivalità, né ricerca di se stesso, ne pregiudizi verso gli altri, ma la gioia e quasi l’orgoglio dei successi di un fratello… Era in piccolo la più perfetta comunione dei santi” (Jacques Jeancard, Mélanges historiques, p. 26‑29).

È una visione idealizzata? Se lo fosse (al pare di quella della prima comunità cristiana di Gerusalemme descritta da Luca negli Atti degli apostoli) vorrebbe dire che questa non è la descrizione di come era veramente la comunità alle origini, ma di come dovrebbe essere la comunità di sempre.

sabato 25 gennaio 2014

San Paolo che lega date diverse in misterioso legame




La "via dritta" di Damasco
Nella casa di Anania dove Paolo fu battezzato
25 gennaio 1947. La guerra è terminata da un anno e mezzo. Diciottenne, Rosanna per la prima volta, accompagnata dal fratello Olando, si reca in visita a quello che sarà il mio paese natale, San Paolo. Vi si celebra la festa del santo patrono. L’occasione più adatta per incontrare la famiglia del fidanzato e  pranzare nella sua casa.
È l’inizio di una vita nuova.

Metà anni 30. Saulo di Tarso è finalmente in vista di Damasco. La città dista da Gerusalemme 200 chilometri, meno che tra Roma e Firenze, ma ha impiegato ben otto giorni di viaggio. Nonostante i dipinti del Caravaggio, si muoveva a piedi, non a cavallo, prerogativa esclusiva della cavalleria militare. Una luce lo folgora e una voce lo chiama: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”
La via regia vicino a Damasco
È l’inizio di un cammino nuovo per la Chiesa.

21 settembre 2008. A Damasco con 37 Vescovi appartenenti alla Chiesa ortodossa, siro-ortodossa, Comunione anglicana, Chiesa metodista, Chiese evangeliche luterane, Chiesa cattolica  (rito latino, rito greco melkita, siro, rito maronita). 13 Chiese, 16 nazioni, dall’Islanda all’Australia.
Il "patto" tra i vescovi
Visitiamo la casa di Anania, le mura della città, in particolare il luogo dal quale la tradizione vuole che Paolo sia stato calato nella cesta. Infine, la chiesa della memoria di Paolo, alla periferia di Damasco, dove, lungo un tratto dell’antica “via regia”, la tradizione indica il luogo della conversione dell’Apostolo. Attorno alla “memoria” i vescovi pronunciano un “patto d’unità”, con la promessa del costante amore reciproco tra di loro. Una liturgia semplice e toccante: la lettura dell’inno alla carità di Paolo in aramaico, greco, inglese, francese; la recita del credo Niceno-Costantinopolitano nell’originale greco; la formula del “patto”, l’abbraccio fraterno. Attorno il popolo che partecipa e applaude. È l’inizio di una nuova speranza, che oggi, al termine della giornata di preghiera per l’unità dei cristiani non posso non ricordare.


venerdì 24 gennaio 2014

Settimana dell'unità


Ieri sera sono stata alla preghiera ecumenica. Mi faceva una gran fatica uscire dopo cena. Non ricordandomi dell'appuntamento avevo messo dentro al cortile l'automobile e solo il pensiero di doverla ritirare fuori.... Cose piccolissime che a volte ci bloccano. Apro il computer e leggo: “Se stasera vieni passo a prenderti”. Rispondo subito di sì. 
Quell'ora è stata molto bella come ogni anno. Questa volta i canti erano eseguiti da ragazzi molto giovani di un coro misto cattolico evangelico, con tanti strumenti; hanno unito tutta l'assemblea in una preghiera gioiosa. I Pastori, il Vescovo e il Sacerdote ortodosso non potevano fare a meno di muoversi al ritmo battendo le mani.
Purtroppo ci troviamo soltanto una volta all'anno ma almeno per questa occasione non potevo mancare io che dico di voler dare la vita per l'Unità.

Una bella testimonianza, giuntami a seguito del blog di ieri

giovedì 23 gennaio 2014

Madre dell’unità



La hall dell’hotel Claret è gremita per la conferenza semestrale del Claretianum, tenuta questa volta da Giacomo Perego, direttore editoriale della San Paolo. A seguito dell’Esortazione apostolica di Papa Francesco, il tema è quello della gioia dell’evangelizzazione nell’esperienza di Paolo.

