sabato 30 settembre 2017

L’obbedienza, la fede, l’adesione


«Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Mt 21, 28-32)

Come sono nette le parole di Gesù. Ci mettono subito con le spalle al muro. “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. È così evidente, ma anche così sconvolgente. L’aveva già enunciato al termine del discorso della montagna: “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”.
Il volere del Padre non è qualcosa di arbitrario, un capriccio frutto di un proposito dispotico. È un piano d’amore, elaborato da tutta l’eternità, l’indicazione di un cammino che conduce ogni creatura alla sua meta finale e assicura la pienezza di vita, la gioia, la realizzazione perfetta del proprio essere.
L’abbiamo imparato fin da piccoli, al catechismo, e ogni giorno lo apprendiamo di nuovo leggendo il Vangelo. Non siamo come i senza Dio, noi, lo sappiamo che dobbiamo andare a lavorare nella vigna. Lo sappiamo e forse pensiamo che il saperlo ci basti. Possiamo illuderci che sia sufficiente saperci cristiani per essere a posto. Chi è con il Signore da tanto tempo rischia di assuefarsi alla sua presenza, di perdere lo slancio dell’adesione piena e incondizionata, di venir meno al primo amore. Chi invece è lontano e lo scopre per la prima volta è più facile che ne rimanga coinvolto e ci sorpassi.
Gesù narra questa parabola proprio per scuotere dalla mediocrità, dall’assuefazione e per invitare ad un nuovo sì, deciso, totalitario.

Obbedire è molto più di un semplice “sì” detto per abitudine e senza convinzione; è entrare nella logica del Padre, al punto che i suoi pensieri diventino i nostri pensieri, così da lasciarci condurre da essi.
Obbedire è credere, credere è obbedire, parole ormai intercambiabili, sinonime.
È l’invito ad aderire alle parole di Gesù, alla sua Persona.
Credo = ti accolgo, ti vivo, faccio ciò che tu fai, compio ciò che tu dici, vado dove tu vai…

Che sia così, Signore,
che peccatori e prostitute ci precedano,
che tutti ti conoscano e ti amino e ti seguano,
ma non permettere che io resti indietro.
Non permettere che si spenga il fuoco del primo amore,
che mi abitui alla novità del tuo amore,
che mi adagi su quanto già so della tua parola
nell’illusione di viverla.
Slancia la mia volontà a volere ciò che vuoi tu,
plasma il mio cuore perché ami ciò che tu ami
e sempre e in tutti si compia la tua volontà
come in cielo così in terra.


venerdì 29 settembre 2017

Il senso del limite


“Preghiamo per Padre Anthony morto il 16 settembre, 64 anni di professione, 86 anni di età”. È il consueto ricordo degli Oblati che muoiono che si fa alla preghiera del mattino.
“86 anni di età”, mi ripeto, “gli stessi di quando è morto mio babbo”.

86 anni, potrebbe essere anche la somma dei miei anni. “Preghiamo per Padre Fabio Ciardi, morto il giorno tale, del mese tale nel 2034, 64 anni di professione, 86 anni di età”. Suonerebbe bene.
Un pensiero che mi ha dato pace, perché mi ha dato il senso del limite.
Non che sapessi che non sarei dovuto morire, ma era ancora un sentimento troppo vago, lontano. Adesso prendo coscienza di un limite ben definito. Potrei morire oggi o fra 30 anni, d’accordo, ma c’è anche un anno che potrei considerare il punto finale, tra 17 anni. 17 anni, né troppi né pochi, il tempo giusto per sognare ancora, fare programmi... ma non più in là di tanto.

Come sono diverse le stagioni della vita. Da giovani non c’è il senso del limite, la vita ha un orizzonte infinito, il tempo non passa mai e pensiamo che non finirà mai. È un grande dono per la giovinezza, altrimenti non si lancerebbe con entusiasmo e fiducia nella vita.
In quest’ultima fase c’è invece il dono della consapevolezza del limite della vita. Un autentico dono, che aiuta a centellinare bene gli attimi che passano, che dà serenità e gioia: stai andando verso il compimento. Il fine e la fine si avvicinano e presto coincideranno.
Dono di Dio poter dire: “è compiuto”. In fondo è lui che porta a compimento ciò che ci ha dato di iniziare.


giovedì 28 settembre 2017

L'amore estremo / 2

La seconda valenza di quel “sino alla fine” è quella dell’intensità, della totalità: un amore che non è solo perseverante, ma che cresce fino al dono estremo di sé. Davvero «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13), e lui l’ha data! La parola «È compiuto» acquista allora un significato ancora più profondo, ha il senso della pienezza, della misura pigiata, scossa e traboccante (cf. Lc 6, 38). Come poteva amare di più Gesù se non arrivando a morire per noi? Ha dato tutto.

Alcuni l’hanno seguito anche su questa via di un amore capace di dare la vita. Vengono alla mente Massimiliano Kolbe che scende nel bunker della morte al posto di un padre di famiglia, Gianna Beretta Molla che accetta di morire perché il suo bambino abbia la vita, Shahbaz Bhatti che continua il suo servizio di ministro per le minoranze, incurante delle minacce, fino ad essere ucciso. L’amore può chiedere tutto e occorre essere disposti a dare tutto, costi quello che costi.
Siamo però consapevoli l’amore non può trovare in noi fedeltà e totalità se non ce n’è fatto dono. Il Signore non ci è solo modello, ma anche causa dell’amore “sino alla fine”. Il nostro amore può giungere “alla fine” grazie al suo: egli che ha iniziato l’opera in noi, la porterà a compimento (cf. Fil 1, 6).

