giovedì 31 ottobre 2019

Tutti santi


Dicono che Giovanni Paolo II abbia inflazionato i santi. Pio XII ne aveva proclamati 33, Giovanni XXIII 10, Paolo VI 64, lui addirittura 482, più 1.341 beati! Ne ha fatti troppi? O troppo pochi? Ma quanti sono i santi? Il curato d’Ars usava ripetere: “Nel nostro cimitero riposano molti santi” e chissà quanti altri riposano nei cimiteri di tutto il mondo.
La canonizzazione – l’onore degli altari, come si diceva una volta –  raggiunge soltanto poche migliaia di persone, il paradiso, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, lo raggiunge “una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”. Per lo più sono persone che hanno vissuto le beatitudini evangeliche con semplicità e spesso nel nascondimento, senza alcuna notorietà.
Alcuni noti, altri meno noti… Noti e ignoti a chi? A noi. Ma chissà come Dio vede le cose. Quando mi trovo in mezzo alle folle, quando viaggio in metro, quando sono in una chiesa gremita, guardo le persone sconosciute e anonime e penso che ognuna di loro non è tale davanti a Dio, ma a lui conosciutissima e da lui amata e pensata; egli ne ha premura. Ci ha voluti uno per uno e gli siamo preziosi e cari come unici. Ognuno di noi – ognuno dei miliardi e miliardi di essere umani che sono passati, che sono e che passeranno – è una parola che il Padre ha pronunciato nel generare il Figlio suo e gli siamo figli: tutti un unico figlio nel suo unico Figlio. È proprio questa la santità, diventare Gesù.

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato con forza che siamo tutti chiamati alla santità. Ma prima di essere una chiamata essa è un dono che Dio ci fa nel Figlio suo; “Siete stati santificati, nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”, scrive san Paolo. In tutti i battezzati è stato seminato un “germe divino” che attende di crescere e giungere a pienezza; e questo è compito nostro, la nostra riposta d’amore all’iniziativa d’amore di Dio.

A volte si insidia il dubbio: sarà fatta per me la santità? Troppo difficile, impossibile, un lusso per pochi eletti… Allora ci accontentiamo di essere “buoni” – è già tanto! – e tutto finisce lì: il nemico della santità è la mediocrità. A quel punto il desiderio e lo slancio a diventare santo, che prima o poi ognuno ha avvertito, rallenta e iniziano a insinuarsi i compromessi, i propositi si insabbiano, ci adagiamo nello stato quo: il nemico della santità da mediocrità si trasforma in rassegnazione.
La festa di Tutti i Santi è uno scossone che ci richiama alla realtà. È un invito a guardare in alto, a quell’infinita schiera di “santi” che già popolano il Paradiso e che “fanno tifo” per noi, intercedono per noi, ci sono vicini e ci aiutano nel “santo viaggio”.

La festa di Tutti i Santi ci ricorda che non siamo soli nel cammino verso la santità, ma parte di un popolo di santi: “Voi siete la stirpe eletta – ci direbbe san Pietro –, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato”. Gesù infatti “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa”. Quella a cui siamo chiamati è proprio una “santità di popolo”, una “santità collettiva”, come ci ricorda ancora il Concilio: “Dio ha voluto santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra di loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse”.
La “moltitudine immensa” che ci aspetta in cielo, ci assicura che anche noi possiamo giungere là dove loro sono.

mercoledì 30 ottobre 2019

Una città “tutta d’or”

Giovanni Dalema e Lucia Abignente


Presentazione del libro
Il contenuto e la forma hanno creato un capolavoro. Un libro che prende.

Il contenuto. Le prime 10 Mariapoli, incontri estivi sulle Dolomiti, profezia di una società riconciliata. A 70 anni dalla prima, tenutasi nel 1949, valeva la pena ripercorrerne la storia. In quelle prime convivenze vi era una radicalità e una semplicità evangelica sconcertanti. I frutti erano conversioni e vocazioni. Una struttura leggera che rendeva al massimo.
Che fede profonda! Un Vangelo sine glossa. Una carità vicendevole che faceva rivivere la prima comunità cristiana. Il numero di presenze che cresceva con il passare degli anni, così come il numero delle nazioni rappresentate. L’anelito sempre più profondo all’unità tra persone e popoli. L’esperienza di un’autentica condivisione di vita e di ideali. È la testimonianza di un mondo nuovo, attuale adesso come non mai.

La forma. Le fonti sono di una ricchezza impressionante, il più delle volte inedite. Le testimonianze di chi era presente, appositamente cercate e raccolte, risultano preziosissime, prima che gli ultimi protagonisti scompaiono; danno un’intonazione vivace e aderente alla realtà. L’inquadratura storica ampia e attenta ai particolari.
La distribuzione del materiale - il filo storico, i protagonisti, le tematiche – è guidata da una regia sapiente.

Non è leggere un libro, è entrare in un’esperienza e riviverla.

Lucia Abignente, Giovanni Delama, Una città “tutta d’or”. Storia delle prime Mariapoli (1949-1959, Città Nuova, Roma 2019.

martedì 29 ottobre 2019

La mia guardia del corpo



Il 25 settembre 2010 era il giorno della beatificazione di Chiara Luce Badano. Al santuario romano del “Divino Amore” erano presenti più di ventimila persone arrivate da più di 70 nazioni dei 5 continenti. La mamma raccontò: “Quando nel santuario ho visto scendere il velo che copriva la grande immagine di Chiara ho sentito che in quel momento Chiara non era più solo figlia mia, ma di tutti, diventava Chiesa”.
Anch’io fui colto di sorpresa. Non immaginavo che fosse nascosto proprio accanto a me e che me lo vedessi apparire così improvvidamente. E poi non era una pittura, come si fa abitualmente, ma una foto, e che foto! Me la sono vista accanto, così vicina, così bella, così vera, così attuale, così mia…
Potetti stare a lungo vicino al quadro e alla reliquia che era posta lì accanto.
Mi feci anche fotografare davanti a lei... e quella foto è stabilmente nella mia stanza.
Oggi è la sua festa liturgica.
Me la vedo accanto come il giorno della beatificazione. È infatti un “angelo”, come lei stessa diceva: «Dio mi ha tolto le gambe ma mi ha dato le ali».