Qquello che mi sono portato via da questa serata di studio è soprattutto il casuale riferimento alla presenza di Maria nel cenacolo dopo la risurrezione. Gli Atti degli apostoli descrivono i tre gruppi che compongono quanti sono radunati nel cenacolo: i Dodici, le donne, i fratelli di Gesù. Tre gruppi molto diversi tra loro, ognuno dei quali rivendicava un particolare rapporto con Gesù: i Dodici d’essere stati tre anni con lui, le donne di essere le più fedeli, i familiari l’appartenenza alla stessa famiglia. Chi ha la capacità di tenere uniti fa unità questi tre gruppi? “Maria, la madre di Gesù”: è la discepola per eccellenza, più dei Dodici, la più fedele tra le donne, che lo ha seguito fin sotto la croce, colei che come nessun altro fa parte della sua famiglia naturale. Da quel momento è Madre dell’unità.
 Tocca a lei, anche oggi, fare unità tra le Chiese divise. 

mercoledì 22 gennaio 2014

L’infinito tutto di Vincenzo Pallotti

San Salvatore in onda. La denominazione della chiesa, ricordata già nel 1127, richiama le continue inondazioni del Tevere sulle cui rive è stata costruita. Basta scendere sotto il presbiterio, attraverso la scala medievale, per ritrovarsi in un piccolo ambiente con colonne, trabeazioni e capitelli incassati all’interno delle murature: siamo nel luogo dell’antica chiesa del XII secolo. Ma sul pavimento si apre una botola, si scende ancora più in basso, e ci si ritrova all’inizio del primo millennio, ne periodo di Traiano (98-117), quando lungo le rive del Tevere si allineavano negozi e piccoli magazzini per lo stoccaggio delle derrate alimentari che giungevano in città grazie alle imbarcazioni che risalivano il fiume. Anche oggi, scendendo per scale e botole, mi sono tuffato nel passato.
Ma sono stato a san Salvatore in onda perché volevo tuffarmi in un passato più recente, di appena duecento anni (cosa sono duecento anni con due millenni sotto i piedi?). Oggi è la festa di san Vincenzo Pallotti e non potevo non fare un salto a salutare lui e gli amici Pallottini. Sono sì sceso nei sottosuoli, ma soprattutto sono salito nelle stanze del santo, conservate come quando lui vi dimorava.
San Vincenzo Pallotti, il “santo romano” per eccellenza.
Le parole del suo dizionario che più mi colpiscono sono tutto e infinito.

Il tutto di san Vincenzo è innanzitutto il tutto di Dio. «Dio mio, tutto tutto tutto...», lo sentiamo ripetere sovente. È capace di continuare a scrivere e a ripetere indefinitamente - lui vorrebbe che fosse infinitamente - la parola tutto, quasi a scandagliare la vastità insondabile del mistero divino. Per sottolineare il tutto di Dio congiunge a tutto la parola solo: «Dio tutto, tutto, tutto...», ma anche «solo, solo, solo...», quasi ad eliminare ogni possibile concorrenza al tutto di Dio.
La santità di Vincenzo Pallotti è il riconoscimento, nel vissuto, dell'unicità e della totalità di Dio.
Il tutto di Dio diventa allora il tutto della creatura, in quanto essa viene resa partecipe di quel tutto. La convinzione di questa osmosi è affermata da queste parole lapidarie: «La vita del Padre è mia, la vita del Figlio è mia, la vita dello Spirito Santo è mia, la vita della Santissima Trinità è mia». Pallotti appare costantemente pervaso e quasi ossessionato da questa totalità.

La seconda parola, infinito, correlata a tutto, fa intravedere la dimensione forse più originale della spiritualità di san Vincenzo. Parla di «infinita perfezione», di «infinita fede, infinita speranza, infinita carità», «infinite eternità»; vuol dare a Dio una «gloria infinitamente grande»; è disposto a «patire infinitamente»; vuole vedere dilatati all'infinito i suoi desideri.