Vi è un’ulteriore valenza di quel “sino alla fine”, e questa riguarda soltanto Gesù. Il suo amore non termina con la sua morte, ma rimane costante per i secoli. Prima di salire al cielo ripeterà ancora “sino alla fine”: «Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo» (Mt 18, 20). Questo sì che è un amore costante, perseverante, attento e premuroso. Non ci lascia mali, ci segue momento per momento, anche nei momenti più bui e difficile, di solitudine e di abbandono. Egli c’è, c’è sempre: «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».


mercoledì 27 settembre 2017

L’amore estremo / 1


Il Vangelo di Giovanni apre l’ultima cena con frase che ne interpreta la sua profonda natura: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1).
Giovani dedicherà ben cinque capitoli del suo Vangelo a quanto avvenne quella sera nella sala superiore, dove si alternano gesti e parole in un crescendo di intensità. La ricchezza e complessità di quelle pagine possono essere sintetizzate in un’unica parola: amore, in un’unica azione: amare. Un amore e un amare vissuti fino al compimento che non conoscono limiti d’intensità e profondità: un dono intero e totale.

Si dona fino a mettersi nelle loro mani attraverso il pane e il vino fatti suo corpo e suo sangue. Nell’Eucaristia di quell’ultima sera vi è il dono di tutto se stesso: corpo, sangue, anima e divinità.
Poche ore più tardi, quando nell’orto degli ulivi le guardie vogliono arrestare i discepoli, egli si frappone: «Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano». Agisce così perché, come commenta Giovanni, «s'adempisse la parola che egli aveva detto: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato”» (Gv 18, 9). L’amore per i suoi amici arriva a consegnarsi al posto loro.
Il suo amore estremo raggiunge anche i nemici, per i quali invoca il perdona, giustificandoli davanti al Padre: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34).
Sulla croce dona anche il Paradiso al ladrone, dona la madre a Giovanni, e infine dona il suo Spirito: nella consegna del suo soffio vitale – «chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19, 30) – il segno del dono del suo vero respiro, lo Spirito Santo che in lui era principio di vita. Adesso davvero tutto «è compiuto» (Gv 19, 30), l’amore è stato attivo fino all’ultimo istante e ha dato il massimo di sé: senza più lo spirito (Spirito), Gesù muore: «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

La prima valenza di quel “sino alla fine” è la sua durata, fino all’ultimo istante della vita. L’amore non è la passione di un giorno. Senza durata l’amore non è amore. Una causa, se è vera, la si sposa per sempre. Non si cambia bandiera. Una volta messo mano all’aratro Gesù non si è più voltato indietro, non ha abbandonato l’impresa, anche quando gli è apparsa estremamente difficile, impossibile. Sarebbe stata vigliaccheria. Ha amato fino all’ultimo respiro sulla croce. Alla fine può davvero dire: «È compiuto» (Gv 19, 20): ha portato a termine l’opera che il Padre gli aveva affidato (cf. Gv 17, 4).

Ho visto mamme che hanno accompagnato per tutta la vita il figlio dislessico. Non sarà mai appuntata su loro petto una medaglia al merito, eppure il loro è un amore eroico, fedele, che conosce la continuità nel tempo.
Ho conosciuto un marito che per anni e anni ha accudito la moglie inferma, bisognosa di tutto, senza più conoscenza. “Perché lo fai? Lasciala morire”, gli veniva suggerito. “Ma è mia moglie”, rispondeva con semplicità. Non era consapevole di esercitare un atto eroico, continuava semplicemente ad amare, come aveva sempre fatto, “sino alla fine”.
Ci sono altri tipi ancora di fedeltà nascosta. Quella di un padre o una madre che per una vita intera ogni giorno va al lavoro per sostenere la famiglia. Si alza presto, affronta il viaggio, col bello e cattivo tempo, fatica… Quanta monotonia, quante poche soddisfazioni, eppure quella regolarità, che va avanti di anno in anno, “sino alla fine”, è l’espressione di un amore sincero. 

martedì 26 settembre 2017

Il desiderio


«Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 14-15).
Luca inizia il racconto dell’ultima cena con una espressione suggestiva: “con desiderio ho desiderato”. È una forma che esprime un superlativo, come già appariva nella precedente traduzione della CEI: “Ho ardentemente desiderato”. È un desiderio appassionato, nel quale traspare il desiderio stesso del Padre.
Nella parabola della pecora smarrita Gesù aveva già fatto intuire la sua missione, che era quella di esaudire il desiderio del Padre «che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18, 14). Adesso è giunta l’ora nella quale egli può finalmente dare compimento a questa missione.
Gesù, ripete Giovanni, ha un solo desiderio, compiere la volontà del Padre. Egli è venuto per dare la sua vita, così che tutti abbiano la vita: «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6, 38). Non si tira indietro neppure quando comprende che l’adempimento della missione del Padre sarà dura, perché richiederà la sua morte: «Adesso la mia anima è turbata. Che dovrei dire: "Padre, salvami da ciò che mi aspetta!"? Ma se è proprio per questo che sono venuto!» (Gv 12, 27).
Non si contraddice neppure quando la prova si fa più dura, appena poche ore aver manifestato il grande desiderio: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39).
Adesso che finalmente è giunto il momento di attuare il piano progettato da tutta l’eternità, quello per il quale si è offerto con generosità – «Ecco, io vengo, Padre, per fare la tua volontà» – egli manifesta tutta la sua gioia. Ha vissuto per questo momento, l’ha atteso con passione. Aspettava con impazienza che si accendesse il fuoco che era venuto a portare sulla terra fredda e buia: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!». Bramava con ansia che giungesse il momento: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!» (Gv 12, 49-50). È la via tracciata dal Padre, per questo la brama e la desidera, con ardente passione.
Adesso il momento tanto atteso è giunto. La sua Pasqua è ormai lì che lo aspetta. Può finalmente confidarlo ai suoi amici: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione».