È una delle mie guardie del corpo. 
Lei è davanti a destra, dietro, sempre a destra, Maria Goretti; dietro a sinistra Gemma Galgani e davanti a sinistra Gabriele dell’Addolorata: tutti giovani ma fortissimi!

lunedì 28 ottobre 2019

La mia visione di Chiesa

Dopo tanti giorni torno alla mia "visione di Chiesa", bella, positiva, luminosissima....


domenica 27 ottobre 2019

Ristretto... per un gusto più intenso




Un “ristretto” di carne, di vino, di caffè…
In cucina l’arte del ristretto elimina il superfluo ed esalta i gusti.

Mi sembra lo stesso procedimento che stanno compiendo le COMI:
si concentrano… e viene fuori il meglio, un gusto più intenso.

Auguri!

sabato 26 ottobre 2019

Dimmi come preghi e ti dirò chi sei


Dimmi come preghi e ti dirò chi sei


“Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18, 9-14).

Quando pregare? Sempre, rispondeva Gesù con la parabola della vedova e del giudice.
Il Vangelo di oggi continua con un’altra domanda: Come pregare? Ed ecco un’altra parabola, anche questa volta con due personaggi tipici e antitetici.
Mi ha colpito l’introduzione alla parabola, rivolta a quelli che hanno la presunzione di essere giusti e disprezzano gli altri. C’è un contrasto incolmabile tra l’idea di sé e l’idea dell’altro:
- Io sono dalla parte giusta, io sono bravo e onesto, io capisco come stanno le cose, io, io… C’è la “presunzione” di essere giusti.
- Gli altri non capiscono niente, sono ignoranti, maleducati, disonesti… Può anche essere vero, quello che è sbagliato è che, perché sono così, io li “disprezzo”.

È questa parola “disprezzo” che mi ha colpito nel vangelo di oggi, il disprezzo per chi è povero, ignorante, emarginato, ma anche per chi sbaglia, per chi è un delinquente. Gesù per le sue parabole sceglie sempre persone sospette, questa volta un pubblicano, letteralmente uno che amministra il denaro pubblico. Oggi come allora si associavano queste persone con la corruzione. E poi un esattore di tasse! Anche oggi l’agenzia delle entrate è l’istituzione più odiata. Nella Palestina di allora era ancora peggio: l’esattore delle tasse era a servizio di una potenza straniera e nemica, i romani, praticamente un rinnegato.
Ammettiamo che gli altri siano peggiori di noi, che noi, per una sorte favorevole, abbiamo ricevuto una buona educazione e quindi siamo buoni e onesti. Ci sono persone oggettivamente cattive. Ci consente questo di disprezzare chi non è come noi?
“Non sono come pubblicano”, dirò con disprezzo e con autocompiacimento il fariseo: “ti ringrazio di non essere come lui”.

Lo so che il focus della parabola è un altro: la presunzione di essere giusto da una parte e la consapevolezza di essere un povero peccatore dall’altra.
Il primo atteggiamento rende superfluo Dio, non ha bisogno neppure di pregarlo. Il fariseo, commenta sant’Agostino «Era salito per pregare, ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso». La Vulgata traduce bene: «In se confidebant tamquam iusti»: la parabola è per chi pone tutta la fiducia in se stesso. Se si è a posto che bisogno c’è di Dio? Posso fare da me.
Il secondo atteggiamento è riconoscere la propria miseria e stare lì, davanti a Dio, in silenzio, sapendo che o ci salva lui o siamo finiti.

La parabola spiega dunque “come” pregare: mettendosi davanti a Dio a cuore aperto, senza presunzioni, così come siamo, riconoscendo quello che siamo davvero, non come facciamo finta di essere davanti agli altri, con la fiducia di un bambino, abbandonandosi alla misericordia di Dio, venuto per i peccatori e non per i giusti, per quelli che si riconoscono peccatori e non per quelli che presumono di essere giusti.

Il focus è “come” pregare, ma mi è rimasto di traverso quel “disprezzano gli altri” che introduce la parabola. Mi verrebbe dunque da parafrasare il proverbio: “Dimmi come preghi e ti dirò chi sei”.
Se preghi come il pubblicato sarai una persona misericordiosa, che non disprezzerà gli altri, ma proverà per loro lo stesso sentimento di misericordia sperimentato davanti a Dio.


venerdì 25 ottobre 2019

Tre donne che danno concretezza alla tragedia e alla speranza


Le tragedie che si consumano lontano da noi, come quelle di questi giorni in Siria, in Cile, in Venezuela…, per quanto le seguiamo con intensità, rimangono sempre lontane.
La letteratura ha il potere di avvinarle, almeno un po’, perché penetra in alcuni particolari che le rendono più vive, più umane.
Così fa il libro di Lucia Capuzzi, Il giorno prima della pace
Un saggio, un romanzo, una storia vera? Di fatto la guerra più lunga dell’Occidente che si è combattuta in Colombia, grazie a questa pagine mi si è fatta più intelligibile, prendendo intelligenza e sentimento. 
Otto milioni e mezzo di vittime, tra uccisi, sequestrati, torturati, orfani, sfollati, rimangono troppi. Cosa vuol dire una cifra simile? È un numero matematico, ma come posso immaginarlo?
E poi cosa è veramente accaduto in quella lotta sanguinaria tra militari e gruppi guerriglieri e narcotrafficanti? Da che parte stava la verità e la giustizia? Sembrano tutte uguali queste guerre combattute in maniera strana in quei Paesi sudamericani dai confini incerti…

