giovedì 28 febbraio 2019

La Colonia di Porta Furba, una pagina di storia oblata


  
Porta Furba agli inizi del 1900
Padre Ferri a Roma agli inizi del 1900 
Il viceparroco di S. Maria del Buon Consiglio (Roma - Via Tuscolana 613) in occasione del 100° anniversario della parrocchia sta curando una pubblicazione e chiede informazioni sulla presenza degli Oblati di Maria Immacolata in quella zona, il Quadraro (oggi una delle stazioni della Metro A), ai primi del 1900.
Dove adesso sorge uno dei quartieri più popolati di Roma, con un palazzone accanto all’altro, all’inizio del secolo scorso si stendeva la campagna romana con tanti contadini: era la Colonia di Porta Furba.
Vi erano un’ottantina di famiglie, circa 500 abitanti, che vivevano in povere capanne, privi di ogni assistenza religiosa. Per l’interessamento del Santo Padre, le Suore Orsoline avevano istituito, nella loro modesta casa e nella piccola Cappella della Madonna del Buon Consiglio, un’opera per aiutare la colonia agricola.
Nel 1909 venne offerto agli Oblati, che abitavano in Via Cairoli, nella parrocchia di Santa Sabina, il servizio religioso.

Gli Oblati portarono avanti il lavoro pastorale per 4 anni: ogni mattina uno di loro si recava a Porta Furba per la Messa e ogni 15 giorni confessava e faceva il catechismo ai bambini della colonia che affluivano numerosi. Nella sua Storia della Provincia italiana p. Cosentino scrive che «al precetto pasquale ci fu concorso edificante di uomini e di donne e si videro accostarsi alla santa Comunione delle persone che da parecchie dozzine d’anni se ne tenevano lontani ed altri che già avanzati in età non si erano mai accostati ai Sacramenti; si ebbe insomma una rifioritura di vita cristiana, che trasformò e rese meno dura la vita di quei poveri abitanti della campagna romana».
La cappella delle suore divenne insufficiente per i fedeli sempre più numerosi, e si dovette costruire, grazie all’aiuto del Santo Padre, una chiesetta adatta ai bisogni della colonia. Sembra che il superiore generale degli Oblati, p. Augustin Dontenwille, abbia benedetto le campane di quella cappellina, a quel tempo in via dei Lentuli.
Il 21 aprile 1912 una rappresentanza della Colonia, composta di 160 persone, tra cui 40 bambine della prima comunione, fu presentata al Papa dalle Suore e dagli Oblati in un’udienza commovente, come testimonia un bell’articolo pubblicato sull’Osservatore Romano.


P. Ferri, il primo Oblato a sinistra
con gli "apostolini" di Roma all'inizio del 1900
La lettera del Vicario di Roma
Il primo ad occuparsi della Colonia di Porta Furba fu p. Aristide Ferri, direttore della casa di Via Cairoli, coadiuvato dal P. Anselmo Trèves. Quando nel 1911 si chiuse la casa di Via Cairoli, p. Aristide passò allo Scolasticato Romano per poter continuare da lì il servizio di Porta Furba. Nel dicembre 1912 fu nominato superiore della Scuola Apostolica di S. Maria e gli succedette p. Guglielmo Di Giovine, fino a quando, verso la metà del 1913, la cura pastorale fu affidata ad altri sacerdoti.
Ho trovato in Archivio una lettera scritta il 16 dicembre 1910 dal Vicario di Roma, il cardinale Pietro Respighi, al Superiore generale negli Oblati nella quale tra l’altro si legge:
«(…) Il Santo Padre considerando la grande necessità nella quale questo Vicariato di Roma si trova di persone capaci e zelanti per le molte opere di apostolato che ogni giorno, grazie al Signore, si moltiplicano nella nostra città, e ricordando d’altra parte le non comuni qualità del P. Ferri e quindi la difficoltà grande che vi sarebbe nel sostituirlo (…) mi ha incaricato di significare che Egli giudica per ora necessaria la permanenza a Roma del P. Ferri.
Io non dubito che V.E. vorrà aderire al desiderio del Santo Padre che torna di tanto onore al P. Ferri e a tutto l’Istituto (…)».


mercoledì 27 febbraio 2019

Margherite e stelle




La primavera è nell'aria.
Lo annunciano le margherite rivolte unanimi verso il sole, avide di luce e di calore.
A sera racchiudono i petali a corolla per custodire la luce del sole e il suo calore.
Così semplici e modeste e belle,
splendenti distese sui prati.
Mi sembrano le stelle scese in terra,
un cielo rovesciato.
Le guardano e mi fanno voltare in alto.


martedì 26 febbraio 2019

Chi è Maria per papa Francesco


 Al Marianum di Roma oggi pomeriggio si è tenuta la presentazione del libro di Papa Francesco, E' mia Madre.
Ecco gli appunti di quanto ho detto:

Papa Francesco, in queste pagine, parla di Maria in maniera estremamente concreta: luoghi, icone, oggetti, preghiere, episodi, persone… Quando racconta traspare la gioia nel rivivere le esperienze e nel condividerle. La sua lode a Maria avviene anche attraverso il racconto dei fatti che la riguardano. La Vergine appare come una presenza familiare, quotidiana, nella sua vita. Ne parla come di una persona di casa, molto vicina, che ha imparato a conoscere grazie alla famosa nonna Rosa, così come alla suora del catechismo, Maria Loreto, e al salesiano Enrique Pozzoli. Sono soltanto i primi incontri cui ne seguiranno tanti altri che allargano gradatamente i suoi orizzonti mariani. Maria entra nella sua vita in maniera naturale, per osmosi a contatto di persone innamorate dalla Vergine.

