mercoledì 31 gennaio 2024

Il futuro della vita consacrata

 

Tre giorni di lezioni con in gruppo straordinario rappresentativo di tutta la Famiglia paolina di don Alberione: 20 membri della Società san Paolo, Figlie di san Paolo, del Divin Maestro, del Buon Pastore, Cooperatori Paolini..., provenienti da tutto il mondo. Hanno il coraggio di spendere un intero anno nello studio del loro carisma, della storia della Famiglia, della sua vita oggi... Ed è già il XXV anno che si tiene questo corso. Fantastico.

A me il tema sul futuro della vita consacrata. Se l’avessero domandato ai monaci dei inizio del secondo millennio avrebbero detto che stava appena rinascendo l’eremitismo, con i Vallombrosani, i Camaldolesi, i Certosini... Era quello il futuro che si stava delineando. Nessuno si sarebbe immaginato che da lì a pochi anni tutta la vita religiosa si sarebbe rivoluzionata con l’arrivo dei nuovi ordini mendicanti, che avrebbero lasciato i luoghi solitari per andare a vivere in città, avrebbero rinunciato alla stabilità per l’itineranza, alle grandi strutture per delle agili fraternità... I monaci dell’inizio del secondo primo millennio non potevano prevedere le nuove forme di vita religiosa che presto sarebbero sorte, ma lo Spirito Santo lo sapeva! Anche per il terzo millennio, lasciamo che sia lo Spirito Santo a disegnare la vita religiosa: lo sa fare meglio di noi, con molta più creatività. Eppure vedo che si moltiplicano i libri sul futuro della vita religiosa...

Quello che possiamo fare è interrogarci su come oggi siamo chiamati a vivere i valori fondamentali della vita consacrata, in modo da poter affrontare le sfide del futuro e offrire proposte profetiche. Al termine delle mie lezioni di questi giorni ho sviluppato cinque punti di riferimento che penso fondamentali: il primato di Dio in una vita evangelica, il carisma e la profezia, la comunione, la vicinanza e la solidarietà con la gente, il dialogo a tutto campo.

Ed ho iniziato proprio con il primato di Dio in una vita evangelica, qualcosa che potrebbe sembrare scontato. Non lo è affatto. L’imborghesimento, il bisogno di uno status sociale, la ricerca dell’efficienza dell’istituto e dell’autonomia personale hanno minato fortemente il primato di Dio all’interno della vita consacrata. Senza questo primato la vita religiosa non ha alcun senso. Entrando nel terzo millennio vorremmo portare con noi soltanto il libro del Vangelo. Vorremmo che esso fosse - o tornasse ad essere - unica fonte di ispirazione per l’intera nostra vita. I secoli e i millenni passano, le parole di Cristo rimangono in eterno e nel tempo mantengono la freschezza e la forza dirompente e propositiva di sempre. Esse riporteranno la vita religiosa alla sua intuizione iniziale e fondamentale di sequela Christi. L’inizio del terzo millennio sarà segnato da un’analoga volontà di sequela? Possederà il medesimo anelito della ricerca di Dio? Oppure il lavoro, l’organizzazione, le analisi, le preoccupazioni soffocheranno il seme della Parola? O porteranno verso altri cammini? O distoglieranno dall’Unico necessario? Se si tagliano le radici l’albero inaridisce e muore.

Nata dal Vangelo, la vita consacrata o è alimentata dal Vangelo o va inesorabilmente verso l’estinzione. L’imperativo per il terzo millennio è: torniamo ad essere uomini evangelici, cristiani, uomini di Dio. Ho detto “torniamo ad essere”. Ma forse non è il verbo adeguato. Dovrei dire: “protendiamoci verso”. Si tratta di tornare alle radici evangeliche, senza necessariamente ricalcare i moduli interpretativi trasmessici. La fedeltà non è ripetività o restaurazione. È fedeltà allo Spirito. Se lui l'ha suscitata, chi altri se non lui potrà vivificarla e spalancarle nuovi orizzonti? Più che i nostri progetti e i nostri sforzi occorrerà la piena disponibilità e docilità alla sua azione. Non è certo un invito alla passività e alla rassegnazione. È piuttosto la richiesta di una vigile attenzione alle indicazioni che lo Spirito dà oggi alla sua Chiesa.

martedì 30 gennaio 2024

Incontrare Gesù nella sua Terra

Perché la Terra Santa è da sempre oggetto di violenza? Da quando Abramo vi mise piede (ma certamente anche da prima) e dovette fronteggiare la coalizione di quattro re, è un continuo susseguirsi di invasioni e di guerre. E perché Dio, presente “in cielo e in terra e in ogni luogo”, come recitava l’antico catechismo, quando si è incarnato, ha scelto proprio quella terra con le sue città e villaggi: Betlemme, Nazareth, Cana, Cafarnao, il lago di Tiberiade e le sue colline; la Decapoli, la Samaria, i territori di Tiro e Sidone; Gerico, Gerusalemme... Nomi che abbiamo imparato a conoscere leggendo il Vangelo e che ci sono diventati cari anche senza averli visti. È la Terra Santa, “il quinto Evangelo”, come l’ha chiamata con espressione felice Ernest Renan.