Lucia Capuzzi non racconta la guerra. Racconta di tre donne i cui volti si fanno sempre più concreti, visibili, familiari: una guerrigliera, una sequestrata, la mamma di un figlio nell’esercito e uno nei guerriglieri. Tre universi lontani tra loro, incapaci di comunicare. Eppure ognuna delle donne – ognuno degli universi – vive lo stesso dramma, con sentimenti di rabbia, paura, odio… Fino a quando, senza sapere l’una dell’altra, le storie si avvicinano, così come le tre donne si incamminano verso una comune destinazione, il Parco de las Malocas a Villavicencio, per incontrare, l’8 settembre 2017, papa Francesco, che aveva varcato l’Oceano per recarsi in un solo Paese, la Colombia appunto, quasi a siglarne la pace.
Tre donne soltanto. Accompagnandole nelle loro storie mi è facile condividerne i drammi, i sentimenti, le speranze ed intuire un mondo che altrimenti rimarrebbe troppo vasto, enigmatico.
Tre donne che nonostante le violenze disumane, rimangono umane e sono più forti della guerra.
Tre donne distante tra di loro eppure unite da una forza vitale: “A Laura, Natalia e Guadalupe la guerra ha strappato affetti, certezze, interi pezzi di esistenza. Tutto o quasi, tranne la determinazione a camminare verso un futuro di passi piccoli, ma ostinati”.


giovedì 24 ottobre 2019

Roberto Ceccarelli: Scorre come un fiume la vita



con p. Tarcisio
P. Tarcisio mi ha regalato non soltanto una bella accoglienza nel convento del Santo a Padova, ma anche un piccolo gioiello, il diario di padre Roberto Ceccarelli, appena pubblicato dalle edizioni del Messaggero col titolo Mi chiamavano Calimero. (Bellissima la grafica!)
Dietro la straordinaria storia di p. Roberto c’è anche p. Tarcisio, che lo ha accompagnato nel suo cammino formativo prima, poi in quello ancora più formativo della malattia e della morte.

Non avendo accesso, in questo periodo, ai miei album fotografici, non posso mettere qui nessuna foto con lui, ma quelle pubblicate sul libro lo mostrano sempre sorridente come tutte le volte che ci siamo incontrati. Lo conoscevo bene, ma non così in profondità come me lo rivela adesso il suo diario. Quelle pubblicate sono soltanto poche pagine, ma significative di un’anima grande, che in breve tempo ha compiuto passi da gigante nella via della santità. L’accelerazione è data dalla malattia che in pochi anni ce l’ha portato via.
Bastano le sue frasi che danno il titolo ad alcuni ultimi capitoli del libro per lasciarci intravedere il suo vissuto:
- Il Paradiso è vicino!
- Come posso prepararmi alla morte?
- Ho paura e non so se ce la farò
- Si può vivere un paradiso anticipato
- Sono pronto, cosa devo fare?

Ha paura. Chi non ne avrebbe? Eppure si guarda il meno possibile per guardare sempre fuori di sé. Sente costantemente accanto la presenza di Gesù che lo aiuta a portare il “giogo”, che per questo diventa “dolce e soave”.
Il segreto è nella Parola di vita vissuta con intensità, nell’attimo presente come occasione per amare, nel costante dono di sé agli altri, nell’unità con tanti che condividono il suo cammino.

Tre mesi prima della morte, avvenuta in 26 agosto 2005, all’età di 49 anni, scrive:
“Tanto spesso mi fermo in coro o in camera e penso alla vita che scorre: che mistero! Vorrei possederla, vorrei fermarla per coglierne il senso profondo invece deve scorrere, non posso fermarla e prenderla in mano: è come un fiume e allora mi lascio portare da questa corrente sapendo bene dove mi sta portando: al Cielo!”.


mercoledì 23 ottobre 2019

Rosso e bianco: lo scambio tra Giovanni e la Maddalena



Giotto venne a Padova per affrescare la chiesa del Santo. La sua attività fu poi dirottata verso la Cappella degli Scrovegni. Nella basilica rimangono comunque molte tracce della sua opera. Iniziò forse dalla sala capitolare dei frati. La ristrutturazione seicentesca ricoprì la parete dove dovrebbe aver dipinto una grande crocifissione, che gli interventi di restauro appena iniziati stanno tentando di portare nuovamente alla luce.
Intanto la sala capitolare, trasformata in cappella, nel 1600 fu arricchita da un’altra crocifissione come pala d’altare. Mi dicono che sia di Alessandro Varotari, detto il Padovanino.
A prescindere dal valore artistico, mi ha colpito l’inversione dei colori: Giovanni è vestito di rosso e Maria Maddalena di bianco. Abitualmente è la Maddalena ad essere vestita di rosso, colore associato all’amore, alla passione, al peccato, alla trasgressione, tutte caratteristiche attribuite a questa donna che è stata erroneamente identificata con la peccatrice anonima di cui parla Luca 7, 36-50.
Il bianco appartiene a Giovanni, denota luce, purezza, verità, verginità. Non a caso è colui che ha poggiato il capo sul seno di Gesù e ha scritto il vangelo della luce.
Ma si sa, la simbologia dei colori cambia con i tempi e le culture. L’abito da sposa nel medioevo erano rossi, mentre dal 1800 diventò bianco…