Somma passato e futuro nell'illusione di dilatare il tempo all'infinito. Suddivide il tempo in attimi infinitesimali per fare di ogni attimo infinitesimale un infinito, così che dalla loro somma scaturisca un infinito degno dell'infinito di Dio. Vorrebbe moltiplicare le creature all'infinito perché salga a Dio una lode infinita. Vorrebbe appropriarsi di tutto il bene delle creature passate presenti e futuri e moltiplicate all'infinito... «Vorrei amare Dio e averlo amato con perfezione infinita, da tutta l'eternità e per tutta l'eternità. E intendo che ciascuna creatura, infinitamente moltiplicata, con perfezione infinita, ami Dio. Vorrei possedere infinite ricchezze, per donarle tutte, per amor di Dio».

martedì 21 gennaio 2014

Papa Francesco come Gesù




“Francesco è il Papa dei poveri, degli ammalati, di coloro che hanno bisogno”.
Queste parole di Michael Novak sul “Corriere della Sera” dicono, tra le righe, la delusione di un intellettuale che vede il papa muoversi su una dimensione più pastorale che magisteriale.
A me invece, leggendole, mi è venuto da dire “Proprio come Gesù, venuto per i poveri, egli ammalati, coloro che hanno bisogno”.

Come se la pastorale di papa Francesco non fosse un grande magistero.

lunedì 20 gennaio 2014

Etty Hillesum parla ancora



"Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani… L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio… Continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal io territorio”.
Quando una trentina d’anno fa uscì in italiano il diario di Etty Hillesum lo lessi d’un fiato. Oggi mi capitano sotto gli occhi queste sue note scritte il 12 luglio 1942. Parlano ancora.

domenica 19 gennaio 2014

La gioia di san Gabriele dell’Addolorata




“La mia vita è una continua gioia; la contentezza che provo dentro queste sacre mura è quasi indicibile; le 24 ore della giornata mi sembrano 24 brevi istanti; davvero la mia vita è piena di gioia”
Queste parole scritte dal giovane Francesco alla famiglia sembrano contrastare fortemente con il nome assunto entrando tra i passionisti: Gabriele dell’Addolorata.
Per la prima volta ieri, tornando da Teramo, sono passato velocemente dal santuario che custodisce le sue spoglie, ai piedi del Gran Sasso. Ho visto la cella nella quale ha vissuto, il coro dell’antico convento, il santuario primitivo, con l’urna del santo, il santuario nuovo, il salone con gli ex voto ricchi di ingenua e intensa fede di migliaia di pellegrini.

I picchi innevati scintillanti sotto i raggi del sole, il silenzio e la gran pace che irradia l’ambiente, il cielo terso, mi hanno reso, per pochi attimi il mondo bello e aspro nel quale Gabrielle a vissuto e si è fatto santo a 24 anni.

Lasciando il santuario andiamo incontro al Gran Sasso che, come disse Giovanni Paolo II visitando il santuario, “con la sua ardita impennata invita non solo a compiere escursioni turistiche, ma anche ascensioni spirituali”.

sabato 18 gennaio 2014

Tommaso Sorgi: del popolo, non a nome del popolo


Aveva 31 anni quando, nel 1953, fu eletto Deputato della Repubblica. “Distanziai di molto gli altri candidati perché durante i comizi – allora non c’era la televisione – la gente aveva capito che non mi presentavo in nome del popolo, ma era uno del popolo”.
Così mi ha raccontato questa mattina Tommaso Sorgi (allora lo chiamavano Tommasino), che sono andato a trovare nella sua casa a Teramo. Ha ormai la sua bella età, ma è ancora piacevole conversare con lui, rimasto sempre semplice, di grande dirittura morale, schivo, senza pretese. Il suo conversare sereno e profondo, assieme all’imperturbabile sorriso, infondono pace nell’anima. 
Dopo essere stato rieletto per la quarta Legislatura, decise di non presentarsi alle elezioni del 1973 perché la corruzione era ormai dilagante e non si riconosceva più in quel mondo.
Da quando nel 1980 fu istituito il Centro Igino Giordani ne è stato il direttore, e ha lavorato con passione per far conoscere questo altro grande testimone del XX secolo. “Sorgi conosce Giordani meglio di quanto Giordani conoscesse se stesso”, mi ha spesso ripetuto Basilio Petrà. Fra pochi giorni uscirà il suo ultimo lavoro, la grande biografia: “Igino Giordano, l’uomo che divenne Foco”.