Come sono diversi i nostri desideri e le nostre passioni da quelli di Gesù. Lo stesso verbo “desiderare” usato da Luca per Gesù è impiegato in maniera negativa nelle lettere di Paolo e di Giacomo. Esso indica la concupiscenza, le brame orientate al male che entrano a fare parte del catalogo dei vizi (cf. Rom 1, 24; Gal 5, 16; 1 Tim 6, 9; 2 Tim 3, 6; 1 Pt 4, 2; 1 Gc 1, 13).
Il desiderio guida l’azione. Occorrono desideri grandi e belli, soprattutto in linea con quelli di Dio. Meglio ancora, far proprio il grande desiderio espresso da Gesù: dare la vita per gli amici. E desiderarlo ardentemente, così da attuarlo.

lunedì 25 settembre 2017

In libreria “Resurrezione di Roma”


È finalmente in libreria il libro della Scuola Abbà più volte annunciato, Resurrezione di Roma.
In esso è fatto oggetto di studio un famoso testo di Chiara Lubich nel quale narra il suo impatto – siamo nel 1949 – con la città di Roma nel pe­riodo magmatico della ricostruzione postbellica, una città – Roma – che, anche per la sua storia millenaria e il suo significato, assurge a simbolo della “Città”, di ogni città.
Il breve densissimo testo di Chiara si rivela un manifesto per una lettura del fenomeno urbano, senza escludere anche forme più piccole di aggregazione, e di una fattiva immersione in esso, così da assumerne le problematiche e le aspirazioni, accompagnando l’umanità alla sua piena realizzazione, fino ad una fraternità che si apre all’unità tra Cielo e terra. Un testo in cui si concentra in qualche modo l’essenza del suo carisma e che Chiara stessa ha considerato un vero programma: una Ma­gna Charta per un rinnovamento della società.
Un testo “controcorrente”, provocatorio, perché unisce quello che certi indirizzi di pensiero vorrebbero tenere ri­gorosamente distinto: il “sacro” e il “profano”, la religione e la vita sociale. In realtà, non abolisce le distinzioni, supera piuttosto quella che è diventata una separazione, tracciando linee di sviluppo di un umanesimo dalle radici profonde, con una visione integrale, ma non integralista, sulla realtà uma­na. Con ciò questo scritto si colloca nella grande corrente della tradizione biblica ed ecclesiale e la sviluppa con sana laicità. Il Dio trinitario e la sua vita di dono e amore, di cui è resa partecipe l’umanità, vengono indicati da Chiara come fattori che possono imprimere alla società uno straordinario dinamismo relazionale, fonte di innovazione e collante del­la convivenza umana ad ogni livello: dalla famiglia alla città alla civiltà globale. Cosa di cui la società in questo momento ha tremendamente bisogno. Senza confusione: la dimensio­ne umana non viene annullata ma potenziata, la realtà sociale 8 Prefazione
può ricevere dalle sorgenti del Vangelo luce, vita, ispirazio­ne. Con queste premesse, Resurrezione di Roma si propone come un paradigma di interpretazione della città e dell’ope­rare al suo interno.

domenica 24 settembre 2017

La colpa "a mente non torna"

Non però qui si pente, ma si ride,
non della colpa, ch’a mente non torna,
ma del valor ch’ordinò e provide.

Mi sono rimesso a leggere il Paradiso di Dante. Difficile per la lingua, i richiami mitologici, storici, geografici, astronomici. Eppure il ritmo delle terzine è inarrestabile e sprigiona una musicalità coinvolgente. Vi splendono perle di luce e di poesia, come quella che ho appena citata: in Paradiso non c’è l’amarezza del pentimento, ma solo la gioia della beatitudine; non si ricordano le colpe, ma solo si gode della grandezza misericordiosa di Dio che ordinò il cosmo e tutto dispose al bene.