A me piace lo scambio di colori tra Giovanni e Maria Maddalena. Che a Maria convenga il rosso, nessun dubbio. È la persona più innamorata di Gesù, che non lo lascia neppure al momento della tragedia. Ci sono anche altre donne attorno alla croce, ma sono la mamma e le zie. Lei non è della famiglia, o meglio lo è forse più delle altre, resa tale dal suo amore ardente. E anche Gesù l’ama. A lei per prima si mostra risorto, chiamandola per nome.
Non a caso nell’apocrifo Vangelo secondo Filippo, Gesù bacia Maria Maddalena. Niente di storico, ma simbolo del rapporto che Gesù vuole instaurare con ognuno dei suoi discepoli. Parlando dei perfetti il Vangelo di Filippo scrive che Gesù bacia anche altri personaggi: «egli nutre dalla sua bocca» e chi è baciato «sarà perfetto». Lasciamo che Don Brown nel suo Codice da Vinci ci ricami sopra. Poveretto, non ha capito niente.
Qui il bacio indica la sapienza, la verità, che passa dalla bocca del Verbo alla bocca del discepolo e rende sapienti e introduce nella verità.
L’amore è talmente forte da verginizzare: la rossa Maria diventa bianca!
Ed acquista le notazioni tipiche del bianco: luce, purezza, verità, verginità.
Maria Maddalena può indossare la vesta bianca di Giovanni. Grazie al suo amore e al sangue di Cristo (strano, ma il sangue di Cristo lava e rende bianco!) ella è inondata di luce e di sapienza e con la sua vita può scrivere, come Giovanni, un vangelo della luce, della gloria.
Ognuno di noi può essere rivestito di bianco ed essere baciato dal Verbo, e vivere la sua Parola.


martedì 22 ottobre 2019

Barnaba e compagni, che uomini !


I Padri apostolici, uomini coraggiosi, che hanno guidato le comunità ecclesiali subito dopo gli apostoli. Sono la seconda, terza generazione. Non hanno visto Gesù eppure sono forti della testimonianza di chi l’ha visto e ascoltato. Si trovano davanti a sfide nuove e devono credere nonostante difficoltà interne e persecuzioni esterne.
Sto rileggendo i loro scritti (nella splendida nuova edizione di Città Nuova), gustando una cristologia essenziale, che punta sull’umanità di Gesù e sulla sua opera di salvezza. A parte le notissime lettere di Ignazio di Antiochia che la liturgia delle ore ci fa leggere, anche gli altri testi sono una testimonianza straordinaria dei primi tempi del cristianesimo.

In questo momento sto leggendo la Lettera di Barnaba. Chiunque ne sia l’autore è bello sentire le motivazioni che lo spingono a condividere la sua fede e la sua lettura delle Scritture: “Vi scrivo con molta semplicità… io umile servitore del vostro amore”. “Volendo scrivere molte cose, non come un maestro, ma come conviene a uno che ama, per non perdere nulla di quello che abbiamo, mi affrettai a scrivere come un vostro umile servitore”.
Invita a rimanere uniti perché soltanto così si possono affrontare le prove e risultare vincitori: “Non isolatevi ripiegandovi in voi stessi… ma riunitevi cercando il bene comune… Diveniamo spirituali, diveniamo un tempio perfetto per Dio”.
Un Dio che prende carne umana, e con essa i peccati e tutte le miserie, per rivestirci di gloria; una Chiesa unita, che rivive in sé il mistero della passione morte e resurrezione del suo Cristo, e che è resa forte dalla presenza di Dio in essa: ecco i temi che maggiormente vengono in rilievo e che possono ispirare la nostra Chiesa di oggi, così divisa e timorosa di osare.


lunedì 21 ottobre 2019

Come gli uccelli dell'aria e gli steli dei campi





Di Grazia Deledda avevo letto soltanto – nella notte dei tempi – Canne al vento.
Ecco adesso con un altro suo romanzo, semplice, che rievoca antichi mondi contadini, a forti tinte e passioni: Il Dio dei viventi.
Era tempi – un centinaio d’anni fa – quando la fede (poco importa se intrisa di superstizione) era dentro l’orizzonte della vita, la impregnava, la inquietava.
Anche quando volevi scartarla rimaneva comunque presente e costringeva alla verità.

Per Deledda – per i suoi personaggi – la vita non è mai indifferente, banale. Tutto è vissuto con pienezza e passione. E quindi tutto è sofferto, fino a quando non giunge la liberazione interiore dal rancore, dal calcolo, dai soldi.

Altrimenti tutto ci è nemico, perché – ed è l’Autrice che si rivolge a Zebedeo, il principale personaggio del libro – “Il nemico è dentro di te mentre lo credi dietro la siepe; e tutto questo perché ti sei dimenticato che Dio vuole si viva giorno per giorno come gli uccelli dell’aria e gli steli dei campi”.

domenica 20 ottobre 2019

Missione, con lo stile di Maria



Alto, distinto, ben vestito, da più di mezz’ora parla con la protesi auricolare, il telefonino. Niente di male. Mi dà un po’ fastidio che parli a voce così alta, ma mi supero facilmente. Ognuno dei presenti può seguire le sue conversazioni con personaggi diversi, ma tutti altrettanto importanti. Importanti, ma non come lo è lui. Si capisce bene che lui è il capo. È soprattutto per questo che dà fastidio: non che sia una persona importante, ma l’ostentazione, il valer far sapere a tutti che lui è una persona importante, il capo.
Sono tante le persone importanti e più ancora quelle che ci tengono ad apparire tali. In un’ora, via telefono, impartiscono direttive, risolvono problemi d’azienda, ribaltano il mondo. Mi domando cosa faranno nelle altre 23 ore della giornata (perché è evidente che sono persone che lavorano 24 ore su 24), quando sono concentrate e sole in ufficio se, in un’ora e circondate da tante persone, rumore e movimento, hanno già tutto appianato. Forse leggeranno il giornale che non trovano il tempo di leggere mentre viaggiano.

Chissà perché questa macchietta ricorrente oggi mi ha richiamato, per contrasto, un’altra personalità o meglio, più semplicemente, una persona, Maria di Nazaret. Ne ha ben fatte di cose importante, lei. Ha aperto le porte al Cielo, s’è fatta scala perché Dio scendesse sulla terra, l’ha mostrato ai saggi d’Oriente, l’ha difeso contro gli attentati di un re. Ha composto il più bel canto magnificando l’Onnipotente per le grandi opere da lui compiute. A Nazaret ha allevato il Figlio di Dio, a Cana gli ha aperto la strada perché iniziasse a compiere gesti di salvezza, sul Calvario ha lavorato con lui alla redenzione del mondo. Nel cenacolo ha sostenuto la fede degli apostoli ed ha tenuto a battesimo la Chiesa nascente. Ditemi voi se è poco. Altro che manager d’azienda! Lei l’ha ribaltato davvero il mondo. E senza un briciolo di ostentazione, anzi nel silenzio più alto e nel nascondimento più umile. Il suo biglietto da visita: “Serva del Signore”. Qui c’è dello stile.