La conoscenza e il rapporto con Maria passa poi attraverso la scoperta delle varie “Marie” (p. Mello si affretta subito a dire che si tratta sempre della stessa Maria: “Tanti appellativi, una sola madre”!) che il giovane Bergoglio, poi gesuita, poi vescovo, poi papa, incontra lungo i suoi itinerari: la salesiana Maria Ausiliatrice, con il suo camerín nel quartiere di Almagro a Buenos Aires, quella di Lukán, di Guadalupe, la Madonna che scioglie i nodi, quella della Tenerezza, la Salus populi romani … Ognuna rivela un aspetto del grande mistero di Maria, ognuna ha un suo messaggio, un suo modo per insegnare come andare a Gesù, come farsi amare.
Durante l’intervista il Papa mostra le icone appese alle pareti del suo appartamento a santa Maria: due della Madonna della Tenerezza, quella di Luján, quella di Schoenstatt, quella di Santa Fe. Si è portato con sé alcune di quelle che ha incontrato lungo la sua vita. Per non parlare del grande quadro della Madonna dei noti che ha fatto appendere nella sala delle udienze negli appartamenti Vaticani. Una devozione tangibile, quella del Papa, che vuole, vedere e toccare, proprio come ama fare la sua gente.
Vi sono poi, nel racconto di Francesco, esperienze concrete vissute nei diversi santuari, da quello di Pompei a Buenos Aires, a quello di Luján, ad Aparecida, nei quali egli si fermava giorni interi e per ore e ore confessava, dialogava con le persone, operava conversioni (naturalmente tutte rigorosamente attribuite alla Madonna). Bergoglio ha scoperto i santuari come autentiche “case di Maria”, sempre aperte a tutti, luoghi fondamentali per la nuova evangelizzazione, per la sacramentalizzazione, per guardare e lasciarsi guardare dalla Madre. Nella sua diocesi si era prefisso di “santuarizzare” le parrocchie, anzi la città stessa.
Ogni volta che nell’intervista il Papa nomina per la prima volta una “madonna” o un santuario, Padre Alexandre Awi Mello non si lascia sfuggire l’occasione per raccontare, in maniera documentata e insieme con stile leggero, l’origine e la storia di quella icona o di quel luogo, aprendo un racconto nel racconto. Su alcuni quadri, come quello della Madonna dei nodi, si ferma per pagine e pagine. Il libro-intervista si trasforma in una piccola enciclopedia mariana di facile e piacevole lettura.

La “mariologia” del Papa, oltre che di immagini e santuari, è fatta di preghiere: le tre Ave Maria, il rosario recitato ogni giorno per intero con le quindici decine, l’Alma Redemtoris Mater, il Sub tuum praesidium, il Cum prole pia… Anche qui p. Mello coglie l’occasione per spiegare dove, quando, perché è nata quella preghiera, i suoi significati più reconditi… È proprio vero, “lex orandi, lex credendi”: si crede ciò che si prega e come si prega.
Il libro fa poi passare davanti un’autentica collezione di oggetti: a cominciare dalla medaglia della Madonna della Mercede, regalo della catechista, fino al “purificatoio” delle Vergine di Guadalupe che il vescovo Bergoglio portava nella tasca della camicia del clergyman e che ora, da papa, porta in un sacchettino appeso al collo, nascosto sotto la talare. Ogni particolare fa conoscere meglio, anche con tratti inediti, la persona di Papa Francesco.

In filigrana a tutto il libro soggiace la valorizzazione della spiritualità popolare e della teologia del popolo, il rispetto e l’apprezzamento per i poveri ricchi di fede, quel “sensus felium” che non sbaglia nel credere. Il Papa si fa paladino di quella pietà popolare che anche Benedetto XVI riconosceva come “tesoro prezioso della Chiesa Cattolica in America Latina”. Un intero capitolo del libro, “Incontro con il popolo”, è dedicato a “questo linguaggio del pathos (sentimento) più che a quello del logos (ragione)”, fino ad affermare che “l’incubatrice della mariologia è il cuore e non il cervello. È questo il cammino nella storia della Chiesa e questo è il percorso della devozione mariana, il sentiero transitato dai poveri dal cuore semplice. La strada percorsa dal popolo, in cui l’esperienza precede il discorso”.
Questo non impedisce, nell’ultimo capito del libro, dopo aver raccolto i dati della pietà popolare, di offrire piste per una teologica riflessa e quasi sistematica, avvalorando soprattutto il titolo di Madre. In questa parte mi pare sia racchiusa davvero la ricca teologia mariana del Papa.
Alcuni temi sono meno presenti. Il termine “affidamento” a Maria, così caro a Giovanni Paolo II, è assente. Quello di “consacrazione” appare soltanto tre volte e in maniera abbastanza marginale, comunque non tematizzata. Assente il tema e la stessa parola “rivivere” Maria o “essere un’altra Maria”, carichi di significato per il sentire “popolare” contemporaneo. In maniera significativa la parola “devozione” ha invece una alta ricorrenza, quasi 70 volte. Se Ireneo di Lione e Isacco della Stella nella riflessione del Papa hanno un posto centrale, non appaiono altri grande punti di riferimento della mariologia moderna, come san Luigi Grignon de Montfort o san Massimiliano Kolbe. Se l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI è citata come una delle maggiori fonti di ispirazione del magistero di Bergoglio, la sua grande esortazione apostolica Marialis cultus è ignorata, privando il discorso di alcuni grandi aspetti in essa esposti da Paolo VI, quali Maria come “discepola” e la sua crescita nella fede. In compenso il riferimento a padre Kentenich e al suo movimento di Schoenstatt, del quale fa parte l’autore del libro, appare una quarantina di volte.