Perché non anticipare il Paradiso e abbandonarsi all’amore infinito di Dio che, nella sua misericordia incenerisce il nostro passato, ogni nostra colpa, e ogni istante ci rigenera nuovi?
Né rimorsi né rimpianti, ma solo gratitudine.


sabato 23 settembre 2017

Il di più dell’amore


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna… Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro… “Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».  (Mt 21, 28-32)

Chi se lo sarebbe mai aspettato che l’ultimo arrivato fosse il primo ad entrare in Paradiso. Non era nemmeno una persona per bene. Era semplicemente un povero delinquente. Lui stesso riconobbe la giustezza della condanna capitale che i Romani gli avevano inflitto, eseguita con il più crudele dei supplizi, la crocifissione. Eppure proprio a lui Gesù promise la grazia più grande: il paradiso, la compagnia più felice: stare con Lui, l’immediatezza del dono: “Oggi, sarai con me, in paradiso”. La parabola degli operai dell’ultima ora si è fatta realtà, gli ultimi sono diventati i primi.
Era difficile per gli Ebrei, eletti fin dalla prima ora, accettare che Gesù chiamasse anche altri popoli a far parte del nuovo popolo e a lavorare nella vigna del Signore con pari dignità e diritti. Anche il figlio maggiore, nella parabola del padre misericordioso, era geloso del fratello minore trattato, a suo parere, con troppo amore.

Quando genitori di umile origine vedono che il figlio avanza nella scala sociale e diventa un personaggio stimato e influente, ne sono orgogliosi e non invidiosi, perché lo amano e per lui sognano il meglio. Sono contenti di lavorare sodo per lui e non risparmiano sacrifici. Non devo essere contento anch’io se vedo i miei fratelli diventare più bravi di me, sorpassarmi nell’amore di Dio e nella via della santità? Essi sono parte di me, membra del corpo di cui faccio parte. L’amore gioisce nel vedere le meraviglie che Dio opera attorno a sé.


Occorre entrare nella logica dell’amore, che non contraddice la giustizia, ma la sorpassa infinitamente. Non fa torno a nessuno, il Padre, quando distribuisce i suoi doni come vuole. Egli dà ad ognuno ciò di cui ha bisogno, ed egli sa cosa è bene per l’uno e per l’altro. Ma come può, lui che è l’Amore, non prediligere gli ultimi, i più piccoli, i più deboli, gli indifesi?
Ci è stato chiesto di essere perfetti come il Padre. Superare la legge del dovuto, non per infrangerla, ma per un di più di amore gratuito verso chi più ne ha bisogno.
  
Padre buono,
estirpa dal nostro cuore
ogni invidia
e contagiaci con la tua bontà.
Donaci la tua generosità,
il di più dell’amore,
così da dare senza misura
e godere del bene degli altri
come del nostro stesso bene
che da te riceviamo
con gratitudine.

 

venerdì 22 settembre 2017

Il discernimento di un carisma

Domani, sabato 22 settembre, la Scuola Abbà presenta a Castelgandolfo il libro di uno dei suoi membri, Lucia Abignente.

E' la storia appassionante dei primi anni di vita del Movimento dei Focolari, soprattutto del rapporto tra la fondatrice, Chiara Lubich, e il vescovo di Trento de Ferrari.

E' il romanzo di un'opera di Dio: come nasce, come si sviluppa, le prove che deve attraversare, le contraddizioni, i rapporti con le più diverse componenti ecclesiali e sociali. Soprattutto è la contemplazione di come avviene il faticoso e insieme gioioso discernimento di un'opera di Dio, di un nuovo carisma ecclesiale.

Un'opera storica rigorosa, quella di Lucia, e insieme partecipata con il pathos di chi è erede di tanto dono. Una pesentazione da non mancare, un libro da divorare.

giovedì 21 settembre 2017

Il bacio e la ferita



Un’altra serata sulla Parola di Dio, questa volta nella nostra parrocchia di Roma. Sempre in preparazione della giornata della Parola di Dio proclamata da Papa Francesco per domenica prossima.

Il Cantico dei Cantici è il libro che più ha offerto le parole e le immagini per esprimere il rapporto d’amore con la Parola di Dio. Nei vari commenti a questo testo sacro troviamo spesso l’identificazione tra lo Sposo e la Parola.
Si leggono le Scritture, scrive Origene, ed ecco «lo Sposo arriva». Anche Ambrogio quando legge le Scritture avverte il profumo della sua presenza e dice: «Ecco chi io cerco, ecco colui che desidero». Girolamo spiegava alla vergine Eustochio: «Preghi? Parli con lo Sposo. Leggi? È lui che ti parla». «Se sento il mio spirito aprirsi all’intelligenza delle Scritture – scrive Bernardo di Chiaravalle – o parole di sapienza escono in abbondanza dal fondo del mio cuore, se la luce che mi è infusa dall’alto mi rivela i misteri... allora non dubito più dell’arrivo dello Sposo».

C’è un passo del Cantico che quasi riassume questa esperienza di intimità conoscitiva e vitale con la Parola di Dio. È l’inizio stesso del libro, quando la sposa dice: «Mi baci con i baci della sua bocca!». Le parole che escono dalla bocca di Gesù sono come un bacio. Da bocca a bocca passa la Parola e il cuore s’infiamma di fuoco: è l’amore.
Dio mi bacia ogni giorno, rivolgendomi la sua Parola. Io posso lasciarmi baciare e baciarlo a mia volta, ogni giorno, accogliendo e vivendo la sua Parola.


La Parola della Scrittura ha tuttavia anche un “amaro” risvolto. Dopo averne gustato il sapore nella bocca, una volta che il rotolo dell’Apocalisse scende nello stomaco provoca crampi terribili. Il Veggente si contorce dal dolore: «in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap, 10, 19).
Sì, la Parola di Dio è come una spada tagliente, a doppia lama, direbbe l’autore della Lettera agli Ebrei, che «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (4, 12). Nessuno esce indenne dalla frequentazione della Bibbia. Essa ferisce l’intimo, turba, obbliga a confrontarsi con le realtà più vere, a rivedere il proprio modo di agire.
Un Dio che si insinua nell’umanità non può non dilatarne il cuore e la mente, fino alla beatitudine che è insieme lacerazione di schemi angusti e di egoismi nascosti. Ne provoca la “conversione”, una sterzata, un cambiamento di itinerario, secondo l’iniziale appello di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 15).


