venerdì 30 marzo 2012

Renata colpisce ancora


A seguito del blog del 26 marzo su Renata Borlone sono arrivati vati vari commenti:

Il cammino di Renata ha avuto una evoluzione di purificazione tutta speciale.  Era riuscita a vivere in terra spegnendo se stessa, era un vuoto che poteva essere riempito solo da Dio. Le parole di Maria "ha guardato l'umiltà della sua serva" che Renata conservava in sé meditandole e vivendole, l'hanno purificata in ogni fibra del suo essere trasformandola in Colui che lei più di tutti amava, il suo Sposo e in lui era fiorito un amore grande che abbracciava l'Opera nella sua unità e il mondo nel suo Abbandono.

È stata per me una mamma spirituale, ma non meno madre della mia naturale.

Carissimo Padre Fabio, grazie di cuore di questo post su Renatina, come la chiamava Chiara.
La ricordo sempre sorridente. Lei è stata per me una madre aggiunta a quella terrena. Non solo per le cose spirituali, ma anche nella vita concreta.

giovedì 29 marzo 2012

Alberto Michelotti e Carlo Grisolia: un’amicizia nel divino


Si intitola così l’articolo che appare sull’ultimo numero della rivista “Unità e Carismi”.
Genova, oltre a Giovanni Santolini, ha dato i natali anche a questi due ragazzi morti entrambi nel 1980: Alberto durante una gita in montagna, in un canalone, Carlo per un tumore che lo porterà via nello stretto giro di 40.
Due amici e un unico processo di beati­ficazione, aperto negli anni in cui il card. Tar­cisio Bertone era alla guida dell’arcivescovado di Genova. Caso eccezionale nella storia della Chiesa. Era accaduto a due fratelli, Cirillo e Metodio, alla coppia di sposi Maria e Luigi e Beltrame Quattrocchi, beatificati da Giovanni Paolo II, ma a due amici mai.
Alla GMG di Colonia del 2005 – durante la catechesi del 17 agosto, dal titolo Ricercare la verità, senso pro­fondo dell’esistenza umana –, il card. Bertone citava la loro esperienza: “Due ragazzi genovesi che hanno coltivato una splendida amicizia, aperta e alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell’ideale evangelico, che li aveva affascinati. Carlo Grisolia e Alberto Michelotti hanno vissuto una storia di amicizia fra di loro e con i loro coetanei, in vista della santità. Facevano parte dei Gen (Generazione Nuova, emanazione del Movimento dei Foco­lari)”.
Vale la pena dare uno sguardo al loro sito: http://www.albertoecarlo.eu/

mercoledì 28 marzo 2012

Giovanni Santolini,lo zio missionario


Beatrice era una bambinetta quando disegnò lo zio Giovanni con un sorriso grande quanto tutto il foglio. A 15 anni dalla sua morte, assieme agli altri cugini, ha girato un video straordinario. Vale la pena vederlo:
Non si sa chi ti sorprende di più, lo zio o i nipoti (fra l’altro, ragazzi e ragazze, sembrano fatti tutti con lo stampino! È come vedere Giovanni Santolini nelle più diverse versioni…)
Una bellissima testimonianza di questi inimitabile missionario.

“Lo zio. Nostro zio. E' difficile descrivere una persona in modo da far risaltare le mille e una sfaccettature che la compongono. Ed è ancora più difficile quando questa persona la si è conosciuta (e persa, purtroppo) molto tempo fa. Per chi l'ha conosciuto, non ci sarebbe molto altro da aggiungere. Lo zio parlava da sé: bastavano semplicemente le sue azioni a raccontarlo. Per chi non ha avuto questa fortuna, invece, credo che fra le sue caratteristiche siano cinque quelle che spieghino meglio che tipo di persona fosse.
- La prima è senza dubbio la determinazione: nella sua lettera al Padre Provinciale per l'ammissione al noviziato scrisse infatti "Ho capito che se non divento santo la mia vita non ha senso: perciò mi son messo sotto a diventare santo".
- La seconda qualità: la semplicità. Credo che uno dei più grandi insegnamenti che ci abbia trasmesso sia quello di essere straordinario nell'ordinario, di fare del proprio meglio, sempre, ma soprattutto il fatto stesso di "fare" le cose: "Se devi fare un servizio" diceva "lo fai. Non ti tiri indietro. Se sai che una persona ha bisogno, le dai una mano." Queste sono state le sue massime, e ciò che più colpisce è che le pronunciasse come se il contenuto fosse scontato: vorrei che tutti, io per prima, potessimo imparare a pensarla come lui, ad essere eroi per abitudine come lo zio, abituato a dare la vita per gli altri.
- Il suo terzo punto di forza è stato il carisma: era davvero impossibile, infatti, non starlo ad ascoltare; indifferentemente da età, sesso, nazionalità e fede degli uditori, era capace  di farsi ascoltare per ore, di renderli tutti bambini incantati ed affascinati, desiderosi di sapere di più. Ancora oggi è in grado di farci riunire e ricordarci di mettere al primo posto ciò che è davvero essenziale.
- Il quarto pregio è la mancanza di paura: la forza, però, non di negare la paura e non provarla affatto, non di mostrarsi sbruffoni, al contrario, il coraggio di affrontarla a testa alta, consapevoli del fatto che esista qualcosa di più importante, qualcosa per cui lottare e di cui non possiamo permettere che la paura riesca a privarci.
- Non per ultima, la quinta dote, la sua infinita umanità: il mettersi sì a servizio degli altri, ma in primo luogo mettersi accanto agli altri; i più deboli, gli umili, coloro che hanno davvero bisogno. Questo è il compito che ha portato avanti: far sentire "primi" coloro che da sempre si trovano fra gli ultimi.” (Beatrice)