Chi è, in definiva Maria per papa Francesco? È l’ultima domanda che p. Mello gli rivolge. «Il papa respira profondamente, pensa un po’ e non dubita nel dire, con una voce piena di tenerezza e di affetto: “Lei è mia madre”. Fa una pausa e continua: “Forse è l’unica persona con cui ho il coraggio di piangere”».


lunedì 25 febbraio 2019

Prima i martiri...


Sto per terminare le lezioni sulla storia della vita consacrata, un corso con ben 103 novizie e novizi appartenenti a 16 istituti religiosi. Con i tempi che corrono sono proprio un bel gruppo: giovani simpatici, motivati, attentissimi... È per me una gioia e un divertimento stare con loro.
Racconto le solite bellissime storie, perché il Vangelo è una fonte inesauribile di ispirazione per la vita della Chiesa.
La Chiesa non solo custodisce fedelmente la parola di Dio, ma, per la fecondità stessa della Parola e per la costante guida dello Spirito, la fa fruttificare in una meravigliosa novità di espressioni. Dall’unico seme del Vangelo germogliano nel suo seno i frutti più diversi.
Fin dagli inizi poi si stagliano alcune figure di cristiani che attualizzano la vita evangelica in un modo del tutto particolare. Sono i martiri, le vergini, gli asceti e poi, a partire dalla seconda metà del III secolo, i monaci. A loro sono concessi doni particolari - carismi - per sottolineare con una nuova radicalità alcuni aspetti della comune vita cristiana.

Comincio sempre con la spiritualità del martirio 
Se la vita cristiana consiste nel farsi discepoli di Cristo fino a riviverne il mistero e diventare un altro Cristo, nessuno l’ha vissuta meglio del martire che ha seguito Cristo fino a morire con lui. A cominciare da Stefano i martiri diventano l’esempio di come si vive da autentici cristiani. Essi sono «discepoli e imitatori del Signore, per l’attaccamento insuperabile che essi ebbero verso il loro re e maestro» (Martirio di Policarpo, 17,3). Ignazio di Antiochia, martire del II secolo, scriveva che solo quando sarà ucciso per Cristo potrà dirsi veramente cristiano.
Non tutti potevano diventare martiri, ma il martirio costituiva un modello costante di ciò che significa essere cristiani. Il cammino spirituale era animata dal loro esempio ed era comune considerare la vita come una preparazione costante all’eventuale martirio. I Padri esortavano al martirio e ne tenevano acceso il desiderio. La lettura degli Atti dei martiri nelle assemblee liturgiche approfondiva le motivazioni che avevano ispirato i “testimoni” nel loro sacrificio. La loro imitazione di Cristo, che in essi aveva vinto l’Avversario, la prova di amore perfetto da loro dimostrata, la loro azione di grazie per essere uniti alla morte redentrice di Cristo, hanno mantenuto vivo nelle comunità il fervore e il desiderio di donare la propria vita, così come hanno insegnato a ricorrere ad essi come intercessori che vivono con Cristo.
Ci si domandava, anche durante il tempo delle persecuzioni, se non ci fosse stato un modo di vivere il martirio pur senza essere uccisi per il nome di Cristo. C’è una sostituzione possibile al martirio? La vita quotidiana, con le sue esigenze evangeliche, se vissuta con perfezione, poteva considerarsi un autentico martirio. Nello stesso tempo alcuni cristiani cercano nella verginità e nell’ascesi la via per imitare più da vicino l’esempio di amore supremo dato dal martirio.


domenica 24 febbraio 2019

Papa Francesco parla del suo rapporto con Maria


Città Nuova ha recentemente pubblicato il volume: PAPA FRANCESCO in dialogo conAlexandre Awi Mello
È MIA MADRE INCONTRI CON MARIA
L’Autore, padre Awi Mello, membro dell’Istituto Secolare dei Padri di Schoenstatt, è stato nominato da papa Francesco, il 31 maggio 2017, Segretario del nuovo Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita presso la Santa Sede.