Il fascino della Parola di Dio



Don Olinto Crespi, ha diramato un comunicato stampa sulla Tre giorni di incontro sulla Parola svoltosi ad Ariccia nel sine settimana:

A conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia, Papa Francesco ha lasciato una consegna: “Sarebbe opportuno che ogni Comunità, in una domenica dell’Anno liturgico, potesse rinnovare l’impegno per la diffusione, la conoscenza e l’approfondimento della Sacra Scrittura: una Domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo… (Cfr. Misericordia et Misera, n. 7).
Sollecitata da questo autorevole invito, la “Famiglia Paolina” (Società San Paolo, le quattro Congregazioni femminili, i quattro Istituti Aggregati e i Cooperatori Paolini), fondata dal Beato don Giacomo Alberione, ha messo in campo la sua creatività e l’esperienza maturata nei cento e più anni di dedizione apostolica a servizio della Parola annunciata con gli strumenti della comunicazione sociale.  Il frutto che ne è maturato, in collaborazione anche con la “Comunità di Sant’Egidio” è “La Domenica della Parola” che si celebra quest’anno, per la prima volta, il 24 settembre in numerose città italiane ed anche in altre Nazioni, nell’intento di risvegliare l’interesse di tutti nei confronti della Parola di Dio.

Anche le Comunità Paoline dei Castelli romani, in collaborazione con l’Ufficio diocesano della Comunicazione e delle Parrocchie, hanno ritenuto opportuno ampliare l’iniziativa. Perciò, fin dall’inizio, si è parlato  di “Mese della Parola”  e l’apertura   è avvenuta con  l’Intronizzazione della Bibbia durante il Vespro solenne di sabato 9 Settembre presso la Chiesa del Monastero delle Clarisse di Albano.   

In questo fine settimana, nei giorni 15-16-17, presso la “Casa Divin Maestro” di Ariccia, si è svolta invece l’iniziativa centrale del “Mese”, un’iniziativa di carattere formativo rivolta a tutti, operatori pastorali compresi:  la “Tre Giorni di incontro sulla Parola”, animata da P. Fabio Ciardi, degli ‘Oblati di Maria Immacolata’.  E’ stato come un rispondere all’invito  rivolto da Gesù ai suoi discepoli: “Venite in disparte… in un luogo solitario…” (Mc 6,31) quello dei partecipanti che hanno aderito con gioia allo scopo di prepararsi a vivere più in profondità l’esperienza del “Mese della Parola” per essere poi più incisivi negli incontri che seguiranno.
Sostanzialmente l’incontro ha avuto esito positivo, grazie  anche alla partecipazione di un buon numero di laici ben motivati, oltre alle Comunità Paoline. Si coglieva nei partecipanti il desiderio di sostare, di riflettere sui contenuti per farne  tesoro di  vita nella convinzione che si può   donare solo  ciò che si possiede.


Le riflessioni sono state sviluppate con grande chiarezza e sapienza, con tratti molto umani e suggestivi, in tre aspetti fondamentali per la vita spirituale di ognuno:

-                  “Accogliere e ardere della Parola” che il beato don Alberione traduceva nel motto “Penetrare e nutrirsi di ogni frase del Vangelo”: è stato il tema della prima giornata, seguito da un dibattito aperto per condividere il rapporto personale con la Parola. Momento conclusivo: un’adorazione prolungata per lasciarsi interpellare dalla Parola e porre nelle mani del Maestro divino l’impegno per essere veri testimoni e annunciatori del dono ricevuto.  

-                  “Vivere e far operare la Parola” poiché il Vangelo dichiara “Beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano”. Don Alberione traduceva ciò nell’impegno carismatico di “Vivere integralmente il Vangelo di Gesù Cristo”. La Parola ascoltata e accolta fa sì che scorra la Sua vita in noi, ci fa “uno con Lui e tra noi”. Maria è l’icona della Parola, è la Vergine in ascolto che crede alla Parola, la vive, la custodisce e costantemente la medita.  Allo scambio vivace in assemblea è seguito un tempo di adorazione e   interiorizzazione.

-                  “Annunciare la Parola”:  è stato l’argomento della terza riflessione   che  rimanda necessariamente alle parole della Bibbia: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente…; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9) e alle indicazioni apostoliche di don Alberione: “Non ho né oro né argento, ma vi dono quello che ho: il Vangelo di Gesù Cristo, Via Verità e Vita”. Infatti non possiamo tenere per noi la straordinaria scoperta del Vangelo. Dobbiamo  comunicare la Vita ricevuta perché altri ne siano partecipi e la comunione si dilati. Abbiamo una “buona notizia” da annunciare, un mandato missionario da attuare in virtù del battesimo che ci ha resi figli nel Figlio. E Maria rimane per noi il modello supremo.