Sul comodino, accanto al letto, la cartella con i fogli su cui Tommaso sta lavorando: “La maternità di Dio”. “Mi colpirono le parole di Giovanni Paolo I – racconta – quando disse che Dio, oltre ad essere Padre, è anche Madre. Da allora ci ho pensato spesso ed ora scrivo su questa realtà di Dio”. Lasciandolo mi è sembrato di scorgere anche in lui un tocco della maternità divina.

venerdì 17 gennaio 2014

Prisca, la prima santa romana

Giunto a Corinto, nel settembre dell’anno 50, per prima cosa Paolo cercò un lavoro e lo trovò nell’impresa di Aquila e Priscilla, una coppia di ebrei cristiani che avevano dovuto lasciare la loro casa sull’Aventino a Roma. L’imperatore Claudio nel 49 aveva emesso un editto di espulsione nei confronti degli ebrei “insorgevano in continuazione istigati da un certo Chrestos”, come scrive Svetonio. I due commercianti romani erano appena arrivati a Corinto e già avevano attivato la loro azienda nella quale Paolo poté esercitare il suo mestiere di tessitore di tende. Avevano portato con sé anche la figlioletta Prisca? Stesso nome della madre, che Paolo amata chiamare col diminutivo di Priscilla. Da Corinto accompagnarono l’Apostolo ad Efeso per aiutarlo nella sua missione di evangelizzazione.
Pochi anni dopo, nel 54, dopo la morte di Claudio, li ritroveremo di nuovo a Roma dove possono accogliere nuovamente l’Apostolo che vi fa il suo ingresso da prigioniero.
Le fondamenta della loro casa romana ci sono ancora, sotto la chiesa che porta il nome di santa Prisca e tradizione vuole che, prima della cacciata dalla città nel 46, la famiglia fosse stata battezzata attorno all’anno 42 da san Pietro (lo racconta anche il quadro sull'altare maggiore). La figlioletta, Prisca, aveva allora 13 anni. Gesù era morto da appena 9 anni.
La casa della coppia cristiana era diventata nel frattempo “chiesa domestica”, uno dei primi luoghi dove si ritrovava la comunità cristiana. Già ad Efeso avevano fatto della loro casa un centro di incontro, come scriveva sempre Paolo agli amici lasciati a Corinto: “Le comunità dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca con la comunità che si raduna nella loro casa” (1 Cor 16,19).
Prima di arrivare a Roma, l’Apostolo scriveva ai cristiani della città imperiale: “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo, i quali hanno esposto la loro testa per salvarmi la vita. Ad essi devo rendere grazie non solo io, ma anche tutte le chiese dei gentili” (Rm 16, 3).
Prisca, la figlia di Priscilla e Aquila, sarebbe stata la prima martire romana; la prima, come dice il suo stesso nome, Prisca; oppure il suo nome si riferisce al “primo” frutto del lavoro missionario di Pietro a Roma. Sepolta sulla via Ostiense, nelle catacombe di Priscilla, le più antiche di Roma, quando il suo corpo fu ritrovato venne trasportato nella sua vecchia casa, poi diventata chiesa a tutti gli effetti.
Leggende, storie vere poi romanzate? In ogni caso questa coppia di laici cristiani ha lasciato una testimonianza straordinaria di dedizione al Vangelo, e la loro figlia, la giovane Prisca, si è conquistata il primato della testimonianza del sangue.

Com’era l’Aventino duemila anni fa? Uno dei più bei colli romani, immerso nel verde, un po’ appartato dall’agitata vita cittadina. Lo divide dal Palatino la valle nella quale si stende il Circo Massimo e più avanti le Terme di Caracalla. Da una parte il colle dei palazzi imperiali – il Palatino, dall’altro quello dei mercanti forestieri, arricchitisi con il commercio, primi fra tutti gli ebrei – l’Aventino. Fu questa massiccia presenza di mercanti ebrei, favoriti nei loro mercati dal porto sottostante sul Tevere e dal suo emporio, a fare di questo luogo il centro del primo cristianesimo romano.
Se vuoi correre devi andare in valle, tra il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. Ma se vuoi una passeggiata tranquilla, devi salire sul colle e anche oggi, come duemila anni fa, ti ritrovi in un altro mondo: il giardino degli aranci, le grandi basiliche silenziose di santa Sabina, di sant’Alessio, dei Benedettini, il parco dei Cavalieri di Malta… e la chiesa di santa Prisca.
La chiesa di oggi non ha più nulla dei primi secoli, completamente ristrutturata in stile barocco. Basta tuttavia scendere negli scavi e pochi tocchi ricreano il fascino misterioso degli inizi: il capitello usato da Pietro come fonte battesimale (veramente è di molto più tardi, dell’epoca degli Antonini, ma va bene lo stesso…), il bronzo con decreti onorifici (questo sembra sia davvero della casa di Aquila e Priscilla!), qualche antica colonna… Ma vi scenderemo un’altra volta e scopriremo anche il Mitreo di Roma meglio conservato. Eh sì, perché queste piccole facciate di chiesette, alle quali non daresti due soldi, nascondono tesori impensati.
Per oggi, 18 gennaio, festa di santa Prisca, basta goderci la storia di questa famiglia cristiana… e anche la passeggiata all’Aventino!