martedì 27 marzo 2012

San Saba mi ha ricompensato della burocrazia


È da un anno che sto lottando contro la burocrazia per certe pratiche. Ogni tanto devo recarmi all’ufficio che porta avanti le pratiche a nome mio. Ogni volta è una seccatura, ma… siamo a Roma e ogni angolo nasconde un capolavoro che ti consola di ogni piccola contrarietà. Così quando esco da quell’ufficio mi rifaccio gli occhi cuore con la Piramide Cestia, con la Porta San Paolo… Oggi ho visitato, proprio a due passi, la chiesa di San Saba, un autentico gioiello.
Sembra che sia costruita sulla casa di santa Silvia, la mamma del papa san Gregorio Magno. Sulle rovine della caserma della IV coorte di vigili del fuoco dell’epoca romana ( da lassù sull’Aventino potevano vedere bene se si appiccavano dei fuochi…) nel VII secolo c’erano già degli eremiti. Monaci della Palestina, in fuga dalle invasioni islamiche, portarono il corpo del loro grande san Saba, che aveva costruito il monastero nel deserto di Giuda, e si stabilirono qui. Il nuovo monastero divenne il più importante di Roma, centro di irradiazione di una vivace attività diplomatica verso Costantinopoli e il mondo barbarico.
Qui visse nientemeno che san Massimo il Confessore!
Poi il monastero passò ai Cluniacensi, ai Cistercensi, ai Canonici Lateranensi, ai Gesuiti.
Ma oggi più che la storia gloriosa sono stato rapito dalle architetture del portico, e dell’interno, e soprattutto dagli affreschi, a cominciare da dalla scena della guarigione del paralitico che viene calato nella casa dinanzi a Gesù, dopo che è stato scoperchiato il tetto; siamo addirittura alla prima metà dell’VIII secolo.
Nella la quarta navata sinistra (che non ha un corrispettivo a destra) un affresco con la celebre scena di San Nicola che, senza farsi vedere, dona dell’oro a ragazze povere, che dormono nella casa a fianco del loro padre, in maniera che possano sposarsi con la dote e la loro vita non venisse rovinata. (Da quel dono fatto nacque la tradizione dei doni fatti ai bambini il 6 di dicembre, festa di San Nicola, tradizione che si spostò poi al 25 dicembre quando il vescovo fu trasformato in Babbo Natale).
Un affresco dopo l’altro si arriva fino a una dolcissima annunciazione del 1400 e su su in susseguirsi di bellezza e di armonie che ti compensano abbondantemente di tutte le stuccherie burocratiche della Roma di oggi. 

lunedì 26 marzo 2012

Apertura del processo romano di Renata Borlone


Poteva esserci momento più bello per l’apertura del processo romano della causa di beatificazione per Renata Borlone? Le festa dell’Annunciazione, o come dicono i Bizantini, la festa dell’Evangelizzazione della Madre di Dio: Mari, mediante l’ascolto della parola di Dio recata dall’angelo, concepisce nel proprio grembo per opera dello Spirito Santo il Figlio di Dio, la Parola dell’Altissimo fatta carne.
Non c’è niente di più spoglio e burocratico dell’apertura del processo che non è, come si potrebbe immaginare, un solenne atto con tanto di giudici che danno l’avvio ad un processo, ma più prosaicamente l’apertura degli scatoloni che contengono i documenti del processo diocesano; apertura apertura! Si rompono i sigilli, si tagliano i nastri e il notaio guarda se tutti gli incartamenti sono a posto e completi.
Eppure questa mattina, alla Congregazione per le cause dei santi in Vaticano, c’era aria di festa e una profonda gioia. Giungeva in porto un lavoro lungo e paziente che ha ricostruito il cammino di fede e d’amore di questa donna eccezionale che speriamo possa essere presto riconosciuta santa.
Tra le tante cose che si potrebbero ricordare di lei riporto soltanto una frase che mostra la sua profonda sentita unione con Dio, quella che lei chiama «un’ansia grande di “trovare Gesù” come l’unico tesoro che non mi verrà mai tolto»: «… in questo ultimo periodo sperimento… la gioia di essere la Sua Sposa, una gioia che non ha più quel qualcosa di sensibile che era così di sostegno un tempo, ma forse più vera, più spirituale». Salvo poi ad aggiungere, con la sua tipica umiltà: «Spero di non ingannarmi».

domenica 25 marzo 2012

Scuola Abbà: Effetto Chiara


Oggi e ieri Scuola Abbà. Si ripete il miracolo di una ventina di professori, delle più diverse discipline, che si incontrano insieme per studiare l’esperienza mistica di Chiara Lubich e l’ispirazione che essa offre ai vari campi del sapere.
Questa foto, che ho scattato al tempo nel quale Chiara era con noi, mi è sempre piaciuta. Lei nella foto non si vede, ma se ne vede l’effetto, il riflesso sui volti dei professori, quasi un simbolo di ciò che è stata per tutti noi: una luce che ci ha illuminati.