Le riflessioni, presentate da don Fabio, con la passione di chi ne ha fatto esperienza viva, hanno “toccato” la mente,  il cuore e la volontà di tutti, facendo scaturire, soprattutto nel cuore dei tanti giovani presenti, tre verbi: “gustare la Parola” – “fidarsi della Parola” e “condividere la gioia e la forza della Parola”.
Dagli interventi, in forma di dialogo, che sono seguiti  alle relazioni, si sono colte espressioni che denotano una gioiosa ri-scoperta: “è proprio così, la Parola trasforma la vita”, “accompagna il nostro cammino”, “la Parola è il linguaggio umano che Dio usa per comunicare con noi”, “portare Dio con la nostra vita riuscita e realizzata umanamente è l’evangelizzazione più efficace”, “la Parola di Dio, vissuta, è il linguaggio che più viene accolto da tutti …”.
A conclusione c’è chi ha detto: “Se la Parola di Dio è nella nostra mente, nel nostro cuore e sulle nostre labbra” è come se  riceviamo un “bacio” da condividere con le persone che amiamo.

L’esperienza della “Tre Giorni” nella “Casa Divin Maestro” di Ariccia  possiamo dire   che è stata nuova, molto positiva e partecipata,  al punto che ha suscitato il desiderio di ripeterla periodicamente, ad esempio: un giorno al mese nei tempi forti. E ciò allo scopo di vivere più “integralmente il Vangelo di Cristo”, unica Parola certa, Parola che dona stabilità ad ogni cristiano, perché tutti siamo chiamati a vivere e ad annunciare la Parola, quali  “missionari  nell’ oggi della storia”!

martedì 19 settembre 2017

Joseph Samarakone, pioniere del dialogo interreligioso

  
Oggi in India si sono svolti i funerali di p. Joseph Samarakone, un pioniere del dialogo interreligioso.
Nel 2010 quando, in un libro di Richard Kearney e Eileen Rizo-Patron, pubblicò un breve racconto della sua vita, La mia avventura con il dialogo interreligioso, scrisse: «La visione del “regno di Gesù” abbraccia tutti i popoli, tutte le religioni, tutte le culture, anche le persone che non hanno religione e quindi tutte le ideologie e tutte le realtà della vita del popolo. Così il regno è più grande della Chiesa».
Lo incontrai nella sua Asharam nel dicembre 2011.
Così scrissi allora nel diario:

Sono nell’Aanmodaya Ashram. L’ashram è il luogo dove vive il sapiente con i suoi discepoli e dove egli insegna. Aanman significa l’anima, l’io e Udhayam risveglio: la Aanmodaya Ashram è il luogo del risveglio dell’anima, del risveglio di Dio che è in noi, quasi, mi spiega Padre Jeseph, “un grembo materno del Divino da cui rinasce costantemente la vita nuova”.
Tutto iniziò il 17 febbraio 1992, per una scelta degli Oblati indiani: volevano un luogo dove si potesse vivere a fondo la spiritualità oblata nello stile tipico della loro cultura. Affidarono il compito ad uno dei tre primi Oblati indiani, Amalraj Jesudass. Subito dopo venne con lui padre Joseph Samarakone, originario dello Sri Lanka. Dopo due anni che stavano insieme padre Analraj morì in un incidente.

“Non è lo stesso Dio quello che tutti preghiamo, anche se con nome diversi?”, mi ricorda Padre Joseph, e cita Benedetto XVI in preghiera nella moschea in Turchia, quando disse che Cristiani e Musulmani adoriamo lo stesso Dio. Ma Padre Joseph aggiunge: “Mi sarebbe piaciuto che avesse detto che tutte le religioni, non soltanto cristiani e musulmani, adorano lo stesso Dio”.
Mi recita, in sancrito, la Rig Veda, la scrittura sacra indiana di 3500 anni fa: “Dio è UNO, ma i sapienti parlano di lui in molti modi”. Poi il santo hindu Manikavasagar, che nel Thiruvasgam cantava: “Ti saluto Shiva, che hai preso il popolo delle Terre del Sud per tuo speciale possesso. Tu sei lo stesso Uno che tutte le nazioni della terra adorano come Dio. Ti saluto!”
Suo cavallo di battaglia è il documento conciliare Nostra Aetate e il documento pontificio sull’Atteggiamento della Chiesa davanti ai seguaci delle altre religioni. Me ne regala una copia con una sua dedica.
Usciamo di casa e andiamo nel tempio dove ogni giorno si svolge la meditazione e la preghiera. Da una parte il santissimo Sacramento, dall’altra la Bibbia, accompagnata da Scritture di altre tradizioni religiose. Iniziamo la preghiera: canta gli inni sacri al suono ritmato dei campanellini, poi legge e commenta alcuni passi della Bibbia, del Corano, della Gita. Infine la lode e l’adorazione con incensi, fiammelle… È la preghiera di un cristiano, espressa con le modalità tipiche del popolo indiano.
Fuori, tra le palme di cocco, le casette per l’ospitalità, dove tanti vengono per la preghiera o per un periodo di scuola di meditazione profonda, l’apprendimento delle vie per l’inculturazione e l’amore per tutte le religioni, con uno stile di vita estremamente semplicità. Tutti i giovani Oblati vi passano un periodo della loro formazione, così come tanti seminaristi, religiosi, suore, sacerdoti. Anche questo nel servizio che gli Oblati rendono alla Chiesa!


lunedì 18 settembre 2017

Fratel Giuseppe D’Orazio, “missionario del cuore”