È lo stile richiesto, mi sembra, a chi, come lei, è chiamato a portare Dio nel mondo, ossia a chiunque si professa cristiano, se è vero che “ogni cristiani è missionario”, un mandato a portare la grande notizia del Vangelo.
Farsi vicino a chiunque, con discrezione e insieme con estrema attenzione: intuire, capire, condividere, prestare aiuto. In una società dove quello che conta è apparire (esisti soltanto se sei in TV, sui social), fare carriera, prevalere, schiacciare l’avversario, è insolito mettere in luce l’altro e fargli da sfondo perché sia lui e senza che io debba necessariamente emergere. Sì perché l’altro, in una logica evangelica, non è più il concorrente, ma semplicemente un compagno di viaggio.

Giornata missionaria mondiale. La via della missione mi pare che oggi passi proprio da qui: farsi prossimo con quanti la vita ci mette accanto volendo soltanto il suo bene. Sarà ancora possibile tra essere umani l’amore disinteressato? La vicinanza può diventare amicizia, e l’amicizia condivisione, anche dell’esperienza del Vangelo vissuto, della fede. È Maria che non si mette in mostra, che non accentra l’attenzione su di sé, ma chi indica il Cristo.

sabato 19 ottobre 2019

Chiedere con insistenza, ma cosa?

In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario" (Lc 18, 1-8).

Con un inizio così come non poteva non attirare l’attenzione.
Era proprio un mago Gesù. Sapeva costruire scene e situazioni che parlavano a tutti, senza bisogno di tante spiegazioni e commenti.
Un giudice iniquo? A ognuno ne viene in mente qualcuno di sua conoscenza. Di pochi scrupoli, conoscendo bene i meccanismi delle leggi e dei tribunali, sa portare i processi dalla parte che gli offre maggiori interessi.
Dall’altra parte (a Gesù piace mettere a confronto situazioni e persone opposte) una vedova, la persona più in basso nella scala sociale, senza difese né appoggi. Perché le si renda giustizia non ha né capitali per le parcelle salate degli avvocati, né conoscenze che portino avanti la pratica.
Povera donna, che le rimane? Non dar più pace al giudice! L’aspetta fuori della sala delle udienze, per strada, davanti casa… Per il giudice diventa un incubo. Meglio fare il processo in fretta – e visto che la donna è dalla parte della ragione, dargliela – e togliersela dai piedi.

A Gesù rimane facile il passaggio: se a importunare un giudice si ottiene giustizia, le cose dovrebbero andare molto meglio quando ci si rivolge a Dio. Ci dà quello di cui abbiamo bisogno non per toglierci dai piedi, ma perché Padre, e se a un padre chiedi un uovo ti darà uno scorpione? – e avanti con gli altri paradossi di cui Gesù è un maestro.
Allora tutto facile, tutto semplice?
La finale Gesù la dice sottovoce, a denti stretti: “ma troverò fede sulla terra?”.
Già, ci vuole la fede, fidarsi di Dio. Chiediamo pure, tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma poi rimettiamoci nelle sue mani, convinti che lui sa meglio di noi cosa ci fa bene e ciò che ci fa male.
Come domenica scorsa: dodici guariti, uno solo salvato; tutti avevano chiesto, uno solo aveva la fede che lo salvava.

Non è un caso che Gesù, poco prima, sempre nel vangelo di Luca, quando ci dice cosa dobbiamo chiedere in concreto ci insegna a domandare al Padre lo Spirito Santo (11, 13)! È “il” dono! Lo Spirito Santo ci guida, ci insegna, ci fa capire quello che vale e quello che non vale, come anche che cosa e come chiedere.


venerdì 18 ottobre 2019

Festa di san Luca a Padova (o a Praga, o a Bologna?)



L'"arca" di san Luca nella basilica di santa Giustina
Non mi era mai capitato di trovarmi a Padova per la festa di san Luca.
Non credo siano in tanti a sapere che il corpo dell’evangelista si trova in questa città.
Dicono che l’avessero rubato i veneziani durante la famigerata crociata del 1204 quando, invece di liberare il Santo Sepolcro, saccheggiarono Costantinopoli, dove il corpo era stato portato dalla Grecia dall’imperatore Costanzo.
Ma la presenza del corpo di san Luca a Padova è attestata molto prima e forse vi fu portato nel periodo delle lotte iconoclaste (741-770), assieme a quello dell’apostolo Mattia. Ora i due santi riposano in due meravigliose urne di marmo, l’uno di fronte all’altro, nell’immensa basilica di santa Giustina che si affaccia sul Prato della Valle (un tempo famoso perché era un “prato” senza erba; adesso invece è bello verde…).

Il povero Luca fu però decapitato il 9 novembre 1354: l’imperatore Carlo IV volle portare con sé a Praga la testa del santo. La testa è ancora lì, in attesa di ricongiungersi al resto del corpo nel giorno della resurrezione dei corpi… Non si sa bene se il ricongiungimento avverrà a Praga o a Padova. Ma sono quisquilie e san Luca se ne ride.
Io sono propenso a credere che il ricongiungimento avverrà a Bologna, sulla collina dove si erge il santuario della Madonna di San Luca, visibile per chilometri e chilometri dall’autostrada che circonda la città.
Ogni volta che ci passo, Luca e Maria mi si fondono un unico amore. Non può essere diversamente.

giovedì 17 ottobre 2019

Viaggio in Terra Santa

Ogni luogo è luogo del Signore, ma quando egli si è incarnato, ha scelto una terra particolare: la Galilea, con le sue città e villaggi: Nazareth, Cana, Cafarnao, con il lago di Tiberiade e le sue colline; la Giudea, con Gerusalemme, Betlemme, Gerico. Nomi che abbiamo imparato a conoscere dai Vangeli e che ci sono cari anche senza averli visti. Con l’ascensione al Cielo Gesù ha lasciato per sempre la sua terra e non occorre più andare là per incontrarlo. Eppure egli vi ha impresso tracce indelebili, che invasioni, guerre e distruzioni non hanno potuto cancellare. Assieme alla “storia” vi è anche una “geografia” della salvezza. 