Martedì 26 febbraio alle ore 16.30 a Roma presso il MARIANUM,
nell’ambito dell’evento VOCI PER MARIA, presenterò il libro. 


Ancora un libro su Maria di Nazaret?
Lei lo aveva previsto: “Tutte le generazioni mi proclameranno beata”.
Questa volta il nuovo libro su Maria prende spunto da una intervista con papa Francesco sulla sua devozione mariana. Prende spunto, perché un paio d’ora di incontro con il papa hanno permesso all’intervistatore di scrivere un libro di più di 300 pagine.
Gli spunti comunque non mancano perché al papa piace raccontare, è il suo stile. Più che grandi discorsi dottrinali (intendiamoci, è capace anche di quelli e l’ha dimostrato ampiamente) preferisce il ricordo, l’esperienza, l’aneddoto, quel parlare semplice che può essere colto immediatamente da chiunque, anche da chi non ha una grande cultura.
Il messaggio è sempre alto e profondo, lo strumento scelto per veicolarlo popolare e immediato. Soprattutto nelle interviste, che si rivelano dunque pericolosissime, specialmente quelle senza rete di protezione come sono le interviste con i giornalisti nei suoi viaggi in aereo. Immagino i patemi d’animo dei collaboratori che lo vedono esposto a rischi d’ogni genere. Ma papa Francesco è fatto così, non ama il linguaggio politically correct, preferisce dire pane al pane, arrivare direttamente al cuore delle questioni e al cuore dei suoi uditori. Lo stesso avviene in questo libro su Maria.
A dialogare con il Papa è padre Awi Mello, membro dell’Istituto Secolare dei Padri di Schoenstatt, una persona con la quale papa Francesco ha avuto molti contatti, soprattutto durante la conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida. Ma con quante altre persone Bergoglio non avuto contatto? È un altro aspetto tipico della sua personalità: incontrare persone, essere vicino a uomini e donne più diversi, costruire e coltivare amicizie. Anche questo traspare dal libro.

sabato 23 febbraio 2019

Le promesse di Gesù: Vivremo in eterno

Ancora una promessa di Gesù...

Non è soltanto l'assenza della morte, ma una vita nuova, che appaga appieno perché è la stessa vita di Dio resa a noi pienamente partecipe

Se i Vangeli sinottici sono ricchi di promesse (su questo sito ne abbiamo commentate 13), quello di Giovanni ne è ricchissimo. Anche da questo Vangelo scegliamo soltanto alcuni testi, a cominciare da quelli che promettono la vita eterna, anche se dubito che oggigiorno una tale promessa sia molto apprezzata.
La vita eterna: rimane un po’ lontana dal nostro orizzonte, troppo celeste per i nostri gusti terreni, piuttosto astratta davanti a esigenze più corpose e a risorse più concrete che vorremmo avere subito a portata di mano. In ogni caso si tratta di qualcosa che dovrebbe riguardare il periodo dopo la morte e della morte è meglio non parlarne, anche se è la realtà più certa di tutte, e forse proprio per questo cerchiamo di rimuovere.
Andiamo comunque a Cafarnao, la cittadina che Gesù aveva scelto come base per la sua predicazione, dopo aver lasciato Nazaret, villaggio troppo fuorimano. Ora abitava in lungo di frontiera, sul lago di Galilea, dove passava una grande via imperiale che conduceva a Damasco.
Quel giorno si trovava nell’antica sinagoga sulla quale, quattro secoli più tardi, sorgerà la sinagoga monumentale di cui ancora oggi si possono ammirare le imponenti ed eleganti rovine. Il giorno precedente aveva compiuto uno dei miracoli più strepitosi, o uno dei “segni”, come ama chiamarli Giovanni. Seduto su un’altura avevo prese i cinque pani d’orzo disponibili e, dopo aver reso grazie, li aveva distribuiti alla folla, e lo stesso aveva fatto con i due pesci. Ce ne fu a sazietà per 5.000 uomini! (cf. Gv 6, 5-10). Non aveva promesso di sfamarli in un futuro più o meno lontano. Quello che era passato di mano in mano era pane da mettere sotto i denti. Un’azione di una tale concretezza che la gente voleva proclamarlo re, così egli avrebbe risolto per sempre ogni loro necessità. Com’era sua abitudine, Gesù si dileguò.
Il giorno seguente, in barca, raggiunse Cafarnao. La folla lo seguì e, nella sinagoga, si avviò un serrato dialogo col quale il Maestro voleva portare gli interlocutori a capire il “segno” della moltiplicazione dei pani. Quel “miracolo” era stata “segno”, appunto, di un altro pane che non avrebbe saziato soltanto la fame d’ogni giorno, ma quella più profonda di gioia, di pace, di pienezza di vita. C’è un pane che nasce dai solchi della terra e un pane che scende dal cielo; il primo sazia la fame di un giorno, il secondo sfama il desiderio d’infinito. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (6, 35).
A quanti avevano mangiato il pane che aveva moltiplicato sul monte, Gesù offre ora un altro cibo – se stesso! – e promette quello che nessun benefattore dell’umanità potrebbe promettere: «Se uno mangia  questo pane vivrà in eterno» (Gv 6, 58). Lo ripeterà più tardi a Marta, davanti alla tomba del fratello Lazzaro: «Chiunque crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11, 26); lo aveva affermato precedentemente: «Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (Gv 8, 51). “In eterno” significa in Dio, nel Paradiso. Non è soltanto una vita senza più la morte, che continua in maniera indefinita, ma una vita nuova, che appaga appieno perché è la stessa vita di Dio resa a noi pienamente partecipe.
Politici, sindacalisti, scienziati promettono benessere, salute, lavoro. Speriamo riescano nei loro intenti, perché abbiamo bisogno di benessere, salute, lavoro… Ma non siamo mai soddisfatti, c’è sempre qualcosa più in là a cui aneliamo, anche se non sempre sappiamo esprimerlo.
All’inizio della sua missione, dopo quaranta giorni di digiuno nel deserto, Gesù ebbe fame. Il diavolo gli suggerì di trasformare le pietre in pane, così si sarebbe sfamato e soprattutto avrebbe potuto ripetere quel gesto all’infinito, sfamando l’umanità intera. «Non di solo pane vivrà l’uomo – gli rispose Gesù –, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). Non di solo pane… Abbiamo bisogno del pane ma anche di qualcosa che risponda a esigenze più profonde, nascoste nel nostro cuore. L’ha saputo manifestare bene uno spirito inquieto come il grande Agostino d’Ippona, con le celebri parole che aprono le sue Confessioni: «Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te».
Il Padre del cielo lo sa, per questo, assieme al pane quotidiano che provvedere a chi glielo chiede per sostenerlo nella vita terrena, ha in serbo un altro pane: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Il Padre ci dà molto di più di quanto gli chiediamo, ci dà il pane del cielo, il suo stesso Figlio.
Gesù può dunque affermare che chi mangia di lui, chi crede in lui, chi osserva le sue parole, non morirà in eterno, avrà la pienezza della vita. Lo può fare perché è il Signore della vita, «lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8).
Ha messo a nostra disposizione il pane eucaristico, la sua parola di vita, ci invita a sederci alla sua mensa e a credere in lui, perché vuole farci pregustare una gioia infinitamente grande, indicibile. Vuole portarci con sé, nella vita vera: «Entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25, 21). Andremo finalmente incontro a lui «e così per sempre saremo con il Signore» (1 Tess 4, 17).