giovedì 16 gennaio 2014

Il ricordo che mantiene vivi i morti


La penultima volta che sono stato a Santa Maria a Vico, ho notato, nei lunghi corridoi luminosi, un ritratto di padre Antonio Gentile. Mi è piaciuto particolarmente e l’ho fotografato. Poi sono andato a cercare tra le mie vecchie foto e ne ho trovata una che gli avevo scattato tanti anni fa, proprio in uno di quei corridoi dove ora è appeso il ritratto.
Ora che anch’io mi sto facendo vecchio, mi ritrovo spesso a ricordare persone che ho conosciuto. Mi fanno compagnia e ho come l’impressione che il loro ricordo le renda ancora vive e presenti. Capisco come nei popoli antiche la memoria dei morti fosse essenziale per consentire loro di continuare a vivere.

Questa sera ricordo padre Antonio Gentile ed egli, in ringraziamento del ricordo che ho di lui - perché tra cielo e terra c'è l'amore scambievole -, da fine letterato mi dona una sua poesia:

Infilo paziente
le perle
dei miei giorni
uguali
come grani
d’un rosario
luminosi
di fede
segnati
da speranza
ravvivati
dall’amore
in attesa
del fulgore
eterno.


Al termine della poesia ha annotato un pensiero di sant’Agostino: “La tristezza è il ricordo di me; la gioia è il ricordo di te, o Signore”.

martedì 14 gennaio 2014

Un viaggio tra Roma, Thailandia, Guatemala, Laos, Sri Lanka


Perché non sfogliare l’ultimo numero della rivista Missioni OMI?
Tra l’altro si potrà trovare:

- Studiare la missione. Intervista alla professoressa Morali della Pontificia Università Gregoriana di Roma
- Thailandia. Intervista a p. Claudio Bertuccio OMI
- Guatemala. Un giro al mercato con p. Pippo Mammana OMI
- Un racconto sul martirio di p. Mario Borzaga in Laos
- La mia solita “cartolina missionaria” dallo Sri Lanka

lunedì 13 gennaio 2014

Raddoppiato il numero dei cardinali oblati


Il Vescovo Quevedo è il secondo da sinistra

Sì, perché ne avevamo uno, Francis George di Chicago, ed ora eccone nominato un altro, Orlando B. Quevedo, Arcivescovo di Cotabato nelle Filippine. Ci sono stati altri tre cardinali oblati nella nostra storia: Guibert (Parigi), Villeneuve (Québec), Cooray (Colombo).

Ho incontrato mons. Quevedo nel sud delle Filippine, dove ha avviato un dialogo a tutto campo con i musulmani, ha lavorato molto per la pace, ha creato le comunità ecclesiali di base sull’esempio dell’America Latina. Quando è a Roma passa da casa nostra e sta con noi con la sua consueta semplicità. Insomma, un po’ alla papa Francesco.