Con l’ascensione al Cielo Gesù ha lasciato per sempre la sua terra. Non occorre più andare in quei luoghi per incontrarlo. Eppure egli vi ha impresso tracce indelebili, che invasioni, guerre e distruzioni non hanno potuto cancellare. Là ogni pietra, ogni colle, ogni orizzonte parla di lui. La Terra Santa continua a essere “sacramento” di Dio. Là, scriveva Pia Compagnoni, «si sente dappertutto la presenza di Gesù… Non è soltanto la presenza di un Dio dalla cui immensità ti senti abbracciato, nella cui immensità ti senti perduto; è Gesù-uomo, cioè il fratello, l’amico… La sua presenza ti stringe come in un abbraccio, ti penetra fin dal più intimo. Egli ti parla e tu lo ascolti…».

Anche Chiara Lubich si recò in Terra Santa, nel 1956, e subito ne pubblicò un resoconto. Ma il racconto di quel viaggio riaffiora più volte, con risonanze sempre nuove. Come questo, inedito, rivolto a un gruppo di giovani a Grottaferrata, il 17 settembre 1961.

Io ero stata in Terra Santa non per fare una visita nei luoghi sacri, perché se io fossi andata a fare una visita nei luoghi sacri non mi sarebbe successo quello che mi è successo, che è stata una grazia, anche lì, speciale. Io sono andata perché c'era padre Novo [Andrea Balbo] ammalato... e con don Foresi ci siamo messi d'accordo per andarlo a trovare, per un atto di carità. Siccome sono andata per amare un'anima - "a chi mi ama mi manifesterò" - Dio s'è manifestato attraverso la Terra Santa.

Mentre prima io avevo vissuto le parole di Dio, avevo conosciuto il Vangelo dal lato divino, non conoscevo Gesù come uomo. In Palestina ho avuto una conoscenza di Gesù come uomo perché dovendo mettere i piedi dove lui li aveva messi, per esempio nella “scaletta” del testamento di Gesù, nella strada che va da Gerusalemme verso Gerico dove Gesù ha narrato la parabola del buon samaritano, nel posto dove è stato flagellato, dove ha pianto guardando Gerusalemme..., sono stata talmente presa, impressionata fortissimamente, in modo divino, che mi è successo questo fatto: il divino quando ti prende mortifica tutto il resto, per cui ti dimentichi di tutto il resto, perché è troppo forte il lato divino, e io mi sono dimenticata di tutto, persino che esisteva il Movimento. Tanto che avrei desiderato che durasse sempre, perché quelle pietre che avevano visto…

A un dato momento, erano passati sette giorni e bisognava tornare a Roma, mi sono ricordata, ma come una cosa lontana, che esisteva il Movimento, ma neanche il Movimento, mi sono ricordata di Enzo [Fondi], non so perché, e dietro a Enzo mi sono ricordata di tutto il Movimento e che quindi dovevo tornare a Roma perché c'era il Movimento. Ero presa dalla conoscenza nuova di Gesù come uomo che passeggiava di qua e di là, che predicava, che parlava. Vedevo tutti quegli ovili, che probabilmente c'erano anche ai suoi tempi e che lui nominava: “Le pecorelle conoscono me io conosco loro...”. Naturalmente bisogna che sia Dio a manifestarci se no sono pietre, ma se Dio si manifesta... Certo per me è stata un'esperienza straordinaria.

Avrei voluto non vedere più niente perché, avendo visto i posti di Gesù, l'ho come visto passare di qua e di là, perciò non c'era più niente sulla terra per me di bello come là. A un dato momento mi viene in mente che a Roma c'era Gesù in persona, Corpo, Sangue, Anima e Divinità, anche se i miei occhi non lo vedevano, ma di più che con quelle pietre lì e allora mi sono risolta a tornare.

 

lunedì 29 gennaio 2024

Lo sguardo di Gesù

 

Le foto che ho pubblicato ieri su Alassio erano mie. Adesso me ne sono arrivate altre, così ha l’occasione per copiare altre due righe su quello che ho detto ieri riguardo allo sguardo, in particolare lo sguardo di Gesù. Ho accennato ad alcuni dei suoi sguardi.

«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea… Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello…» (Mc 1, 16-20). Il suo non è uno sguardo da turista o da curioso. È uno sguardo che penetra nel cuore, vi coglie il disegno di Dio e lo fa emergere, lo attualizza: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini…».

Quando a Cafarnao passò davanti al banco dell’esattore delle tasse «vide un pubblicano di nome Levi…» (Lc 5, 27). Il verbo greco indica un guardare con attenzione. Lo sguardo di Gesù non è mai superficiale. Vede in profondità nel cuore di Levi. Non si ferma all’esterno, alla sua attività peccaminosa – riscuote le tasse per conto dei romani. Non lo giudica dall’apparenza, ma scorge in lui la possibilità di una vita nuova. Lo chiama e lo fa nuovo.

Lo stesso quando passò da Gerico: «alzò lo sguardo» e vide Zaccheo (Lc 19, 5). Anche in questo caso va oltre l’apparenza, guarda “in alto” (alza lo sguardo, guarda in alto!), lo vede nel disegno di Dio. Ancora una volta il suo sguardo converte.

Andiamo ora a Gerusalemme. Gesù attraversò il cortile del sommo sacerdote e «fissò lo sguardo su Pietro» che l’aveva appena rinnegato tre volte (Lc 22, 61). Non è un rimprovero, non è una condanna. A differenza dell’incontro con Levi e Zaccheo questa volta Gesù non dice una parola, guarda soltanto. Ma quello sguardo guarisce Pietro. È uno sguardo amorevole, comprensivo, di misericordia. Pietro, vedendo su di sé quello sguardo, si ricordò della prima volta che Gesù lo aveva guardato sulla riva del lago, e pianse. Fu liberato da quello sguardo.