venerdì 22 febbraio 2019

Valdibrana: bellezza e grazia



Una minuscola frazione appena fuori Pistoia, completamente immersa nel verde delle colline e nel silenzio.
L’antica chiesa romanica di san Romano conserva intatta l’apside in pietra e, all’interno, un affresco d’una con Madonna con bambino e santi, di grande umanità.


Poco discosto il santuario costruito sul luogo nel quale, nel 1360, la Madonna apparve a una bambina. L’affresco non è di grande qualità, ma è stato comunque oggetti di preghiere per tanti, come testimoniano gli innumerevoli ex voto, anche recenti.
Via Valdibrana scende lentamente parallela al ruscello, affiancata da ville patronali antiche, eleganti e silenziose.
Un luogo d’incanto, come si trovano ad ogni angolo di Toscana… e d’Italia, dove bellezza d’arte e di natura si sposano con spiritualità e grazia. Non a caso la parola grazie ha a che fare con bellezza!
Domenica scorsa abbiamo concluso qui, dove i nostri genitori amavano venire a pregare e a riposare sui prati, il nostro troppo breve lutto, tra bellezza e grazia.


giovedì 21 febbraio 2019

Vivere il Paradiso


Quando ho terminato di parlare, era tanta la gioia che è spuntata una fisarmonica e mi hanno cantato una serenata… Più di 300 i sacerdoti e i diaconi, con otto traduzioni, ai quali questa mattina ho raccontato le solite cose, sempre belle.
Ho iniziato con la condivisione della mia esperienza con la Scuola Abbà che dura ormai da più di 22 anni. In modo particolare ho letto quanto annotavo il 18 agosto 1998:

«Far parte della Scuola Abbà per me ha significato entrare nel focolare di Chiara e, contemporaneamente, entrare nella Sapienza; in una parola, entrare nell’Anima, e con essa, nel Paradiso. (…) ho capito un po’ la luce del Paradiso proprio nella misura in cui Chiara mi ha reso partecipe non solo dei suoi scritti, ma della sua stessa vita. Infatti la Scuola Abbà, strutturalmente, non è un luogo accademico, come lo si intende oggi, ma piuttosto un ambito di vita. Essa non somiglia tanto alle nostre università, quanto alle scuole filosofiche dell’antichità, o meglio alla scuola che Gesù ha tenuto con i suoi discepoli. La scuola di Gesù non era fatta soltanto di insegnamenti orali, ma di convivenza con lui. Stando insieme egli coglieva ogni occasione per “fare scuola” (…). Così è la Scuola Abbà: una convivenza con Chiara dove tutto parla: le esperienze personali di cui ci rende participi, gli aggiornamenti, l’unità sempre rinnovata, la ricreazione, la preghiera, i rapporti tra di noi. Naturalmente lo studio riveste un ruolo particolare, ma esso è integrato in un tutto vitale: il focolare con Chiara che si colora di Sapienza».


mercoledì 20 febbraio 2019

Gesù aveva tatto


Gesù tiene per mano una giovane mamma
Campus della Scuola di Teologia degli OMI in Taxas
Avere tatto significa trattare cose, situazioni, persone con delicatezza, discrezione, rispetto. Non a caso in questa espressione di usa la parola “tatto”, un senso fondamentale per stabilire un rapporto autentico.