Una certa Rosella Lemme mi scrive dopo aver letto sul blog la notizia della morte di Fratel Giuseppe D’Orazio:

Solo qualche giorno fa ho saputo della sua scomparsa… È vero che non era più un ragazzino ma aveva la grinta e lo spirito di un diciottenne... L'ultima volta l'avevamo sentito per Pasqua, poi non si era fatto più vivo; strano lui in tanti e tanti anni non saltava mai una nostra ricorrenza familiare... Pensavamo che fosse colpa del gran caldo ma invece...
Navigando su internet ho trovato i suoi due belli articoli e ne sono rimasta colpita.
Noi avevamo conosciuto Fratel D'Orazio indirettamente, tramite un altro confratello che conosceva bene mia nonna, la quale abitava ad Atessa, vicino al convento di San Pasquale dove c’erano gli Oblati. Vivendo a Roma spesso ci incontravamo, mia mamma poi gli era tanto affezionata. Quando ci siamo trasferiti ad Ancona, ogni volta che Fratel D'Orazio veniva a Loreto ci veniva a trovare ed era sempre una gran festa; dalla sua sacca usciva di tutto... per tutti!!!
Mi permetto di fare una considerazione: È tornato alla casa del padre il 17 maggio, proprio il giorno della festa di San Pasquale; nel convento di San Pasquale era iniziato il suo percorso religioso e nel giorno della sua festa si è concluso. Una semplice coincidenza?
Penso che Fratel D'Orazio ci abbia voluto stupire con quel suo fare scherzoso e ironico fino alla fine.
Ci mancherai... Con le tue immaginette, bigliettini, coroncine entravi nei nostri cuori e ci facevi sentire sempre presenti nella tua vita movimentata dedicata al servizio degli altri.
Ti ricorderemo come un Missionario non di terre sperdute e lontane ma come un Missionario del cuore


domenica 17 settembre 2017

La mia esperienza delle Parola di Vita con Chiara Lubich


È terminata felicemente la Tre giorni sulla Parola di Dio ad Ariccia. Momenti di tanta gioia. Col desiderio di continuare questi incontri in maniera regolare.
Tra le tante cose, ho anche raccontato una mia esperienza, che mi ha fatto capire che ogni Parola del Vangelo, se vissuta, produce sempre lo stesso effetto: porta ad amare.

All’inizio del 2000 Chiara Lubich mi chiamò a collaborare con lei nella preparazione dei commenti della “Parola di Vita”. Pubblico qui la foto di una mezza pagina con alcuni testi della Scrittura, scelti per l’anno 2002, con le annotazioni che mi mandata per avviare il commento.
Più volte, sorridendo e compiaciuta, rilevava come ogni Parola della Scrittura, qualunque essa fosse, alla fine portava ad amare e che, di conseguenza, ogni commento giungeva a questa conclusione.
Mi figuravo allora il Vangelo come un prato dai mille fiori, tanti quante le sue parole; un prato impregnato d’acqua – l’amore –, che non si vede in superficie, ma che affiora ad ogni passo: tutto amore.
  
Che ogni Parola di Dio sia amore appare ancora più evidente in quelle prime Parole di Vita che Chiara Lubich scriveva sotto una grazia particolarmente intensa, legata alle origini carismatiche. Potrebbe sembrare un’enfasi eccessiva, non sempre rispettosa di una lettura oggettiva. Al contrario, cogliere la centralità dell’agape in ogni parola evangelica è andare al cuore della Buona notizia, che fa coincidere l’annuncio con il Maestro stesso che l’annuncia; ogni sua parola e dunque espressione del suo essere Amore.

Chiara lo aveva scoperto, con intensità unica, proprio nel periodo in cui iniziava a scrivere questi primi commenti. Lei stessa l’ha narrato più tardi: «Vivendo una Parola e poi un’altra e un’altra ancora, avevamo costatato come, mettendo in pratica qualsiasi Parola di Dio, gli effetti alla fine erano identici. Il fatto è che ogni Parola, pur essendo espressa in termini umani e diversi, è Parola di Dio. Ma siccome Dio è Amore, ogni Parola è carità. Crediamo d’aver in quel tempo scoperto sotto ogni Parola la carità. E, quando una di queste Parole cadeva nella nostra anima, ci sembrava che si trasformasse in fuoco, in fiamme, si trasformasse in amore. Si poteva affermare che la nostra vita interiore era tutta amore».
Nel commento alla Parola di Vita di gennaio 1950 ne spiega in maniera ancora più profonda il motivo: «Ogni Parola di Dio è come un frammento d’Ostia Santa: contiene tutto Gesù. Contiene cioè l’Uomo-Dio, un finito infinitizzato ed un infinito finitizzato. È un’espressione particolare, fatta per alcune persone che contiene però in sé la Luce per tutte».
Vi è dunque una pericoresi tra tutte le parole del Vangelo, ognuna esprime tutto Gesù e tutto il suo amore. È così che ogni parola può trasformarsi “in fuoco, in fiamme, in amore”.


sabato 16 settembre 2017

La forza del perdono


In quel tempo, Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». (Mt 18, 21-35)

Quanto superficiali quei giornalisti che, a una madre alla quale hanno massacrato il figlio, domandano con disinvoltura: “Lei perdona?”. Come se il perdono fosse la cosa più naturale di questo mondo e non costasse niente. È molto più naturale la vendetta, già proclamata da Lamec nella notte dei tempi: “Sette volte sarà vendicato Caino, / ma Lamec settantasette”. I figli di Lamec sono ancora tra noi e si tramandano di generazione in generazione l’odio e le faide familiari.