domenica 12 gennaio 2014

Il raccoglimento di apa Pafnunzio


Ad apa Pafnunzio piaceva la parola raccoglimento. Non aveva niente di intimista, di ripiegamento su se stesso, anche se nella sua etimologia significava portare di nuovo a sé in unità. Portare a sé, ma non per essere lui al centro, quando piuttosto per permettere a pensieri, affetti, cose di trovare l’unità tra di loro. Gli piaceva soprattutto questo richiamo all’unità insito nel termine. Tutto il contrario della dispersione, dove le cose vanno ognuna per conto proprio, perdendo il legame tra di loro.
A volte, durante la preghiera o il lavoro, si accorgeva di essere distratto. At-tratto da pensieri, ricordi, preoccupazioni si lasciava attirare di qua e di là e si smarriva. Andava dietro le cose diventandone schiavo. Non era più padrone di se stesso e si sentiva diviso, perdendo l’unità interiore. Il contrario del raccoglimento era infatti la dissipazione, parola che significa gettare via. Se il raccoglimento “raccoglie” le realtà con le quali si è in contatto e le porta all’unità, la dissipazione le “disperde” ponendole in contrasto tra di loro, alla disunità.
Aveva allora escogitato una tecnica particolare. Quando durante la preghiera gli tornava alla mente una persona conosciuta, non si lasciava attrarre da lei, e quindi distrarre, ma la attirava a sé e la introduceva nella sua preghiera, la raccoglieva nell'unità. Così quando sentiva l’ululato della volpe del deserto non si turava le orecchie per non sentire, ma raccoglieva anche lei nella sua preghiera, la introduceva nell’unità.

La sua interiorità si arricchiva di giorno in giorno e si dilatava, introducendovi sempre nuovi volti, nuove espressioni della natura, il mondo intero con i suoi problemi. Tutti voleva riportare all’unità, nell’Uno, dal quale anche lui si lasciava attrarre.

sabato 11 gennaio 2014

Il suo il nostro battesimo

Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Il Vangelo di Matteo, a differenza di Marco e Luca, riporta le parole del Padre in terza persona. 
Non si rivolge a Gesù, ma a noi.
Ci invita a riconoscere Gesù come Figlio di Dio,
ad accoglierlo, a lasciarlo penetrare nella nostra vita, 
così che egli possa annegare nelle acque del battesimo il nostro “uomo vecchio” 
e farci rinascere a vita nuova, creazione nuova.
Grazie al suo battesimo anche nel nostro battesimo si aprono i cieli,
scende lo Spirito,
il Padre ci rende figli suoi,
figli di Dio con Gesù. 

venerdì 10 gennaio 2014

Fratel Vito col Passaporto in mano


“La disciplina! Il silenzio! Ai tempi di padre Labouré…”. Era il ritornello di fratel Vito, che si lamentava perché in casa c’era troppo chiasso (qualche bisbiglio nei lunghi silenziosi corridoi!), che non c’era più il rigore dei bei tempi di quanto padre Labouré era superiore generale (negli anni Trenta!).
“Erano migliori quei tempi, vero?”, gli dicevo quando passava dal mio ufficio e si fermava a conversare. E lui subito: “No no, sono meglio questi, anche senza il silenzio e la disciplina. Adesso ci si vuole più bene”.
I suoi tempi erano stati sofferti anche perché sussisteva la mentalità antica (non proprio cristiana ma piuttosto retaggio di usanze feudali) della rigida divisione tra i Padri e i Fratelli.
Ormai anziano e ammalato passava la giornata recitando rosari e annaffiando i fiori sui davanzali. Del passato conservava le buone tradizioni della puntualità, della fedeltà regolare alla preghiera comunitaria, del senso del sacrificio.

Quando ieri sono stato a trovarlo a Santa Maria a Vico, nel Casertano, dove da un anno si era ritirato in infermeria, mi ha accolto con il solito sorriso degli occhi. Ci ha lasciato per il Cielo 24 ore dopo. Come ogni Oblato si è presentato alle porte del Paradiso con il Passaporto: “Sono un Oblato di Maria Immacolata”. Sant’Eugenio diceva che bastava quello per entrare.

giovedì 9 gennaio 2014

Scripta manent



Nel salone del Capitolo del Convento degli Oblati a Santa Maria a Vico è stata allestita una mostra dal titolo: Verba volant, che vuol far venire alla mente la realtà opposta: Scripta manent. Gli scritti rimasti e che continuano ad essere raccolti nella biblioteca della comunità costituiscono un patrimonio inestimabile: manoscritti, stampe del 1500, libri con disegni preziosissimi, dalla letteratura alle scienze, dalla teologia al diritto. Secoli di storia, di persone, di fatti, di idee rimangono fissati per sempre e raccontano di vite vissute, di studi, di scoperte, di eventi memorabili e comuni. Tutto un mondo è racchiuso sugli scaffali, desideroso di darsi a conoscere.