Il vangelo della messa di questa mattina ci mostra Gesù che tocca gli occhi di un cieco.
Tocca le orecchie del sordo, la lingua del muto, gli occhi del cieco. Tocca il lebbroso, senza paura di contagio (Mc 1, 41)
Tocca i bambini che vuole gli vengano attorno, imponendo loro le mani (Mt 19, 13-14).
Prende per mano la suocera di Pietro e la figlia di Giairo. Verso quest’ultima sarebbe bastato dire “Talita kum”, senza toccarla. Era morta e toccandola, secondo le credenze del tempo, si sarebbe contaminato. Come non ha paura di contaminarsi toccando di lebbrosi, non ha paura di contaminarsi con i morti: la prende per mano.
Tocca i discepoli (Mt 17, 7). “Toccatemi!”, intima agli apostoli quando dopo la risurrezione appare loro nel cenacolo (Lc 24, 39).
L’annuncio della buona novella da parte di Giovanni è significativo: “le nostre mani lo hanno toccato” (1 Gv 1, 1).

Infatti Gesù non soltanto tocca, ma si lascia toccare:
Quanti lo toccavano guarivano (Mt 14, 36), anzi gli si gettavano addosso per toccarlo (Mc 3, 10).
“Chi mi ha toccato?”, chiede quando la donna che perde sangue lo tocca (Mc 5, 31).
La donna peccatrice gli tocca i piedi bagnandoli con le sue lacrime, glieli profuma con l’unguento, gli asciuga con i suoi capelli (Lc 7, 36-50); Maria di Magdala gli unge la testa con il nardo (Mc 14, 1-11); prima di metterlo nella tomba le donne lo lavano e lo ungono…
Dopo la risurrezione Maria di Magdala lo abbraccia (La traduzione latina dice: “Noli me tangere”, non mi toccare; mentre il greco ha: “Non mi trattenere”, segno che lo teneva ben stretto) (Gv 20, 17). Anche le altre donne “gli abbracciarono i piedi” (Mt 28, 9).

Mi sembra molto opportuna la riflessione di Lucetta Scaraffia:
«Il fatto che da qualche anno, per effetto dello scandalo degli abusi, il tatto sia diventato un tipo di contatto impraticabile per sacerdoti e religiosi nei confronti di bambini e donne non costituisce solo una nuova forma di galateo e una forma di prudenza elementare per evitare sospetti (anche infondati), ma una vera mutilazione della vita di relazione, della comunicazione umana, dell’apostolato nella comunità cristiana. In un momento storico in cui la Chiesa già versa in una crisi grave nella sua capacità di trasmettere il messaggio evangelico, cuore del messaggio cristiano, l’impossibilità di dare una carezza a un bambino, di stringere le mani di una donna addolorata o agitata, costituisce un vulnus grave. Negando la possibilità di utilizzare il tatto come forma di comunicazione, diventa quasi impossibile comprendere la capacità del soggetto coinvolto di affrontare la reciprocità del rapporto, l’intimità, l’identità dell’altra persona. In sostanza, la realtà profonda di un rapporto umano. Non si può certo negare che si tratta di una mutilazione meritata, ma è comunque una mutilazione. (…) Ogni gesto è diventato sospetto perché il significato semplice, buono, affettuoso, di tanti gesti è stato utilizzato non per rassicurare e confermare un altro, ma per violare l’intimità di un bambino, di una donna, cioè di un debole».

Come ritrovare la libertà di dare una carezza, di prendere per mano, di mettere un braccio sulla spalla come segni di affetto autentico? Certo... ci vuole tatto!
Per fortuna ho ancora dei pronipoti piccoli che amano lasciarsi prendere in braccio e mi mettono la manina in bocca per farsela mangiare…


martedì 19 febbraio 2019

Il tatto e la tenerezza



Grazie allo smartphone e agli altri strumenti tecnologici l’incontro si fa sempre più rarefatto e il contatto fisico diventa inesistente. Ci si può vedere, sentire, ma non toccare.
Ciò che più ne scapita è proprio il tatto, il primo dei sensi che si attiva nel bambino.
Come si fa a incontrarsi senza una stretta di mano, senza un abbraccio?
Il contatto fisico può degenerare e farsi aggressivo, irrispettoso.
Se condotto con tenerezza dà sicurezza e non ci fa sentire soli.
Lo scrittore Martin Buber scrisse che al momento della sua morte non avrebbe voluto stringere nelle sue mani un libro, ma una mano: “Non sapevo niente di libri quando saltai fuori dal ventre di mia madre: voglio morire senza libri, con una mano tra le mie”.