Cosa aveva di così speciale lo sguardo di Gesù da cambiare le persone? Il segreto ce lo dice il Vangelo di Marco, quando racconta l’incontro con un uomo ricco che gli chiede cosa fare per avere la vita eterna. Gesù «fissò lo sguardo su di lui e l’amò» (10, 20). Il suo è uno sguardo d’amore, attraverso lo sguardo passa tutto l’amore di Dio.

In quello sguardo prolungato e intenso – “fissatolo” – sentiamo tutta una premura e un’attenzione particolare, prolungata, personale. Attraverso quello sguardo passa tutto l’amore di un Dio. La scelta che egli ha fatto di me da tutta l’eternità, accade in un tempo e in uno spazio determinati, si storicizza qui e ora, e trova la sua attuazione in quell’incrociarsi del mio sguardo con quello di Gesù.

È lo sguardo di uno che mi conosce da sempre. Guardandomi mi “ri-conosce”! Sa già chi sono. Sa già il mio nome, prima ancora che io glielo dica. Da sempre mi ha portato in cuore. Ogni persona, uomo o donna, è chiamata a questo incontro con l’Amore: siamo fatti per amare, per incontrarci con la sorgente stessa dell’Amore. Siamo fatti per vivere in rapporto di comunione con lui. La realtà più bella e profonda della nostra umanità è la capacità di stare davanti a Dio a tu per tu: è nostro Padre e noi siamo figli e figlie suoi.

Perché ogni tanto non ci fermiamo a fare memoria di quando e di come Gesù è passato nella nostra vita? Abbiamo mai sentito il suo sguardo posarsi su di noi? Non è un evento che rimane fissato nel passato, è una realtà viva, dinamica. Gesù continua a chiamarci ogni giorno. Ci lasciamo guardare negli occhi? Ci lasciamo amare?

Soltanto allora impareremo a guardare con il suo stesso sguardo d’amore e sapremo rigenerare la vita attorno a noi.

domenica 28 gennaio 2024

Ad Alassio per uno sguardo puro

 

Alassio. Sono mai stato ad Alassio? Non ricordo. Ho chiesto al mio computer che ha una memoria migliore della mia e mi ha mostrato due righe che avevo scritto il 14 giugno 2011: «Se cerchi un ideale, eccolo, se vuoi amore, eccolo; se vuoi un modello, eccolo”. Sono le parole che Teresa Candamo Alvarez Calderón udì provenire da un grande Crocifisso, mentre entrava in una chiesa ad Alassio, all’inizio del 1900». Di questa peruviana venuta in viaggio in Europa e divenuta fondatrice non sapevo niente. Ne venni a conoscenza soltanto in quei giorni leggendo un esame scritto di uno dei miei tanti studenti….

Chissà qual era quella chiesa di Alassio. Oggi non ho avuto tempo di andare per chiese, però una passeggiatina presto presto me la sono concessa, quanto basta per indovinare che Alassio è proprio una bella cittadina, tranquilla, con un lungomare meraviglioso. “Città degli innamorati”. Chissà perché la chiamano così. Seduti sul lungo “muretto” che si snoda lungo la strada davanti al municipio, ricco di firme di cittadini e visitatori illustri, c’è anche una coppia di innamorati a ricordare che la vita è comunque bella. 


Sono arrivato tardi ieri sera, con un volo da Fiumicino e sono già di ritorno, dopo poche ore. La memoria – questa volta la mia memoria storica – mi ricorda che qui vicino, a Diano Marina, sorse la prima comunità degli Oblati in Italia nel lontano 1886.

Oggi per me Alassio sono stati i volti belli di tante famiglie. Ci siamo guardati negli occhi perché il mio tema era proprio lo sguardo. Naturalmente ho detto le solite cose.



Sembra un paradosso, ma per vedere le cose nella loro realtà più vera, occorre chiudere gli occhi. C’è in noi, nella nostra anima, un occhio interiore che si apre soltanto quando gli occhi del corpo si chiudono. È lo sguardo della mistica. “Mistica” è una parola che indica la realtà più vera, ma letteralmente significa chiudere: chiudere la bocca, chiudere gli occhi all’esteriorità, all’apparenza, a ciò che non è la realtà vera. “Entra nella tua camera e chiudi la porta”, dice Gesù (cf. Mt 6, 6). Entrando dentro me stesso, chiudendo la porta – la bocca, gli occhi – posso trovare in me la realtà del Cielo. È il passaggio dall’esteriorità all’interiorità, dalla terra al cielo. È entrare nel mondo della contemplazione, della preghiera.

È quello che faceva Gesù quando di notte si ritirava da solo a pregare. Cosa faceva? Entrava nella sua “camera”. Quando rientrava in sé stesso non entrava in una solitudine glaciale, tornava “a casa” e ritrovava il suo Cielo, nell’intimità con il Padre e lo Spirito, con gli angeli e i santi… Tutto il giorno era indaffarato in mezzo alla gente a parlare, a guarire, a combattere con quanti lo contraddicevano..., sempre con lo sguardo aperto, attento a tutti... La sera aveva bisogno di chiudere gli occhi e gli si accendeva lo sguardo vero, che gli faceva coglieva il disegno di Dio sulle folle e gli dava una forza nuova per andare verso di esse e guardarle con amore nuovo.



Così noi. Anche noi abbiamo bisogno di purificare il nostro sguardo, di ritrovare occhi nuovi, per acquistare lo sguardo vero sulle cose, per vederle come le vede Dio, lui che le ha plasmate.