Uno stralcio della testimonianza di p. Jesús Castellano che ricorda quei momenti di sapienza:

Le prime volte ho sentito di nuotare nella luce. Devo dire che quanto ascoltavo mi sembrava così profondamente vero e bello che io bevevo la sapienza; mi pareva di essere inondato di luce. Una delle prime volte mi è venuto di dire a Chiara: “Ma come hai fatto a scrivere queste cose?”, talmente mi sembravano alte, belle, frutto di una alta contemplazione. Le parole che si leggevano avevano una forza di verità straordinaria. Erano pagine di altissima teologia, di una proposta di fede limpida, sicura. Erano pagine che si imponevano per se stesse, con la forza della verità: una verità anche bella nell’espressione letteraria, nella sobrietà, nella incisività, nell’abbracciare tutto, nell’illuminare tutto.
La scuola di Chiara era davvero una scuola dell’Abbà, del Padre, fonte della sapienza, comunicata a noi ora, fatti uno in Gesù. Come lei e con lei, anche noi eravamo introdotti dallo Spirito Santo, se eravamo uno nel nulla di noi stessi.
Devo dire, con la semplicità di un bambino, che tante volte durante la scuola Abbà, ascoltando parole di luce relative alla Trinità, alla Chiesa, a Maria, all’Eucaristia, a Gesù Abbandonato, al nostro essere Gesù, al nostro nulla, mi sono venute le lacrime agli occhi, lacrime di gioia, perché sentivo una grande connaturalità con quanto veniva detto, con la perfetta consonanza della gioia della fede, perché tutto era in perfetta e nuova armonia con la fede e la dottrina della Chiesa, con la ricchezza dei Padri, con la teologia dell’Oriente cristiano, con le esperienze più alte dei mistici.
È come vedere le cose dall’alto, da Dio stesso come Trinità, fonte, meta, ma anche sigillo, orma di tutto. Tutto porta l’impronta della Trinità: la creazione, la storia, il passato, il presente, il futuro, la Chiesa, l’umanità intera, l’escatologia: il cielo, l’inferno.
Della scuola Abbà mi piace il metodo, tanto singolare, tanto diverso dalle nostre scuole. È il metodo dell’unità. Tanti insieme, ma come un unico pensiero, una sola mente, in un ascolto reciproco. Mettendo in pratica quello che ascoltiamo, vivendo i due principi stessi della Scuola: l’unità, sigillata ogni volta dal patto e Gesù Abbandonato, essendo il nulla di amore nell’ascolto dell’altro, degli altri; come discepoli della sapienza, in una conoscenza di amore, per essere edotti insieme dallo Spirito; per accogliere, senza discutere; per contribuire con i nostri pensieri, ma senza essere attaccati ai nostri giudizi. Con la consapevolezza che dobbiamo aprirci ad una verità tanto universale quanto il progetto stesso di Dio, che ha bisogno di tutte le scienze umane, per illuminare ed essere illuminato.

sabato 24 marzo 2012

Eucaristia e Oblazione


Un sacerdote mi ha inviato una e-mail chiedendomi della bibliografia su Eucaristia e Oblazione.
Sarei tentato di rimandarlo al primo scritto che ne parla, nell’anno 56 circa, la prima lettera di Paolo ai Corinti: “Questo è il mio corpo, che è per voi”, o al Vangelo di Luca: “Questo è il mio corpo che è dato per voi”, “questo  calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.
Con l’Eucaristia Gesù mostra chiaramente che non vive per se stesso, ma per gli altri, per noi.
Il dono del suo corpo e del suo sangue indicano il dono di tutta la sua persona, del suo amore estremo, “fino alla fine”, fino alla morte di croce.
È lui l’“Oblato” per eccellenza, interamente donato.
Ogni altra oblazione, la nostra oblazione, si misura sulla sua: una vita totalmente donata; ed è possibile perché egli ci unisce alla sua oblazione.
È come quando si mettono le poche gocce d’acqua nel vino all’offertorio della messa: “L’acqua unita al vino sia il segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra condiziona umana”. Una volta che le gocce sono lì nel vivo chi può più separarle? E una volta che quel vino si trasforma in Cristo non si trasformano anch’esse in lui? 

venerdì 23 marzo 2012

"Allēlōn" richiede il “tìthēmi”, lo strano verbo per spogliarsi / 4


Dall’Uruguay un invito ad andare avanti con il blog:
«Grazie per la poesia di "primavera"... e soprattutto per quella splendida sequenza di testi che viene a pennello per animare le nostre "piccole comunità" all'inizio del nuovo anno pastorale. Sono piccole, sono poche, di persone semplici, ma se praticano il "suo Comandamento"».
A quelle “piccole comunità” vorrei ricordare il gesto di Gesù subito prima di cominciare a lavare i piedi ai discepoli: si tolse la veste. Giovanni, come al solito, fa il ricercato e non usa un vocabolo così usuale del “togliersi” la veste. No, usa il verbo “tìthēmi” (ci risiamo, il greco!), lo stesso che Gesù aveva usato per parlare del buon pastore che “dà” la vita, lo stesso che aveva usato per parlare di sé, quando aveva detto che la vita non gliela toglieva nessuno, perché egli stesso l’avrebbe data da sé.
Nessuno gli toglie la veste quella sera dell’ultima cena, se la toglie (“tìthēmi”) lui stesso; così nessuno gli toglie la vita, la dona (“tìthēmi”) lui stesso.
Quella “veste” è dunque simbolo della sua vita, della sua gloria, della sua divinità di cui egli si spoglia per essere nudo come noi e condividere la nostra umana povertà, il nostro peccato, la nostra morte.
Quando ci invita a fare come lui, a lavarci i piedi gli uni gli altri, è sottinteso che prima dobbiamo anche noi spogliarci di tutto per farci uno con l’altro, fino a dare (“tìthēmi”) la vita.
Il bello è che finita la lavanda (simbolo del suo servizio estremo fino alla passione e morte), Gesù riprende la veste (il gesto che simbolizza la risurrezione). Ma ora la sua veste (la sua vita, la sua gloria, la sua divinità) non è più come di prima; ora egli si riveste di tutti noi: il suo corpo glorioso ha la pienezza di tutti noi.
Rifare quel suo gesto porta a condividere vita e morte di Gesù, a spogliarsi (“tìthēmi” = donare) e a rivestirci di vita.