La Terra Santa continua a chiamare.
Dal 27 aprile al 3 maggio sarò di nuovo in pellegrinaggio nei luoghi di Gesù.
Chi vuole aggregarsi con me… è facile.
Iscrizione entro la fine di ottobre.
Iniziamo il viaggio?

mercoledì 16 ottobre 2019

Il pulpito di san Bernardino e l'ultima cena di Annigoni


  
Nel refettorio dei frati del Santo a Padova spicca il pulpito, una volta in piazza, dal quale san Bernardino da Siena predicava al popolo. Portato nel refettorio sarà servito per la lettura durante i pasti, usanza scomparsa negli ultimi anni. Ha così perduto la sua originaria funzione di pulpito da cui si predicava. Sì sa, predicare ai frati è tempo perso.


Eppure ogni giorno ai frati viene rivolta una predica bellissima e profonda, quella dell’ultima cena, dove Gesù ha riassunto tutto il suo insegnamento. L’ha dipinta Annigoni, con i colori forti e le figure vere.
Cosa dirà ai frati?
A me, che in questo periodo sto rileggendo i “Padri apostolici”, ha ripetuto le parole del Martirio di Policarpo, là dove si legge che “il fuoco accerchiò il corpo del santo ed egli era nel mezzo non come carne da bruciare, ma come pane che cuoce”. Un’immagine potente che istituisce un’analogia tra il sacrificio del martire, che è immagine del sacrificio di Cristo, e il pane eucaristico offerto sull’altare, che rinnova il sacrificio di Cristo sulla croce.
Quella bellissima ultima cena, che domina l’intero refettorio, parla dell’Eucaristia di Cristo e della nostra. Altro che predica!

Intanto Dario, a proposito del blog di ieri - "Dove si impara la mitezza?" - mi scrive: “Mi hai riempito di sicurezza e di gioia traboccante da commuoversi. Sono reduce da un incontro che vedevo scontro. E invece: il non giudicare, cercare di capire, pazientare, guardare ognuno con i Suoi occhi, prima, durante e dopo... per la prima volta il miracolo di sentirci come i discepoli di Emmaus illuminati incoraggiati dalla Sua Presenza discreta e delicata. In tutti la serenità e un ripartire nuovo”.
Il miracolo eucaristico, quello dell’ultima cena come quello di Emmaus, si rinnova.



martedì 15 ottobre 2019

Dove si impara la mitezza?


“Gli ospedali sono luoghi dove si impara la mitezza”. Se me lo scrive una persona saggia come Luigino Bruni è certamente vero.
Negli ospedali, come in pochi altri luoghi, ci si rimette completamente in mani di altri, disarmati. Inerme e mite mi pare siano sinonimi, e inerme letteralmente vuol proprio dire “senza armi”. Il mite mette da parte ogni difesa.
Il dizionario Treccani, definisce mite una persona che ha carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza. L’origine latina del termine («tenero, maturo», detto dei frutti) si può addirittura estendere a fattori climatici: gli inverni senza freddo sono «miti», quasi anticipo di primavera.

Gesù aveva riservato la mitezza come un suo ritratto «prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Matteo, quando lo vede entrare in Gerusalemme, su un asinello, cavalcatura della pace, riconosce la mitezza di Gesù e cita la Scrittura: «guarda il tuo re viene a te: egli è umile e viene seduto su un asino» (Mt 21,5).
Per Gesù è oggetto di beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra”.
Un grande esegeta di altri tempi, Spicq, faceva notare che in questa beatitudine «si esalta non già la condizione sociale, ma la sottomissione religiosa e la fiducia in Dio, che si traduce in pazienza e dolcezza. La felicità stabile di pace e sicurezza loro promessa è il “possesso della terra”, non intendendo l’occupazione della terra (promessa), terra d’Israele in senso politico, e ancor meno “tutta la terra”, il mondo intero, bensì l’entrata nel regno di Dio quaggiù e, da ultimo, in quello dei cieli».
Non è piccola cosa la mitezza, se essa ha bisogno dell’intervento dello Spirito Santo: è uno dei suoi frutti (cfr Gal 5,23).

Nella sua lettera sulla santità, Gaudete et exultate, papa Francesco nota: «La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. È meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti “avranno in eredità la terra”, ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11). Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2)» (74).

lunedì 14 ottobre 2019

Non dimenticar le mie parole


“Moshe metteva un disco sul grammofono, prendeva la mano di Sarah e la faceva girare per tutte le stanze. Suonava quel giorno Non dimenticar le mie parole…”.
È un passaggio assolutamente secondario nell’economia del libro, eppure, chissà perché, l’autrice Mariastella Galli ha scelto proprio il titolo della canzone del Trio Lescano (storpiata come sanno fare le pubblicità) per il titolo del suo libro.
Forse perché quel titolo rispecchia la leggerezza di una scrittura briosa, che ama zoomare su tanti particolari, attenta alla battuta, anche dialettale, agli squarci della natura, con personaggi umanissimi e veri.