Non rimaniamo ad occhi chiusi. Li chiudiamo perché il nostro sguardo non coglie la verità delle cose. È come certi turisti che vedo a Roma: vanno in giro facendo continuamente le foto, e non hanno tempo per guardare; pensano a fare le foto, ma non si fermano a guardare. Chiudiamo gli occhi per acquistare un occhio puro.

C’è ancora un ulteriore modo per vivere l’interiorità, la mistica. Possiamo farlo insieme. Quando ci troviamo tra di noi lasciamo che tutto il resto si eclissi e diamo spazio alla presenza di Dio tra di noi. Come è successo, ad esempio, ai due discepoli di Emmaus. Avevano uno sguardo molto negativo sulla situazione. La presenza di Gesù tra loro ha capovolto il modo di vedere le cose, ha dato loro uno sguardo nuovo, li ha riempiti di gioia e subito hanno comunicato a tutti quella nuova visione della realtà.

Gesù fra noi ci dona il suo sguardo, che infonde la sapienza, la capacità di lettura dei segni dei tempi, di cogliere i disegni di Dio, e apre le vie per la loro attuazione. Dopo che siamo stati insieme tra di noi – quando si instaurano rapporto autentici di amore scambievole – ci nasce una nuova gioia, uno sguardo positivo, il desiderio di ricominciare...



Ed eccomi già sul treno del ritorno mentre sul mare il sole tramonta a ricordarmi che anche oggi ho percorso una nuova tappa verso la meta. 

sabato 27 gennaio 2024

Senza preoccupazioni

 

“... io vorrei che foste senza preoccupazioni”. Ma che bravo questo san Paolo! Ci vuole proprio bene. Queste parole gli servono per iniziare a rispondere a una questione che gli avevano posto gli abitanti di Corinto riguardo al matrimonio. Lasciamo da parte la domanda e la risposta. Per oggi ci basta il pensiero di introduzione della seconda lettura di questa domenica: “... io vorrei che foste senza preoccupazioni”. 

E lui era senza preoccupazioni? Ne aveva fin sopra i capelli, e spesso nelle sue lettere ne parla diffusamente. Anche a noi non mancano i problemi, le difficoltà, le prove... mica viviamo sulla luna (forse ci sarebbero preoccupazioni anche se vivessimo sulla luna!).

Paolo lo sa, eppure ci vuole col cuore libero. Sì, presi da tante cose... ma col cuore libero, pieni di fiducia nel Padre del cielo. Leggerezza. Forse si era sentito con Pietro che nella sua prima lettera scriverà qualcosa di analogo: “Gettate nel Padre ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (5, 7).

Pieni di preoccupazioni perché la vita non è semplice e ci presenta sempre nuove sorprese. Eppure con tanta speranza, perché siamo in buone mani, c’è chi si prende cura di noi, non ci lascia mai soli, cammina accanto a noi e porta con noi ogni peso.

venerdì 26 gennaio 2024

Un ufficio a servizio del carisma

Il 4 settembre 2010 scrivevo sul blog: «Ho iniziato a prendere visione degli archivi della casa generalizia. Più di 200 anni di documenti che raccontano la storia degli Oblati. Carte e carte e carte e altro tipo di documentazione che nascondono una vita. Il mio nuovo “ufficio” è infatti quello di Direttore delle ricerche e degli studi oblati. Un'intera generazione di Oblati ha contribuito intensamente a creare un ricco patrimonio di conoscenze del nostro Fondatore e degli Oblati su temi legati alla vita della Congregazione, alla sua storia, al suo carisma e alla spiritualità, alla missione.

Nel prossimo futuro in gran parte dell'Europa e del Nord America ci saranno sempre meno persone che si dedicheranno a queste ricerche. Ci sarà bisogno di una nuova generazione di studiosi e di ricercatori, soprattutto in Asia, Africa e Sud America, per creare nuove e rinnovate espressioni della missione oblata in una Chiesa postconciliare, in dialogo con le nostre origini, il nostro carisma e il nostro Fondatore. Per questo la necessità di un servizio che coordini le diverse iniziative di studio e di ricerca già esistenti e promuova la collaborazione e l'interscambio nel mondo globalizzato degli Oblati. Ci sono poi tanti istituti secolari e religiosi, come pure tanti laici, che hanno le loro radici nel carisma oblato; anche quelli occorrerà coinvolgere in un progetto comune. Senza questo costante contatto con le fonti e senza una continua ricerca di come alimentarsene nel presente, si corre il rischio di perdere la propria identità e quindi l’incidenza carismatica nella vita della Chiesa».

Sono passati 14 anni da allora. Questa mattina, davanti al Consiglio generale, ho fatto il rapporto del mio lavoro e del mio ufficio. La rivista Oblatio è già al suo 36° numero, sono stati pubblicati 12 volumi di “Oblatio Studia”, un buon numero con gli scritti dei primi Oblati... E siamo solo agli inizi! Il carisma è vita, è missione, non è imprigionato dalle carte. Ma le carte aiutano a comprenderlo, a farlo amare, raccontano una storia. E dobbiamo continuare ad andare avanti. Giovanni Paolo II ci direbbe ancora una volta: «Non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro...». Vorrei che il mio ufficio contribuisse a tenere vita questa speranza.

mercoledì 24 gennaio 2024

La conversione di san Paolo... e speriamo degli Oblati

Nell’inno della lettera ai Romani, Paolo canta la sua profonda comprensione dell’amore di Dio, manifestato in Cristo Gesù: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno... Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?» (Rom 8, 28–39).