giovedì 22 marzo 2012

"Allēlōn" e “kathōs”: il come della relazione / 3


Una quarantina di giovani studenti all’ultimo anno di liceo sono stati con noi tutta la giornata per il ritiro in preparazione alla Pasqua. Ragazzi e ragazze stupendi, come sanno esserlo quelli di oggi, attenti, interessati...
Anche con loro ci siamo soffermati sullo specifico cristiano, la reciprocità, quel "allēlōn" = l’un l’altro, che caratterizza i rapporti tra i cristiani.
Ma come arrivare ad amarci l’un l’altro, con tutte quelle tonalità dell’amore viste nei giorni scorsi?
Come? Appunto “come”, quella particella greca, “kathōs”, che torna continuamente nei discorsi dell’ultima cena di Gesù, a cominciare proprio dal comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”, e prima ancora dall’invito rivolto dopo la lavanda dei piedi: “Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi”.
Quel “kathōs” è insieme esemplare e causale:
- amatevi e lavatevi i piedi (mettetevi a servizio gli uni degli altri) secondo il modello che io ho dato (amore estremo, capace di donare tutto, fino alla vita)
- amatevi e lavatevi i piedi perché io vi ho amato e vi ho lavato i piedi: il suo amore e il suo gesto ci trasformano in lui e ci consente di agire come lui; più ancora, possiamo amare e servire perché è lui che viene ad amare e servire in noi.
Così nella preghiera di Gesù al Padre: “Siano una cosa sola come noi” = 
- sul modello dell’unità tra Gesù e il Padre; 
- possiamo essere uno perché loro sono uno e ci rendono partecipi della loro unità.
Viene proprio la voglia di ringraziare Gesù che ci ha insegnato come vivere – ce l’ha fatto vedere con la sua stessa vita – e ci ha amato al punto da diventare noi e consentendoci di  vivere come lui; basta lasciarlo fare, lasciarlo vivere e amare in noi.

mercoledì 21 marzo 2012

Una poesia per l’inizio di primavera


Non seppi dirti quant'io t'amo, Dio
nel quale credo, Dio che sei la vita
vivente, e quella già vissuta e quella
ch'è da viver più oltre: oltre i confini
dei mondi, e dove non esiste il tempo.
Non seppi; - ma a Te nulla occulto resta
di ciò che tace nel profondo. Ogni atto
di vita, in me, fu amore. Ed io credetti
fosse per l'uomo, o l'opera, o la patria
terrena, o i nati dal mio saldo ceppo,
o i fior, le piante, i frutti che dal sole
hanno sostanza, nutrimento e luce;
ma fu amore di Te, che in ogni cosa
e creatura sei presente.  (…)
Or - Dio che sempre amai - t'amo sapendo
d'amarti; (…)

Questa di Ada Negri è più una poesia d’autunno che di primavera, perché scritta alla fine della vita, quasi cogliendone il frutto.
Ma forse è proprio ponendosi alla fine, guardando a ciò che solo resta, che si può iniziare con nuova passione, e nella giusta direzione.

martedì 20 marzo 2012

«Allēlōn», le mille variazioni sul tema / 2


Paolo soprattutto, ma anche le lettere cattoliche, impiegano il pronome «allēlōn» con grande profusione, più di 90 volte. Una cinquantina di ricorrenze, lette di seguito, appaiono come un commento e una spiegazione di cos’è l’amore reciproco. Il comando del Signore è quello di amarsi gli uni gli altri, sembrano dire i testi neotestamentari, ma come va vissuta in concreto la reciprocità dell’amore, come si esprime l’amore? La risposta è nel massiccio impiego del pronome «allēlōn» declinato in molteplici modi.
Forse potrà apparire monotono sentir ripetere, in tante varianti, questo «l’un l’altro», comunque si rivela oltremodo istruttivo. Gesù stesso aveva spiegato cosa volesse dire amarsi gli uni gli altri, invitando a lavarsi i piedi gli uni gli altri, espressione di ogni tipo di servizio e di attenzione all’altro (Gv 13,14).
Iniziamo dunque la carrellata delle ricorrenze.
A Pietro, primo tra gli apostoli, il compito di dirci la qualità di questo amore: «per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri» (1 Pt 1,22).
Ed ora i mille volti dell’amore reciproco. L’amore vicendevole domanda stima vicendevole: (Rm 12,10: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda»),