Eppure il romanzo è una storia drammatica e complessa che Galli trasforma in dolcezza, e alla fine - un finale impossibile da immaginare almeno per un lettore come me - risulta una storia semplice.
Rievoca la guerra di Spagna, le leggi razziali, l’Olocausto, le fughe degli ebrei, i drammi della nascita e della morte… Senza tuttavia calcare la mano, lasciando intuire piuttosto che documentare, tutto sublimato da un amore eroico e insieme quotidiano.
Un libro che si legge in un giorno e lascia nell’animo un profumo delicato.


domenica 13 ottobre 2019

Il fascino della basilica

Se fossi su Instagram pubblicherei questa foto.
Ho visto tante volte la basilica del Santo a Padova e tante volte l'ho fotografata.
Ma mai di notte.
Ha un fascino misterioso.
La luce nel chiostro indica la porta che mi introduce nella mia stanza...
Sono un uomo fortunato.

sabato 12 ottobre 2019

Un grazie per salvarsi


(Uno dei dieci lebbrosi) vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17, 11, 19).


Gesù non faceva i miracoli con la bacchetta magica. Anche quello di questa domenica è fatto con gradualità, coinvolgendo parecchie persone.
Questo miracolo in particolare – 10 lebbrosi – gli rimane a metà.
Tutti sono guariti. Ma col passare degli anni si saranno ammalati di nuovo, anche se altre malattie, e infine saranno morti.
Tutti guariti, ma uno solo salvato. E la salvezza è una cosa seria, ben diversa dalla salute. È la vita che non muore, la pienezza della vita di qua e di là.
Soltanto il Samaritano che torna a ringraziare Gesù è “salvato”, gli altri semplicemente guariti: cosa si sono persi!

Il miracolo della salvezza si realizza per una parolina sola: “Grazie”.
È una delle tre parole di Papa Francesco raccomanda per l’armonia in famiglia: grazie, permesso, scusa.
“Come si dice?”, domandiamo al bambino che riceve un dolce o un regalo. “Grazie”, risponde se è educato. Facendogli la domanda gli insegniamo proprio ad essere educato.
Il grazie del Samaritano, che dona la salvezza, è ben più di una formula, pur così importante, di educazione.
È riconoscere Gesù per quello che è: il datore della salvezza.
La gratitudine instaura un rapporto di intimità, di amicizia,
Distogliere lo sguardo da se stessi e lo rivolge verso l’altro, mette Gesù al suo posto: è questa la fede.
Soltanto così arriva il miracolo della salvezza.



venerdì 11 ottobre 2019

Beato chi intraprende il santo viaggio


  
Da Gilgamesh a Ulisse a Dante, fino alle migrazioni e agli esodi dei profughi dei nostri giorni l’essere umano è sempre stato in cammino: homo viator.
Si era messo in viaggio anche Abramo, da Ur dei Caldei, per andare verso un luogo che Dio gli avrebbe indicato. Si era messo in cammino il popolo d’Israele verso la terra promessa. Attraversando il deserto sperimentava cosa significa “camminare con il suo Dio” (cf. Mi 6, 8), ed era chiamato a scegliere tra la via della vita e del bene e quella della morte e del male: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie» (Deut 30, 15-16).
Si era messo in viaggio Gesù, verso Gerusalemme, facendosi egli stesso “Via”. Si sono messi in viaggio i primi discepoli, seguendo il Maestro. Dopo la resurrezione si sono messi in viaggio i due verso Emmaus e da allora tutta la Chiesa è in cammino rispondendo al mandato di Gesù: “Andate in tutto il mondo”. Il nuovo popolo di Dio, come l’antico, si rivela popolo in cammino. Al punto che la vita dei primi cristiani e lo stesso cristianesimo venivano definiti semplicemente come “la via”. I cristiani erano “i seguaci della via di Cristo” (Atti 9, 2; cf 18, 25; 19, 9.23; 22, 4; 24, 14.22).
La parola che Cristo rivolse ai suoi discepoli: “Seguimi” (Gv 21,22), sono diventate un imperativo assoluto e incondizionato che ha continuato a risuonare lungo tutta la storia della Chiesa. È un esodo completo da sé stessi e da ciò a cui si è legati, per incamminarsi dietro a Gesù in un’adesione piena alla sua persona, al suo messaggio, al suo destino, nella tensione verso la perfezione, in un continuo crescendo nella santità e nell’amore.


Dopo la Pasqua non era più possibile “seguire” Gesù. Per Paolo il rapporto con Cristo si esprime nell’identificazione con lui: essere in lui, lasciare che sia lui a vivere in noi (cf Gal 2,20), anche se rimane l’esigenza di camminare, anzi di correre dietro a lui per afferrarlo, così come lui ci ha afferrati (cf Fil 3,13-14). Per Giovanni seguire Gesù significa instaurare una conoscenza mutua e in una comunione vitale tra il Signore e il suo discepolo, che introduce nel rapporto di intimità ineffabile che unisce il Figlio al Padre. Seguire non è più un’azione fisica, ma un reciproco “essere”, “dimorare”, “rimanere” tra il Signore e i discepoli. Il cammino si spiritualizza e porta dalle tenebre alla luce, in un esodo interiore dal mondo per entrare – mediante la condivisione del destino di morte e risurrezione del Signore – nella casa del Padre fino al possesso della vita eterna.
Eppure l’esperienza dei discepoli che seguivano fisicamente Gesù sulle vie della Galilea e della Giudea, rimane per ogni generazione di cristiani il modello a cui guardare. Con la memoria degli inizi resta viva, nei secoli, il desiderio di fare la medesima esperienza dei discepoli del Vangelo: camminare con Gesù, stare con lui nella quotidianità della vita, vivere con lui in un rapporto dinamico sempre nuovo di comunione, di amicizia, di amore. Questo desiderio ha dato vita alle molteplici forme di vita religiosa, che trovano nel seguire Cristo la loro “norma fondamentale” (PC 2a). Ma questo stesso desiderio apre la strada anche ad ogni esperienza di autentica ricerca di condivisione del mistero di Cristo e nutre la vita cristiana fino alla piena trasfigurazione in lui.