Che vite povere quelle che si appiattiscono sul presente e non hanno il gusto, la curiosità, il desiderio di conoscere il vissuto delle generazioni passate. Quanto c’è da imparare e da arricchirsi anche solo a prendere in mano quei libri, a sfogliarli… parlano con la loro stessa presenza, con le rilegature, le illustrazioni, i titoli, i nomi degli autori, aprendo a mondi ignoti o riaccendendo la memoria di cose già note, ma che sprizzano di sempre nuova luce.
Vi sono anche libri appartenuti a sant’Eugenio de Mazenod. Oggi, aprendoli, mi hanno mostrato quello che lui ha visto, quello che lui ha letto, e mi sono sentito trasportato nel suo universo interiore.

Tenere di conto del passato: rende più bello e sicuro il presente.

mercoledì 8 gennaio 2014

La mano di san Giuseppe Moscati


Nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, mi sono soffermato davanti alla tomba di san Giuseppe Moscati. Mi ha colpito vedere le persone andare a toccare la mano della sua statua, diventata lucida e consunta, in segno di devozione e per impetrare una grazia.
Originario di Benevento ha trascorso tutta la sua vita a Napoli, dove è morto il 12 aprile 1927. 
È diventato il santo di Napoli.

Paolo VI lo ha definito:
- Un Laico, che ha fatto della vita una missione...
- Un Medico, che ha fatto della professione una palestra di apostolato, una missione di carità…
- Un Professore d’Università, che ha lasciato tra i suoi alunni una scia di profonda ammirazione non solo per l’altissima dottrina, ma anche e specialmente per l’esempio di dirittura morale, di limpidezza interiore, di dedizione assoluta data dalla Cattedra!
- Un Scienziato d’alta scuola, noto per i suoi contributi scientifici di livello internazionale

Due tra i suoi aforismi:
- Bellezza, ogni incanto della vita passa... Resta solo eterno l'amore, causa di ogni opera buona, che sopravvive a noi, che è speranza e religione, perché l'amore è Dio.
- Esercitiamoci quotidianamente nella carità. Dio è carità. Chi sta nella carità sta in Dio e Dio sta in lui. Non dimentichiamoci di fare ogni giorno, anzi in ogni momento, offerta delle nostre azioni a Dio compiendo tutto per amore.

martedì 7 gennaio 2014

Con Papa Francesco ancora novità


La rivista Time riconosce Francesco “Personaggio dell’anno” 2013. La banca vaticana è regolata da nuove norme per una maggiore trasparenza e pubblica, per la prima volta in 125 anni di storia, i numeri della sua attività, incassando l’apprezzamento della Banca centrale europea. Due segnali positivi, tra i molti, che mostrano la crescente fiducia verso i “vertici” della Chiesa. Indubbiamente il “fenomeno Bergoglio” continuerà anche quest’anno a raccogliere consensi.
La prospettiva per il futuro della Chiesa, aperta da papa Francesco, non va tuttavia nella direzione di ricerca di attenzione o di convergenza verso il centro, ma in direzione della periferia; non un’azione centripeta, autoreferenziale, ma centrifuga, di “missione”. L’Evangelii gaudium appare programmatica al riguardo: «Avverto la necessità – scrive il papa –  di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (16), nella convinzione che «un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (32). Concretamente chiede una maggiore assunzione da parte delle Conferenze episcopali delle dovute autonomie e della piena responsabilità. La plenaria della CEI in gennaio è chiamata a scelte precise in questa direzione.

La decentralizzazione auspicata da papa Francesco va ben al di là del mondo ecclesiastico: investe l’intero popolo di Dio, a cominciare dalla «carne sofferente di Cristo nel popolo» (24). La Chiesa è ormai irreversibilmente in cammino verso un cambiamento di paradigma che la porta sempre più «in uscita» tra la gente comune, a «mescolarsi» con essa, a «partecipare» alla «marea un po’ caotica», fino a trasformarla «in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (87). Riportare la gente ad essere «autore principale, soggetto storico»  di un processo di cambiamento della società e non più «una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un pro­getto di pochi indirizzato a pochi, o di una mino­ranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo» (239). Non è populismo, è la riscoperta e la piena valorizzazione del popolo di Dio.