  • condividere la fede gli uni con gli altri (Rm 1,12),
  • avere gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri (Rm 12,16; 15,4),
  • edificarsi a vicenda (Rm 14,19),
  • accogliersi l’un l’altro (Rm 15,7),
  • correggersi l’un l’altro (Rm 15,14),
  • scambiarsi il bacio santo (Rm 16,16; 1 Cor 16,20; 2 Cor 13,12; 1 Pt 5,14),
  • aspettarsi gli uni gli altri per cenare insieme (1 Cor 11,33),
  • essere a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13),
  • portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2),
  • sopportarsi a vicenda nell’amore (Ef 4,2; 5,21; Col 3,13),
  • volere il bene gli uni verso gli altri (Ef 4,32),
  • essere misericordiosi e perdonarsi (Ef 4,32; Col 3,13),
  • confortarsi a vicenda (1 Tes 4,18; 5,11),
  • essere di aiuto gli uni gli altri (1 Tes 5,11),
  • cercare il bene vicendevole (1 Tes 5,15),
  • prestare attenzione gli uni agli altri (Eb 10,24),
  • confessare i peccati gli uni agli altri (Gc 5,16),
  • pregate gli uni per gli altri (Gc 5,16),
  • praticare l’ospitalità in maniera vicendevole (1 Pt 4,9),
  • rivestirsi di umiltà l’un l’altro (1 Pt 5,5)
  • essere in comunione gli uni con gli altri (1 Gv 1,7).
In negativo:
  • non ci si può giudicare gli uni gli altri (Rm 14,13),
  • non ci si può rifiutare l’un l’altro nell’ambito dei rapporti matrimoniali (1 Cor 7,5),
  • non ci si deve mordere né divorare né distruggere a vicenda (Gal 5,15),
  • non va cercata la vanagloria, provocandosi e invidiandosi gli uni gli altri (Gal 5,26),
  • non si può dire menzogne gli uni agli altri (Col 3,9),
  • né male gli uni degli altri (Gc 4,11),
  • né lamentarsi gli uni degli altri (Gc 5,9).
Quanta concretezza nell’amore reciproco! Non è un vago sentimento, un semplice «volersi bene», ma un amore serie ed esigente, che attualizza in mille espressioni, fino al punto da giungere a dare la vita gli uni per gli altri.

lunedì 19 marzo 2012

"Allēlōn": lo specifico dell’agire cristiano / 1


Il Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2012 è sotto il segno del pronome reciproco greco: «allēlōn», l’un l’altro. Lo troviamo nel titolo stesso (nella forma plurale di «allēlous») costituito dalla citazione della lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni gli altri» (10,24)

Il papa vuole portare al «cuore della vita cristiana: la carità». Questo significa, scrive il Papa, che “la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale».
A differenza di quanto aveva fatto nella sua prima enciclica Deus caritas est, nel Messaggio per la Quaresima, la carità è colta nella dimensione tipicamente cristiana della reciprocità. Il novum del cristianesimo non è, infatti, l’amare Dio (tutte le religione lo insegnano), né l’amore al fratello (tutte le religioni conoscono la «regola d’oro»); il novum – così lo ha chiamato Gesù – è la reciprocità dell’amore, racchiuso proprio in quel pronome: «l’un l’altro».

Amatevi l’un l’altro, cuore del messaggio cristiano
Al cuore del messaggio di Gesù vi è proprio il comando di amarsi gli uni gli altri. Esso appare già nel primo scritto ispirato del Nuovo Testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, dove Paolo prende atto della realtà dell’amore fraterno presente nella sua comunità; non c’è bisogno che egli scriva qualcosa al riguardo, perché «voi stessi avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri» (4,9); per questo aveva innalzato la preghiera al Signore che «vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (3,12).
Nella seconda lettera sempre ai Tessalonicesi nota che l’amore reciproco tra di essi va crescendo (1,3). I membri delle comunità cristiane si amano perché sono membra gli uni degli altri (Rm 12,5; Ef 4,25), e di conseguenza devono avere cura gli uni degli altri (1 Cor 12,25). L’amore reciproco dovrebbe essere l’unico debito tra cristiani (Rm 13,8) e mantenere il primo posto tra di loro (Gal 6,10).
Paolo fa riferimento al comando dato dal Signore durante l’ultima cena. Giovanni lo riporta quattro volte nel suo Vangelo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (13,34; 13,35; 15,12; 15,17); lo riprende poi per ben sei volte nella sua prima e seconda lettera – «Questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri» (1 Gv 3,11; 3,23; 4;12; 2 Gv 1,5) –, motivandolo, come nel Vangelo, con l’esempio dato da Dio che è Amore (1 Gv 4,7; 4,11).
Perché da un Dio che è amore scorga non soltanto il comando di amare Dio e il prossimo, come nelle altre religioni, ma anche e soprattutto quello dell’amore reciproco? È proprio qui il novum del comandamento di Gesù, quello che lui ha portato dal Cielo (per questo lo chiama «suo»): il comando dell’amore reciproco è l’espressione della reciprocità d’amore che si vive in Dio stesso, perché Dio è Comunione, è Unità nella reciprocità d’amore tra le Tre divine persone: è Trinità.