Chi più beato di chi accoglie l’invito di Gesù a seguirlo e decide di rispondervi con generosità e prontezza? Risuona così, in maniera nuova, la beatitudine già rivolta al popolo dell’antica alleanza: «Beato chi trova in te la sua forza / e decide nel suo cuore il santo viaggio» (Sal 83, 6).
La forza viene dalla chiamata: è Gesù che ama per primo e ci coinvolge nel suo amore. La decisione di seguirlo è risposta d’amore all’amore. La forza viene dallo Spirito Santo che riversa l’amore nei nostri cuori e ci rende capace di riamare l’Amore. La vita, che è già un viaggio, diventa un “santo viaggio”.


A chi mi chiede come compiere questo cammino sono solito elencare dieci parole.

Meta. Un viaggio, perché sia tale, si protende verso una meta. Più questa s’annuncia bella e lontana, più attira. Deve essere seducente per invitare a protendersi verso di essa, per accendere del suo desiderio e far bruciare dall’ansia di raggiungerla. Senza una meta non si parte, anche se c’è chi si incammina senza sapere per dove. Deve sempre brillare dinnanzi. La nostra meta è l’incontro con Dio, che ci attende al termine del viaggio.

Compagni. Che tristezza viaggiare da soli. Si può intraprendere un viaggio per affari, per andare a trovare qualcuno…  e allora si può anche essere soli. Ma un viaggio vero, di quelli che si preparano con cura, che non si dorme la notte prima perché eccitati all’idea della partenza, va intrapreso insieme: il tempo passa più in fretta, ci si aiuta, ci si incoraggia se capita di sbagliare strada, si condividono le nuove scoperte, le gioie, le difficoltà. Guai avventurarsi nel cammino della vita senza compagni di viaggio. Insieme è più sicuro e la meta è certa.

Mappa. Una volta scelta la meta e i compagni di viaggio, se non conosciamo bene la strada si studia la mappa. La si tiene poi sottocchio durante il cammino, per non perdersi. Per noi è la Parola di Dio, “lampada ai miei passi, luce sul mio cammino”. Indica per dove passare, i luoghi pericolosi da evitare, le soste più adatte… La consultiamo ogni giorno per vedere se davvero siamo sulla strada giusta e per capire i successivi passi in avanti.

Guida. Se non sappiamo la strada, la mappa è utilissima. Ma se abbiamo una persona che già conosce il percorso, una guida, è tutto più facile! Non dobbiamo preoccuparci di decifrare i segnali; ci mettiamo nelle sue mani e siamo tranquilli di arrivare alla meta. Il Figlio di Dio venuto tra noi la strada la conosce bene: siamo diretti verso casa sua, da dove egli è venuto. È più di una guida, è proprio la “Via”. Basta ascoltare la sua voce e seguirlo. Quando non lo vedo o non lo sento ecco che spesso i fratelli si fanno voce della sua voce. Il cammino sarà sicuro e certa la meta.

Passaporto. Se il viaggio attraversa regioni lontane, abitate da altri popoli, occorre un lasciapassare, un salvacondotto. La meta ultima del nostro viaggio è addirittura il Paradiso. Ci vuole proprio il passaporto. Quale? A quella frontiera troveremo il Signore che domanderà a ciascuno i propri dati: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero ammalato e siete venuti a visitarmi…”: passaporto a posto, possiamo entrare; “Avevo fame e non mi avete dato da mangiare… ero ammalato e non mi avete visitato”: passaporto non valido, non possiamo entrare. “Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”, è questo il passaporto per il nostro viaggio.

Fallimento. In un viaggio succede che si sbagli strada e ci si ritrovi sperduti. Quanti sbagli, quanti fallimenti... Bisogna metterli in conto, fanno parte del rischio della vita. Anche il viaggio di nostro Signore, proprio all’ultimo, sembrò terminare in un fallimento. È come se egli avesse voluto seguirci fuori strada, per esserci accanto anche nei momenti più bui e deviati. Nella sua parabola, se una pecora del gregge ha perduto la strada e s’è smarrita, il pastore non l’abbandona, ma va da lei nel luogo perduto… Con la sua presenza il vuoto si colma, il buio si illumina, la solitudine si popola. 

Ricominciare. Una volta smarrita la strada? Si ricomincia! Quanto il cammino si fa difficile e duro, la tentazione è quella di arrendersi: è finita! Invece... si può sempre ripartire.

Passo dopo passo. Il cammino è lungo, occorre mantenere il passo, a ritmo costante, giorno per giorno. Gesù ci insegna a chiedere il cibo solo per l’oggi: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Domani chiederemo il cibo per domani: “Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”.

Costanza. Quando il cammino si fa lungo giunge la stanchezza e si affaccia, insidioso, il pensiero di abbandonare l’impresa e di tornare indietro. “Chi pone mano all’aratro e poi si volge indietro…” ammonisce il Signore.  È allora il tempo della fedeltà, memoria dell’amore e garanzia del suo futuro. Avanti, passo dopo passo, senza scoraggiarsi, anche quando la meta sembra non arrivare mai. La meta è di chi avrà perseverato fino alla fine.

Progredire. Il cammino si protende sempre in avanti. Non ci si può fermare nel luogo raggiunto. Mai confondere la tappa con la meta. “Chi non va avanti va indietro”, ripetevano i Padri della Chiesa, “cammina sempre, procedi in avanti di continuo: non fermarti lungo il cammino, non voltarti, non deviare”. È come quando si risale il fiume in barca, se smetti di remare la corrente ti riporta indietro. Si può sempre crescere nell’amore. C’è sempre posto per il nuovo.

Viatico. Lungo il viaggio se non ci si nutre vengono meno le forze e non si può progredire. Nella traversata del deserto il popolo d’Israele fu sostenuto dalla manna, Elia si rifocillò con un pane portato dall’angelo. Anche a noi viandanti il Signore imbandisce una mensa e offre il pane che dà forza. Parola ed Eucaristia sono il nostro “viatico”, “sostegno per la via”. Lo chiediamo ogni giorno al Padre: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Dieci parole, dieci piccole parole per essere davvero beati!