Niente può separarci dall’amore che Dio ha per noi perché tutto è amore, e niente può separarci dal nostro amore per Dio perché in tutto vediamo il suo amore e tutto diventa risposta d’amore.

Questo inno all’Amore di Dio è frutto della profonda e personale esperienza di Paolo. Nei lunghi anni di servizio a Cristo niente è riuscito a separarlo da Dio. In 2Cor 11, 23–27 racconta le molte tribolazioni alle quali è dovuto andare incontro. Come mai niente gli è stato di ostacolo, anzi gli è diventato strada di salvezza? Come mai in tutto ha scoperto l’amore di Dio? Perché tutto concorra al bene occorre amare Dio, infatti “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, per coloro cioè che hanno fatto l’esperienza di Dio. E Paolo è proprio uno di quelli che hanno fatto l’esperienza di Dio, che “amano Dio”. Tutto gli è stato manifestazione d’amore perché amava.

L’amore di Dio si è manifestato a Paolo in Cristo Gesù un giorno, sulla via di Damasco: «E io gli dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti» (At 26, 15). È Dio Amore che si rivela nel Figlio: «...colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio» (Gal 1,15–16). Davanti a chi lo contesta, può rivendicare di averlo visto: «Non sono forse un Apostolo? Non ho veduto Gesù, il Signore nostro?» (1Cor 9, 1).

Cosa avvenne in quell’incontro di Damasco? Mentre Paolo perdeva la vista, scrive San Massimo di Torino, «acquistava occhi nuovi per fissare meglio Cristo». Appena fissato Cristo, questi diventa il suo Signore e la gloria di Paolo, d’ora in poi, sarà solo quella di essere “servo del nostro Signore Gesù Cristo”. Tutto il resto perde valore: Lui è la Vita. Il resto diventa opaco, si eclissa lentamente all’orizzonte, appare periferico davanti alla centralità di Cristo: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7–11).

Davanti alla conoscenza di Cristo, tutto è diventato un non senso: la sapienza di questo mondo, la vita passata con tutta la ricchezza e la gloria della legge e della veneranda tradizione. Davanti a sé ha solo Cristo e Cristo Crocifisso: «Non conosco che Cristo e Cristo Crocifisso» (1Cor 2, 2).

È la conoscenza biblica, cioè quel profondo rapporto di comunione che gli fa dire: «per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21), che gli fa concepire la vita come un con–vivere, con–morire, con–risuscitare, con–sedere nei cieli in Cristo. È quell’assimilazione profonda a Cristo che gli permette di ripetere più volte: «siate miei imitatori» (1Cor 11, 1).

Paolo diventa così il “cantore di Cristo”: «Il glorioso Paolo apostolo – come scrive Santa Teresa d’Avila – non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù, perché l’aveva ben fisso nel cuore».

Conosciuto Cristo ha ormai una sola brama, quella che anche gli altri possano conoscere e sperimentare l’amore di Cristo. Questo il fine del proprio apostolato, questo l’oggetto della sua preghiera: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 14–19).

Il 25 gennaio 1816, giorno che ricordava la conversione di Paolo, nacque la prima comunità degli Oblati, nella volontà di continuare l’esperienza di conversione e di annuncio dell’Apostolo.

martedì 23 gennaio 2024

Molto più d'una famiglia naturale

«L’aereo è molto instabile per i vuoti d’aria. Nella notte una grandiosa luna illumina il deserto rugato di dune sterminate: pallida diffusa luce che ammanta l’anima ricordando Maria: sono le prime ore del primo di maggio». Inizia così, col volo Roma-Dakar-Rio de Janeiro, un lungo reportage apparso in “Città Nuova” sul viaggio in Brasile, a firma di Paola Romana, pseudonimo di Chiara Lubich, che in quegli anni è invitata a rimanere nell’ombra. Già dalle prime righe si intuisce il tono dell’articolo: descrittivo di un mondo nuovo visitato per la prima volta e attento alle risonanze interiori da esso suscitate. È il 1961.

«Rio è sterminata; già dall’aereo sembrava senza confine. I fiumi la frastagliano in penisolette e isole verdeggianti...». Poi Recife: «un magnifico mare... villette di fine gusto sparse qua e là... mocambos, abitazioni primordiali, impasto di fango e canne... coqueiros, splendide palme altissime, una vegetazione equatoriale che ricorda il paradiso terrestre. Acqua e sole. Acqua e sole a tutte le ore». Dalla natura alle persone: «forte il salto fra i benestanti e i nullatenenti... Ma la grazia di Dio e la chiamata del Signore sembrano non accorgersi affatto delle distanze messe dagli uomini, ed accomunano tutti in un solo anelito: quello di diffondere il regno di Dio...». È per queste persone che Chiara Lubich è venuta in Brasile: «Abbiamo conosciuto decine di queste creature ricche e povere un tempo, ora stracariche tutte, ma del Signore». È ammirata dai missionari che si dedicano anima e corpo a questo mondo meraviglioso. Come loro anche lei rimane incantata da questa terra che «ha un fascino irresistibile». A Pernambuco, nel Nord Est, «il fiume Capibaribe... sembra accendersi di fiamma quando il gran disco rosso, calando, tutto arrossisce».