domenica 18 marzo 2012

La Madonna della Luce


La pietà portata a Lumières da de Mazenod
Addio, Madonna nella Luce. Lascio la cripta dove risplende la statua dorata della Madonna. Gli Oblati nel 1800 le hanno messo in braccio un bambinello, che prima non c’era, a ricordare che lei è la Madre della Luce. È come un invito a meditare sulla «Luce vera, che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9), su Gesù che si proclama «la luce del mondo» (Gv 8, 12; 9, 5). Una luce, la sua, che non soltanto illumina, ma accende della sua stessa luce rendendo uomini di luce.
Quella luce che brillava sul volto di Gesù il giorno della trasfigurazione sul monte Tabor, riverbera ora sul nostro volto: siamo avvampati dal suo stesso fuoco: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6); «Siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo» (Fil 2, 15). È la nostra vocazione.
Maria è lì che attende nel suo santuario, prima “illuminata”, tutta vestita di sole, come ce la descrive l’Apocalisse, l’Immacolata! Madre della Luce, ce la dona donandoci il Figlio suo; ce lo dona privandosi di esso. Non è un caso che nel Santuario di Notre-Dame de Lumières, da tempo immemorabile, Maria sia venerata come Madre dei Dolori, con in grembo il Figlio morto perché donato. Sul frontone della chiesa è raffigurata così. Così la raffigurano anche i primi ex voto, quadretti bellissimi, che cominciano a fiorire in chiesa dopo appena due anni dal primo miracolo. È la Madonna la più vicina alla gente, quella che condivide il dolore di ognuno.
 I 250 quadretti di ex voto sono un capolavoro della pietà popolare, mostrano la vita e le avversità quotidiane della povera gente e l’intervento materno di Maria. Sant’Eugenio de Mazenod era in sintonia con la devozione popolare quando da Lione fece portare una straordinaria pietà policroma, appartenuta ad un eremita. Scolpita in un unico blocco di legno, Maria vi è ritratta con una espressione commovente.
La luce della Risurrezione sprigiona dall’abbandono e dalla desolazione della croce.

sabato 17 marzo 2012

La Provenza nella luce del tramonto



Un ultimo salto su per la collina di fronte al santuario di Notre-Dame de Lumières. Il sentiero è ripido e appena segnato in mezzo al bosso rigoglioso, a lecci e olivi. In alto, piantata su di un grande masso, la croce a ricordo di una delle missioni predicata dagli Oblati nel paese di Goult. Verso il paese le terrazze con i muri a secco, costruite con pazienza lungo i secoli tra le rocce per coltivare i cereali. Poi appare l’antico mulino a vento e infine le mura e la porta di Goult, ricca di un castello e di una chiesa del dodicesimo secolo e di 1210 abitanti, compreso quello che mi ha fermato per strada per parlarmi dello Spirito di Dio che tiene in mano tutto il creato e il cuore dell’uomo! Tutto è costruito rigorosamente in pietra, case, passaggi ad arco, bastioni... Ogni vicolo una sorpresa. Belgi, Olandesi, Tedeschi hanno comprato le antiche case ed ora ogni edificio è restaurato e abbellito con tocchi artistici originali.
Vorrei che lassù il silenzio e la pace del tramonto non avessi mai fine e il sole si fermasse a colorare le campagne e le colline provenzali con i piccoli borghi e casali, le vigne ordinate, i sassi e l’ocra, ravvivati dagli ultimi suoi raggi. Che capolavoro quando Dio e l’uomo collaborano a far bella la creazione. 

venerdì 16 marzo 2012

Hanno dato la vita per il Vangelo



Ma cosa faccio qui in Francia? Nei momenti liberi approfitto di queste belle giornate di sole per correre per boschi e borghi vicini… ma sono soltanto i pochi momenti liberi. Per il resto tutto il tempo è preso dal guidare gli esercizi spirituali a una quarantina di Oblati della Francia. Un’esperienza straordinaria. Non sono tutti giovani come in Ucraina, Guinea Bissau e gli altri Paesi visitati recentemente. La maggior parte sono piuttosto anziani, ed è un’altra bellezza. Innanzitutto sono di nazionalità diverse: oltre ai Francesi ci sono Irlandesi, Belgi, Polacchi, Sudafricani, Congolesi, Italiani… Ma soprattutto tanti di loro sono stati in missione, spendendo la vita in Indonesia, Laos, Cameroun, Ciad, Polinesia, con gli indiani e gli eschimesi del Canada… Uomini che hanno dato la vita per il Vangelo e si sono consumati per amore. Una testimonianza di come si segue Gesù dovunque e comunque.

giovedì 15 marzo 2012

Così si vive a Lumières


... ai piedi della roccia
Il santuario di Notre-Dame de Lumières...
“Ho trascorso in mezzo a voi cinque giorni  deliziosi. Ho scoperto che davvero vi amate tra di voi come fratelli, e tutti avete un cuore solo e un'anima sola. Non vi è alcun disaccordo tra di voi, ognuno è felice a suo modo”.
Così scriveva sant’Eugenio de Mazenod visitando la comunità di Notre-Dame de Lumières.
Anch’io alla fine di questi giorni qui a Lumières potrò scrivere la stessa cosa!
Alla fine della vita lui poteva dire di tutti gli Oblati: “… un cuor solo e un’anima sola. Questo è sempre stato il nostro segno distintivo, come quello dei primi cristiani. È lo spirito che ho voluto infondere nella nostra Congregazione”

mercoledì 14 marzo 2012

Ha squarciato la barriera che separa cielo e terra


Quattro anni fa la partenza per il cielo di chiara Lubich. Allora, tornando da Cuba per partecipare al suo funerale, la ricordavo così:

«Nessuno è mai tornato dall’al di là a dirci se il cielo esiste veramente». Quante volte abbiamo ascoltato o forse pronunciato parole simili, soggiogati dal dubbio, specie quando vediamo ricoprire di terra persone care.
È vero, nessuno è mai tornato. Ma c’è chi vi è andato! pur rimanendo tra noi. Sono i mistici, uomini e donne rapiti nell’estasi, che hanno udito e visto le cose del cielo. Chiara è una di questi.
Donna del nostro tempo è aliena da fenomeni estatici, manifestazioni esteriori, particolari languori. Eppure, figlia nel Figlio, è stata introdotta dallo Spirito nel seno del Padre. Donna di comunione ci ha resi partecipi di quanto ha visto («non con questi occhi – era solita ripetere –, ma è proprio come vedessi…»), e ci ha messo in cuore una struggente nostalgia di Paradiso.
La sua non è stata l’esperienza di una mistica solitaria e isolata. Ella ha saputo coinvolgerci in essa al punto da renderci consapevoli delle realtà più vere e profonde nelle quali siamo immersi: «Siamo tanto in Dio da essere l’intimo di Dio».
Ma se noi siamo lì, in Dio, anche chi grazie alla morte dimora lì vive qui con noi. È come se Chiara avesse squarciato quella impenetrabile barriera che separa cielo e terra e ristabilita la comunione, mai interrotta, tra morti e vivi: «Io li sento vicini: sento che mi aspettano».
Quali rapporti tra loro e noi? Loro sono coinvolti dalla comunione dei Tre, che vivono l’uno per l’altro, l’uno nell’altro, l’uno dell’altro. Noi possiamo vivere la stessa vita del cielo, perché Gesù l’ha portato da lassù, condensandola nel comandando dell’amore scambievole. Ed anche tra cielo e terra c’è lo stesso legame d’amore che va e che viene: «No, non sono perduti i nostri fratelli… Essi vivono nella celeste patria e, attraverso Dio, in cui sono, possiamo continuare ad amarci a vicenda». Noi li amiamo ricordandone esempi e parole, onorandone le tombe, invocandone l’aiuto. Loro ci amano standoci vicino, intercedendo per noi. Siamo un’unica famiglia in attesa di riunirci. «A rivederci», mi ha detto l’ultima volta che l’ho incontrata.

martedì 13 marzo 2012

Gli Oblati a Notre Dame de Lumière


Il santuario in mezzo al piccolo borgo
La cripta con la statua della Madonna della luce
Sant’Eugenio, arrivato a Lumière il 30 maggio 1837, aveva "esaminato palmo a palmo casa e giardini" e aveva trovato la chiesa "di dimensioni notevoli e ben costruita". Gli Oblati arrivarono il 2 giugno, Primo Venerdì e festa del Sacro Cuore. Era la decima comunità della congregazione, un santuario come quasi tutte le altre precedenti fondazioni.
Il loro compito, concordato con il vescovo: 1. essere custodi del Santuario di Nostra Signora della Luce, per perpetuare e propagare sempre più la devozione alla Madre Santissima di Dio e dare un giusto orientamento alla pietà popolare dei fedeli che giungevano da ogni parte della diocesi e da anche più lontano; 2. evangelizzare tutte le parrocchie della diocesi, o con le missioni o con i ritiri spirituali, su richiesta dei parroci e del vescovo; 3. dare esercizi spirituali per i sacerdoti e gli altri ecclesiastici che che venivano al santuario per qualche giorno in solitudine.
Dopo l'arrivo degli Oblati, il locali della Madonna dei Lumi subirono un drastico mutamento. Tutto era malandato, il convento in rovina e la chiesa, così come la cappella di San Michele sulla collina, sul punto di crollare.
Con restauro materiale quello spirituale. In pochi anni riprese il flusso dei pellegrini e il pellegrinaggio l’antico splendore. Erano ormai circa 50.000 pellegrini che vi giungevano ogni anno, soprattutto il 15 agosto, l'8 settembre e il 29 settembre, il giorno dell'Arcangelo Michele. Erano in ventimila per l'incoronazione della Vergine, il 30 luglio 1864.
La casa degli Oblati
Particolarmente belle le liturgie notturne, a ricordo della “luce” che avevano risplenduto sul posto: fiaccolata alla cappella Saint-Michel, prediche, confessioni, messe all'aperto…
Non sono mancati i miracoli, registrati da Padre Francon fino al 1880. Fedeli allo scopo primario della Congregazione, i padri partivano nel mese di ottobre per predicare le missioni e tornavano per la stagione dei pellegrinaggi a maggio-giugno.
Tra il 1837-1863 furono predicati: 129 missioni, 30 giubilei, 118 ritiri nelle diocesi di Avignone, Valence, Aix e Digne.
Nostra Signora della Luce è stata quasi sempre anche casa di formazione per i futuri missionari: dal 1840 al 1847 i primi giovani liceali. Una trentina, diventati Oblati, partirono per i quattro angoli del mondo. Qui hanno iniziato la loro formazione anche i futuri primi biografi di sant’Eugenio: Rambert e Rey.
Quando il noviziato raggiuge il numero di Settanta il juniorato di Lumière fu chiuso: troppe vocazioni! Venne riaperto nel 1854-1882. 
Il 29 marzo 1880 un decreto del governo scioglie i gruppi religiosi. Il 5 novembre 1880, i padri vengono cacciati di casa dalla polizia. La chiesa è ufficialmente chiusa al pubblico. Durante l'estate del 1882 il juniorato deve, a sua volta, chiudere i battenti e giovani vengono inviati a Diano Marina, in Italia.
A poco a poco i padri tornano e riprendono a predicare le missioni. Per la terza volta si riapre il giuniorato – 1887-1901 – con una media di cinquanta di studenti.
Nel 1901 nuova offensiva anticlericale. Il commissario di polizia notifica agli Oblati che devono lasciare casa entro quindici giorni; Nostra Signora della Luce diventa ancora proprietà dello Stato.
Dopo la guerra 1914-1918, il governo si fa più tollerante. Gli Oblati comprano il santuario e il 8 Settembre 1923 celebrano di nuovo la messa con 4.000 pellegrini. La casa accoglie per la quarta volta gli juniores, dal 1922-1928, anno in cui si trasferiscono a Lione. In cambio giunge lo Scolasticato – gli studenti di teologia – e nel 1930 si costruisce la grande cappella, uno dei primo esempio di edificio in cemento armato. Nel 1951, gli scolastici raggiungono i loro colleghi a Solignac, nel Nord.
Ma gli Oblati sono ancora qui, custodi del santuario; accolgono i pellegrini e lavorano nelle parrocchie attorno. 