Non so se il desiderio di Martin Buber si è realizzato. So che le ultime sei ore di mia mamma, ho avuto la grazia di tenere la sua mano tra le mie.


lunedì 18 febbraio 2019

Il legame nascosto di apa Pafnunzio



A intervalli regolari lungo la vallata compariva la lunga lenta ordinata carovana dei cammellieri che traghettava sale e spezie. Anche quella sera si accamparono vicino alla cella di apa Pfnunzio. Alcuni mercanti salirono da lui. Non gli rivolsero, come solevano fare, la domanda di rito: “Apa, dicci una parola”, che permetteva all’anziano di depositare una stilla di sapienza nel cuore di quegli uomini bruciati dal sole. Quella volta erano loro che avevano una parola per lui: “La tua venerata anziana madre, non è più”.
Era passati tanti anni da quando l’aveva lasciata al villaggio per seguire l’invito del Maestro a seguirlo. S’era fatto anziano, eppure la mamma continuava ad attenderlo, nella casa paterna, ormai divenuta casa materna. Il Signore l’aveva lasciata a lungo sulla terra perché continuasse, col suo magistero silenzioso, a insegnare alle figlie come amare i mariti, i figli e i figli dei figli, in ossequio all’insegnamento di Paolo trasmesso a Tito: “Le donne anziane si comportino in maniera degna dei credenti… sappiano insegnare il bene, per formare le giovani all’amore del marito e dei figli… siano dedite alla famiglia”.
Anche per lei, “sazia di giorni” come gli antichi patriarchi, il tempo si era computo.
L’apa pregò con gli uomini annunziatori e li confortò, capace di infondere in loro la pace che aveva in sé.

A sera lo assalì, improvviso e inatteso, un pensiero: “Non ho più casa”. La casa nella quale era vissuto al villaggio non era più la sua casa. Lo sapeva. L’aveva lasciata tanto tempo prima. Ormai la sua casa era la laura dove condivideva la vita con i sei fratelli, anche se ognuno dimorava nella sua cella. Perché allora quel “non ho più casa”? La casa si identificava con la mamma. Lei non c’era più e neppure la sua casa. Si sentì spaesato, senza più radici.
Non immaginava di essere così attaccato alla casa, lui monaco consumato negli anni, che alcuni, nonostante la sua pochezza, consideravano maestro. Quanti altri attaccamenti c’erano ancora in lui, di cui non sapeva neppure l’esistenza? Il giorno seguente sarebbe andato a deporre il suo peccato nelle mani di apa Melezio. Consapevole della sua miseria, si addormentò nella pace.

Al risveglio del mattino si prostrò davanti alla Tutta Santa e non trovò in sé attaccamento alcuno. Si era sbagliato, il suo non era un attaccamento, ma qualcosa di molto più profondo e radicato nella stessa carne, era un legame quello che aveva con la casa, un legame rimasto nascosto fino a quel momento. L’attaccamento è frutto della volontà, il legame è frutto della natura. Non l’aveva scelto lui quel vincolo, era segnato nella sua stessa carne. Da un attaccamento ci si distacca, da un legame… soltanto chi l’ha creato può scioglierlo.
Era stato Dio a legarlo alla madre e a radicarlo alla “casa”. Adesso lo aveva sciolto, rendendolo libero. Poteva correre, proteso in avanti, dimentico del passato, per afferrare Cristo, da cui era già stato afferrato.


domenica 17 febbraio 2019

Gesù ha pianto come noi



Che gioia sapere che Gesù era umano come tutti noi.
Come noi ha avuto fame, quand’era nel deserto (cf. Mt 4, 2).
Ha avuto sete quando, a mezzogiorno, dopo una mattinata di cammino sotto il sole, si era seduto al pozzo di Sicàr (cf. Gv 4, 7).
Ha provato un’arsura infinita sulla croce: “Ho sete” (Gv 19, 20).
Si è sdegnato e rattristato quando ha costatato la durezza di cuore di scribi e farisei: “volgendo su di loro uno sguardo di collera (orghé), rattristato per la durezza dei loro cuori…” (Mc 3, 5).
È stato preso dall’ira quando ha visto il tempio trasformato in un mercato: “avendo fatto una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i tavoli” (Gv 2, 15).
Ogni pagina di Vangelo ci parlano della sua umanità, della compassione per i poveri, gli ammalati, la vedova di Nain; del suo amore per i bambini, ma anche per la natura che ama contemplare; della sua stanchezza, del suo bisogno di riposo, di un conforto amico.
Arriva a provare paura e angoscia davanti alla morte (cf. Mc 14, 33), fino a sudare sangue (cf. Lc 22, 44).

Ma forse dove Gesù mostra di più la sua umanità, perché ha fatto sua la nostra umanità, è quando piange.
Scoppiò in pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro. Ne rimasero sorpresi anche i presenti: “Dissero allora i giudei: Vedi come lo amava?” (Gv 11, 36). Gli uomini non piangono, è cosa da donne.
Pianse davanti alla sua città, di cui vedeva la distruzione per non averlo saputo accogliere: si sentì rifiutato (cf. Lc 19, 41).
Pregò “con forti grida e lacrime” per essere liberato dalla morte (cf. Eb 5, 7).
Gesù che piange!
Non poteva essere più umano.
Piange con noi ogni volta che noi piangiamo.
Col suo, il nostro pianto si fa preghiera, lode… è divino.


sabato 16 febbraio 2019

Oggi sarai con me in Paradiso



Nessuno entra da solo nel seno del Padre, neanche Gesù.
Ho pubblicato sul sto di Città Nuova un’altra delle tante promesse di Gesù.