È tempo di ripartire. Come lasciare persone con le quali è nato ormai un rapporto profondo e sincero, soprattutto i membri del Movimento dei Focolari, i “popi”, come li chiama familiarmente col suo dialetto trentino, i bambini del Vangelo? A loro da Rio de Janeiro scrive una breve lettera. La legge e la consegna alle due amiche, Lia Brunet e Lilù Macdowel, che l’hanno accompagnata all’aeroporto e che si commuovono. «Anche a me succede così, dice loro Chiara. Si vede che cè Gesù in mezzo... Quando [a Recife] ho salutato tutti i popi e ero nellaereo, quasi non trattenevo le lacrime... Siamo legati più che una famiglia umana... Il nostro è un Ideale umano/divino...»

Rio [de Janeiro], ore 5 ¾  [8 maggio 1961]

Carissimi popi,
sono qui all’aeroporto con Lia e Lilù in attesa della partenza.
Non posso lasciare questa terra, che per la prima volta ho conosciuto, senza andarvi un saluto.

Quando l’aereo s'alzava a Recife guardando dall’alto quelle palme e quell’ambiente, dove voi restavate per Gesù, sono stata presa da un nodo alla gola che m'è durato lungo il viaggio e mi ha fatto capire quanto Gesù ci abbia unito in Lui come e molto più d'una famiglia naturale. E mi sono ricordata del pianto delle sorelline di Santa Chiara quando lei era partita per il Cielo… a conferma d'uno sterminato amore che le legava a lei perché con lei avevano amato il Signore.

Che grande cosa l’Ideale; che cosa mai ha fatto Gesù per noi! [...]
Sono certa che voi sentirete quanto vi siamo vicini!

Ora popi, avanti!
Il mondo è di chi lo ama e meglio sa dargliene la prova.
Amate tutti, non giudicate mai. Porgete la destra a chi vi percuote la sinistra e penserà Lui, che ci unisce da un continente all’altro, a radunare carboni ardenti sui nemici ed a farli crollare di fronte all’Opera di Dio.
E state tutti felici ché ve lo meritate.
E poi se Gesù è fra voi lo Sposo è con voi.
Vi lascio nel Cuore Immacolato di Maria unitissima a tutti.

È il mio articolo di gennaio apparso su Città Nuova, dove da un po' di tempo mi è stato chiesto di pubblicare ogni mese un testo inedito di Chiara Lubich.

 

lunedì 22 gennaio 2024

Tre Oblati martiri nel Congo

La notte del 22 gennaio 1964, i padri Pierre Laebens, Gérard Defever e Nicolas Hardy venivano massacrati dai ribelli in Congo. Tutti e tre provenivano dal Belgio.

Il 29 gennaio così il provinciale si rivolse ai genitori: «Consolatevi, pensando a vostro figlio, messaggero dell’amore di Dio, inviato come Gesù per dire agli uomini che si amassero l’un l’altro, pensate che ha compiuto il suo glorioso dovere nel dare la vita per salvare quella di migliaia di fratelli, e non c’è amore più grande o bel gesto sulla terra. Vi consoli la certezza che vostro figlio, martire per amore di Dio e dei “piccoli di Dio” è ora il primo intercessore davanti al trono di Dio. [...]

L’avete seguito da lontano, sostenendolo a ogni passo del suo cammino missionario. E lo vedete: è andato con tutta l’anima, non per profitto; come ben sapete, la missione non è questione di soldi, di un bel posto al sole o di una temporale ambizione personale; è qualcosa di più semplice e bello: la missione è rinuncia personale: vai a dire a quella gente ciò che c’è di meglio nell’uomo, e di cui ha bisogno più che del pane: il dono totale di sé, soprattutto l’amore totale per l’umanità più sfortunata.

Siate orgogliosi del vostro figlio e fratello, come siamo tutti noi Oblati e ne è orgoglioso il Vescovo. Siamo inoltre orgogliosi di voi, fieri nel vedere nei genitori dei nostri Oblati tanto coraggio, tanta fede e tanta generosità spirituale».

domenica 21 gennaio 2024

Le Brigate Rosse e i Missionari

 

Metà agosto 1984. Conobbi Padre Fabio, responsabile dello Scolasticato, e Padre Tonino con Padre Fausto che erano rientrati da alcuni ritiri. Padre Fabio mi accolse con il suo sorriso, che mi mise subito a mio agio.

- Benvenuto nella nostra comunità - mi disse subito.

- Grazie, Padre Fabio. Tengo a dirti che io non voglio creare problemi alla vita della Comunità. Ho una situazione che conosci bene e sono ricercato dai terroristi che vorrebbero volentieri eliminarmi. Per questo motivo non voglio pesare sulla vostra serenità e rispetterò in pieno le regole dello scolasticato, in tutto e per tutto. Dovrei stare da voi solo poche settimane. Il tempo di trovare un alloggio sicuro dove trascorrere gli arresti domiciliari. Ma se sorgessero problemi di qualsiasi natura, vi prego di dirmelo perché mi rendo conto che la mia è una presenza pericolosa per tutti voi.

- Noi ti accogliamo nella nostra Comunità consapevoli dei rischi che tutti corriamo. Ci affidiamo all’amore di Dio e vivremo tutti insieme la tua condizione, che sarà la nostra condizione, ci facciamo un tutto in Unità e vedrai che il Signore ci proteggerà con il Suo Amore. Starà a noi tutti mettere insieme la Sua parola e viverla nei fatti. Sono i fatti che vanno messi in comune. Vedrai che risolveremo insieme tante cose.

Rimasi catturato dalla statura e dalle risposte di Padre Fabio, profonde, sincere, che mi fecero immediatamente percepire la pre­senza di Gesù in quella straordinaria Famiglia.