Gesù ha interrotto la tradizione umana opponendo settante volte sette perdoni alle settantasette vendette.
Non sarebbe stato possibile conoscere il perdono se Gesù non ci avesse fatto conoscere un Padre misericordioso, che va al di là della giustizia e condona il debito, proprio come il re della parabola che non agisce in base alla legge, ma alla benevolenza.
Tutti, almeno una volta, abbiamo sperimentato l’amore del Padre, il perdono dei fratelli, la misericordia della Chiesa, che ci assolve dai peccati ogni volta che ci presentiamo pentiti. Come potremmo vivere senza la possibilità di ricominciare dopo ogni sbaglio? Chi non ha bisogno della fiducia degli altri, di sentirsi accolto e non giudicato? Che pace, che gioia ogni volta che usciamo dalla confessione, quando la grazia del perdono ci fa sentire leggeri, mette le ali, dà la voglia di vivere nella novità di vita che il sacramento trasmette.

Ma come è difficile entrare in questa logica del dono generoso, del superamento del dovuto: “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Il perdono non va in automatico. Occorre
educare il cuore in un esercizio quotidiano per vedere l’altro con occhi nuovi, così da scorgervi il disegno che Dio ha su di lui. Occorre allenarlo a quell’amore che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera”. Occorre che Gesù ci dia il suo stesso cuore, per essere come lui “mite e umile di cuore”.
La parabola più bella non è quella del re compassionevole che ci narra il Vangelo di questa domenica, ma quella che Gesù ci ha fatto vedere quando, lassù sulla croce, a un’ingiustizia mai perpetrata a tale estremo – uccidere Dio –  ha risposto perdonando i suoi uccisori.
Non è debolezza il perdono, è coraggio.

Ogni volta che torniamo a te, o Padre,
ci accoglie e ci perdoni,
ci ridoni sempre fiducia
e la forza per ricominciare.
Che impariamo da te a perdonare
come siamo perdonati,
ad amare come siamo amati,
a trovare le vie della concordia e della pace.


venerdì 15 settembre 2017

Accogliere e ardere della Parola


Ad Ariccia è cominciata la Tre giorni sulla Parola di Dio.
Una ottantina di persone, molte suore, tutte motivate, attente, prese.

Inizio con quanto don Alberione racconta di sé, in terza persona:
«Vi fu un tempo (anno scolastico 1906-1907) in cui egli ebbe una luce più chiara su di una grande ricchezza che il Signore voleva concedere alla Famiglia Paolina: la diffusione del Vangelo, che oggi è estesa ad una ventina di nazioni in varie maniere, specialmente con le giornate del Vangelo» (AD 136).
«In quel tempo si leggeva raramente e solo da qualche persona il Vangelo, come poco si frequentava la Comunione. Vi era anche una speciale persuasione che non si potesse dare al popolo il Vangelo, tanto meno la Bibbia. La lettura del Vangelo era una quasi esclusività degli acattolici, che lo interpretavano secondo il senso privato» (AD 139).
Per questo don Alberione portava con sé sempre il Vangelo e invitava la Famiglia Paolina a «pensare e nutrirsi di ogni frase del Vangelo» (AD 95).

Termino con una “esortazione”:
Come don Alberione il Vangelo “in tasca”.
Come ancora suggerisce papa Francesco: «Leggere tutti i giorni un brano del Vangelo, un passo per conoscere meglio Gesù, per spalancare il nostro cuore a Gesù, e così possiamo farlo conoscere meglio agli altri». E conclude con un suggerimento molto pratico, semplicissimo: «Anche portare un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, ci farà bene. Non dimenticare: ogni giorno leggere un brano di Vangelo».
Alzarsi al mattino e prima di prendere il caffè, prima di aprire il giornale, leggere il Vangelo del giorno.
«Leggo ogni giorno i Vangeli... – diceva Leonardo Sciascia – per me è come dare ogni giorno la corda all’orologio». Allora gli orologi si caricavano ogni giorno.


giovedì 14 settembre 2017

Correzione


Riguardo al blog di lunedì scorso, "Chi corregge i nostri sbagli?", mi hanno scritto due maestre:

- La prima: "La correzione non è giudizio ma è dono, di ciò che si è e si conosce a chi ancora non è arrivato sin qui".

- L'altra maestra scrive semplicemente: "Grazie".

mercoledì 13 settembre 2017

Invito ad Ariccia: Tre giorni sulla Parola


La Famiglia Paolina ha indetto un “Mese della Parola”, seguendo l’invito di Papa Francesco.
Nella diocesi di Albano si sono attivati con molte iniziative, per portare il Vangelo più a largo possibile.
Ma per dare occorre avere. Ed ecco una Tre giorni ad Ariccia per immergersi insieme nel Vangelo.
Ho la gioia di guidare questa Tre giorni con tre temi:
-                  Accogliere e ardere della Parola (venerdì pomeriggio)
-                  Vivere e far operare la Parola (sabato pomeriggio)
-                  Annunciare la Parola (domenica mattina)
Tutti invitati!