lunedì 12 marzo 2012

Lumière, borgo dove i draghi sono sconfitti




Cappella di san Michele
Punto di passaggio obbligato - tra gli ultimi contrafforti dei monti di Valchiusa a Nord e la catena del Luberon al Sud -, l’attuale sito di Lumière, già abitato dal 5000 avanti Cristo, divenne un oppidum romano, lungo la via Domitia che dal colle del Moncenisio portava fino in Spagna.
Nel secolo XI vi era una cripta con una cappella dedicata a san Michele Arcangelo. Era un luogo di confine questo, nevralgico e pericoloso, chissà che non vi si aggirassero draghi pronti a divorare i viandanti… Aveva bisogno di potenti difensori! Chi meglio di san Michele che aveva combattuto contro il dragone antico? Dall’altra parte del passaggio un’altra cappella, dedicata a san Venanzio, un altro che ci sapeva fare con i draghi.
Prima ancora, tra il IV e V secolo, il luogo era abitato da gruppi di eremiti legati alla celebre abbazia di Mananque, fondata da san Castoro, vescovo di Apta; anche la mogoie aveva fondato sulla montagna di Luberon un monastero di donne. Risale forse ad allora, ad opera di questi eremiti, una prima cappella dedicata alla Vergine, quella che poi sarà Notre-Dame de Lumières. Molto frequentata durante il Medioevo, fu abbandonata e più volte distrutta, a seguito delle invasioni saracene, delle devastazioni dei Valdesi, delle guerre di religione del XVI secolo.
Nell’agosto 1661, un vecchio malato della città di Gordes, Antoine de Nantes, passando di là vide "una grande luce" vicino alle rovine, e nella luce “il più bel bambino che potessi mai immaginare”. L’infermo gli tese le braccia, ma la visione scomparve mentre lui fu veniva guarito da una ernia di "una dimensione di prodigiosa grandezza." Così narrano le storie di allora.
Come segno di gratitudine alla Vergine, il popolo, dopo aver visto a sua volta “le luci” in quel luogo, restaurò l’antica cappella. La cripta fu completata nel 1663. I Carmelitani, venuti l'anno successivo, cominciarono a costruire una chiesa sopra la cripta. Il vescovo di Cavaillon la consacrò con titolo di "Madre della Luce Eterna".
Molti i pellegrini (20.000 all’anno) e molte le guarigioni. Con la Rivoluzione, chiesa e monastero furono messi all'asta. Più tardi vennero acquistati dai Trappisti che vi rimasero per pochissimo tempo, fin quando nel 1837 arrivarono gli Oblati… ma questa è un’altra storia.
Oggi la cappella di san Michele è sulla montagna, ad appena una decina di minuti dal santuario. Vi sono salito per l’erto sentiero e ho visitato la tomba dove sono sepolti una quarantina di Oblati; l’ultima è una semplice urna con le ceneri dell’ultimo Oblato morto recentemente, un laotiano. La statua di san Michele, bello come un angelo!, è lì a ricordare, come dice il suo nome e come porta scritto sullo scudo, che nessuno è come Dio!
Ho poi continuato per boschi, trovando i muri a secco che delimitano le proprietà e segnano i sentieri, le terrazze per le coltivazioni dei cereali, i resti di antichi villaggi in pietra e le bories, le capanne sempre in pietra a secco. Vita dura quella che si viveva qui fino a pochi secoli fa, non dissimile a quella che vi conducevano gli antichi abitanti, i Liguri, popolazione che, dalle terre degli Etruschi, andava fino a quelle dei Celti. Posidonio, alla fine della Repubblica romana, la descriveva così: “Il loro paese è selvaggio e arido. Il suolo è così pietroso che non si può piantare niente senza incontrare il sasso. Il lavoro duro e le privazioni rendono difficile la vita dei Liguri… Vanno su per le montagne come cervi…”. Mi ritrovo ligure, grazie alla descrizione di quel loro andar su come cervi!