Poche righe del capitolo 11 del libro di Valter Di Cera, appena pubblicato: L’infiltrato di Dio. Dalle Brigate Rosse alla conversione. La storia di uno straordinario viaggio di fede. Restò a Vermicino per un paio di anni e non era solo. Un piccolo episodio nella grande tragica storia delle Brigate Rosse che non abbiamo mai raccontato. Ormai è a tutti nota, anche dopo due puntate televisive su TV 2000 e su Rai 1.

Venerdì scorso al Focolare Point di Roma una straordinaria testimonianza di Walter, suor Tiziana e p. Tonino...



sabato 20 gennaio 2024

Guarda avanti

 

“Il tempo si è fatto breve... passa infatti la figura di questo mondo!”.

L’anno liturgico è appena iniziato e già la seconda lettura di questa III domenica ci protende verso la sua fine. Relativizza tutto. Non dice che non è importante e bello sposarsi, ma passa... Non dice che non ci sarà da soffrire, che dobbiamo dare sfogo alle lacrime, ma passa... Non dice di non comprare, ma passa... Non dice di non usare dei beni del mondo, ma passa... Tutto passa. Allora c’è da intristirsi, da diventare pessimisti. Tutto il contrario. 

È come se camminando a testa bassa, guardassimo per terra, ai piedi che camminano, ed improvvisamente qualcuno ci chiama. Subito si alza il capo e si guarda in avanti. Non è che la terra sparisca da sotto i piedi, non è che viene meno il marito o la moglie, le lacrime, i beni... ma lo sguardo è rivolto in avanti, verso chi mi chiama. E se chi mi chiama è un amico, sono contento di vederlo e corro verso di lui.

Gesù ci chiama, ci invita a guardare in avanti, a guardare a lui... che subito ci apre la porta del cielo. Tutto il resto - e moglie e marito, e lacrime e beni - entra in cielo con me.

venerdì 19 gennaio 2024

Dialogare come le pietre di Gerusalemme

 

Verso la fine del suo viaggio a Gerusalemme Eric-Emmanuel Schmitt sale da solo sul monte degli ulivi, perché vuole guardare con calma la città. Così la descrive ne suo libro La sfida di Gerusalemme:

«Contemplo questa città arrogante, dura, dai contorni spigo­losi. Al disopra del fiume Cedron che incide i rilievi si profi­lano bastioni merlati su un muraglione di roccia naturale. I tetti che oltrepassano la cinta sono ricoperti di tegole, d’oro, di nichel, qui a punta, là arrotondati, ancora più in là piatti, riva­leggiando negli aspetti più vari, campanili, torri, torrioni, minareti, belvedere, terrazze, cupole e globi in cui si mischiano gli stili dei crociati, dei saraceni, dei bizantini, dei templari, degli ottomani, dei francescani, degli ortodossi greci o russi, a destra un po’ d’arabo, a sinistra un po’ di turco, al centro stile coloniale. L’architettura mette insieme monumenti ebraici, cri­stiani e musulmani, eppure, paradossalmente, da quella profu­sione trapela un’armonia. Il diverso si cancella, come se, staccandosi dalla terra, gli edifici che svettano verso il cielo riu­scissero a trovare uno spazio di concordia. Le pietre riescono in qualcosa che gli uomini sono incapaci di realizzare: la coesi­stenza».

Perché, si domanda, non abbiamo anche noi la saggezza delle pietre? Cos’hanno imparato loro che a noi sfugge? E tenta una risposta:

«Le pietre sanno di essere pietre, fatte di una materia comune, e di avere forme soltanto per acquisizione. L’umanità, per quanto riguarda se stessa, si ostina invece a dimenticarlo. Tanto per cominciare ci riteniamo assolutamente diversi gli uni dagli altri, mentre siamo tutti modellati nella stessa pasta umana. Quanto alle forme rivestite dal nostro essere - la lingua, la spiritualità, la cultura - invece di riconoscerle come acquisite, contingenti, storiche, dovute al caso della nascita e alle circo­stanze, ci convinciamo che siano fatte di un cemento le cui colate hanno irrimediabilmente forgiato la nostra identità».

Dialogare come le pietre di Gerusalemme... potrebbe essere un’idea...

giovedì 18 gennaio 2024

Ricordando Jonathan Cotton

Tra le mie tonnellate di foto ce n’è una carissima (naturalmente non la ritrovo) che mi ritrae sulla passeggiata che costeggia il lago Leman a Vevay, in Svizzera, assieme ai due inglese più simpatici del mondo: Charley Chaplin e Jonathan Cotton. Charley Chaplin se ne sta lì a passeggio da qualche anno, bronzo a grandezza naturale con bombetta e bastone. Jonathan Cotton... sarà forse meno famoso, ma in compenso è un vecchio amico. Monaco benedettino, dal suo priorato a Leyland mi ha introdotto nel complesso mondo inglese, dalla Cave dei Beatles a Liverpool, a Stratford, il paese di Shakespeare.

Da lì un giorno siamo passati in Irlanda per un convegno. Al termine decide di farmi visitare il luogo più fascinoso dell’isola, il Ring of Kerry. Approdiamo nella città di Killarney senza la minima idea di dove andare ad alloggiare, ma appena arrivati un caso fortuito (è il modo laico per indicare la Provvidenza) ci offre una sistemazione ottimale. Per un paio di giorni passeggiamo nei dintorni sotto una pioggia torrenziale (che è il modo migliore per contemplare i verdi paesaggio irlandesi). Ma Jonathan, conoscendo il mio amore per il monachesimo antico, indovina il segreto desiderio di visitare le isole Skelligs.

I monaci irlandesi non avevano a portata di mano il deserto dove ritirarsi in solitudine con Dio. Allora o si facevano pellegrini (e hanno invaso l’intera Europa), oppure se ne andavano su isolette sperdute dell’oceano, deserto fatto d’acqua invece che di sabbia.

Telefoniamo a un vecchio lupo di mare: “Domani potremo metterci in mare?”. Dall’altro capo del telefono risposta immediata: “Domandatelo a Quello di lassù!”. Con Quello di lassù Jonathan e io non abbiamo il filo diretto. D’altra parte, visto che in Irlanda il tempo è sempre un rebus, non possiamo aspettarci altra risposta. Così la mattina seguente, di buon’ora, ci mettiamo in viaggio verso Portmagee, poche case dai colori vivaci allineate sul bordo del mare.

Nonostante il mare grosso, eccoci su una piccola imbarcazione dal motore potente diretti verso un famoso monastero costruito nel VI secolo su una delle isole Skelligs, due ammassi rocciosi privi di vegetazione e di acqua.

Le onde sono alte. Quando scendiamo nell’avvallamento fra un’onda e l’altra l’orizzonte sparisce, quando saliamo sulla cresta si vede la vastità del mare minaccioso. Come facevano una volta i monaci con le loro barchette? (In effetti le cronache parlano di molti morti, ché attraversare il mare era più rischioso che attraversare il deserto).

Raggiunta l’isola, un sentiero di gradoni di pietra ci conduce in cima all’erta montagna. Davanti a noi lo spettacolo di un monastero costruito interamente in pietra, a secco. Le celle, la sala comune, la chiesa: originali edifici a cupola che ad un Oblato come me ricordano immediatamente la forma degli igloo eschimesi. Con l’aiuto di una guida ricostruiamo i siti e la vita degli antichi monaci, spariti dal tempo delle incursioni dei Vichinghi. Di loro rimangono soltanto questi reperti, meta di un turismo esigente e colto. Alcuni tedeschi sono con noi ad ammirare le antichità.

Perché tanti luoghi di preghiera, qui come altrove, sono ridotti a musei? Ho un moto di ribellione. Spingo Jonathan nella chiesetta e in barba ai tedeschi gli grido: “Tutto questo è tuo. Sei un monaco, sei un Benedettino, sei l’erede di questa vita. Riappropriati del monastero, fallo rivivere!”. E tra quei sassi antichi, almeno per una volta, sale di nuovo al Cielo il canto del Padre nostro.

È una pagina del mio diario, datata: Killarney, 5 settembre 1998

Ieri, 17 gennaio 2024, Jonathan è salito al cielo, assieme al canto del Padre nostro.

PS: Ho ritrovato la foto!



mercoledì 17 gennaio 2024

Una luce per uno sguardo profondo

Torniamo a preparare la mia conversazione che dovrò tenere ad Alassio sullo sguardo.

Mi viene in aiuto nientemeno che Platone con il suo Dialogo sulla Repubblica, dove mostra un elemento essenziale per “vedere”:

- Qual è in noi la facoltà che ci fa vedere i colori, le cose visibili?

- La vista! Risposi
- Ma ti rendi conto che la vista nulla vedrà e i colori resteranno invisibili se non è presente un terzo elemento, che la natura riserva proprio a questo compito?
- Qual è questo terzo elemento di cui parli?
- Quello che tu chiami Luce! Dunque il senso della vista e la facoltà di essere veduto sono congiunti da un legame terzo, la “luce” (Repubblica, 507 c-d-e).

Quale sarà questo terzo elemento che ci permette di vedere le cose non nella superficialità, ma nella loro dimensione più vera?

martedì 16 gennaio 2024

Lo sguardo di Guila

 

In questi giorni ho letto l’ultimo libro di Eric-Emmanuel Schmitt, l’autore, tanto per intenderci, di Oscar e la dama rosa. Il libro appena letto è La sfida di Gerusalemme. Domani sul blog trascriverò un suo sguardo sulla città santa. Oggi invece il suo sguardo su Guila (non Giulia), la guida israeliana che porta in giro il gruppo dei pellegrini:

«Da un paio di giorni sono attratto da Guila, la nostra guida israeliana, una donna che emana luce, con due occhi grigio-azzurri che scatenerebbero le brame di un mercante di gioielli, due occhi che alla miscela di diamanti e turchesi incastonati nel platino aggiungono la luce continua di un’anima generosa, benevola e dolce».

La descrizione della donna continua con i capelli, l'accento della sua voce... Ma andiamo avanti nella lettura, alcune pagine dopo:

«Rileggendo gli appunti di stamattina noto un errore strano. Nel ritratto che faccio di Guila le attribuisco occhi chiari composti da grigio, argento e azzurro. Eppure, ora che sta sul sedile accanto a me, vedo che ha gli occhi castani. Come ho potuto sbagliarmi così?».

Ed ecco, nella spiegazione dell’errore, il passaggio che più mi ha interessato:

«Ho descritto l’effetto che emanava. Non bisogna confondere gli occhi con lo sguardo. I primi sono materia, il secondo è luce. Gli uni fanno parte del corpo, l’altro viene dall’anima. Guila ha gli occhi marroni e lo sguardo azzurro».

Fra pochi giorni, ad Alassio, dovrò parlare dello sguardo. Mi sembra, questo scritto di Schmitt, un buon punto di partenza.