Ogni giorno migliaia di persone passano su quello sperone di roccia, si prostrano carponi sotto l’altare e introducono la mano nel foro dove fu piantata la croce di Cristo. È difficile immaginare com’era duemila anni fa quel luogo di supplizio, ora sommerso da sovrastrutture secolari.
Erano tre, quel giorno, inchiodati sul patibolo. Sentirono il centurione che, in latino, in greco, in ebraico, leggeva la sentenza di condanna di Gesù Nazareno che si era proclamato re dei Giudei. Uno dei due rise e con sarcasmo lo insultò: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi». L’altro lo riprese, facendogli notare che loro due meritavano quel supplizio, perché dei delinquenti, ma lui, il Re, non aveva nessuna colpa, era condannato ingiustamente, era innocente. Rivolgendosi poi a Gesù, gli rese atto della sua regalità: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Era una duplice sincera confessore: l’ammissione di essere un assassino e il riconoscimento dell’innocenza di Gesù e della sua regalità. Aveva preso sul serio l’iscrizione vergata dal procuratore, Ponzio Pilato. Poneva in lui ogni fiducia, tanto grande quanto immeritata.
Come faceva a riconoscere in quell’uomo flagellato, coronato di spine, sfigurato, beffeggiato, un re? Che razza di Messia poteva essere se non era capace neppure di salvare se stesso? Cosa aveva di regale Gesù, in quel momento? Eppure il brigante lo tratta davvero da re. Forse per il suo comportamento. L’ha appena visto prendersi cura della folla e dei soldati, scusarli, chiedere per loro il perdono. Si era preso cura della madre e, perché non rimanesse sola, l’aveva affidata al discepolo amato. Pur sentendo la sete e l’abbandono di Dio, pur nel suo alto grido di dolore, quell’uomo sulla croce pensava ancora agli altri. Era questo che impressionava il ladrone crocifisso, così come subito dopo impressionerà il centurione che l’aveva crocifisso.
La tradizione ci ha ricamato sopra. Il Vangelo arabo dell’infanzia di Gesù, ha dato un nome ai due banditi, Tito il buono (il Vangelo di Nicodemo e gli Atti di Pilato lo chiamano invece Disma e la tradizione ortodossa Rakh) e Dumaco il cattivo. Briganti nati, avrebbero assaltato la santa Famiglia durante la fuga in Egitto, ma Tito si era commosso a vedere il bambino e lo aveva difeso da Dumaco.
Lasciamo le storie fantasiose e torniamo a quel crudo momento della crocifissione. «Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno». Lo chiama per nome, come non aveva fatto nessun altro dei molti personaggi quel giorno presenti al processo e sul luogo del patibolo, come mai era stato chiamato lungo tutti i Vangeli, neppure dai discepoli più intimi. Lo chiamavano Signore, Maestro, Figlio di David. Soltanto lui, il delinquente, l’assassino, lo chiama per nome, come faceva sua mamma Maria.
Lo chiama per nome, segno di umanità, di affetto, di vicinanza. È anche lui maledetto da Dio, perché pende dal legno, fuori delle porte della città. Per questo, come nessun’altro, sente Gesù vicino a sé, compagno che condivide la medesima condanna, con l’onta e il patire. E insieme parla del suo regno, riconoscendo in quell’uomo con-crocifisso la dignità regale, la capacità di riscatto e di salvezza.
Gli giunge così la più bella delle promesse fatte da Gesù nel Vangelo: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 39-43). Lo porterà in paradiso subito, “oggi”: quanta fretta, o meglio, quanta premura! Lo porterà con sé, “sarai con me”: quale migliore compagnia! Lo porterà “in Paradiso”: quale ricompensa più bella, non per i crimini commessi, ma per la fiducia che ha mostrato nella sua misericordia.
È promessa, che richiede a Gesù di compromettersi: per aprire il paradiso al ladrone dovrà impegnare tutta la sua vita, dovrà morire. Ma anche Gesù ha la sua ricompensa, entra in Paradiso in compagnia di un altro. Nessuno entra da solo in Paradiso, neanche Gesù…

venerdì 15 febbraio 2019

Il rizoma e il giglio



Chissà perché mi sono venuti in mente i rizomi e i tuberi che da sotto terra alimentano le piante. Raccolti in un medesimo ceppo, spesso hanno bisogno di essere diradati, trapiantati, perché tutto crescano meglio.
Ormai il legame naturale, la radice antica, che teneva unita la famiglia, non c’è più.
Allora? Si sfascia tutto? No, per fortuna sono cresciuti nuovi ceppi familiari, pronti ad essere diradati per fruttare ancora di più. Non una famigliola accanto a un’altra, ma costellazioni familiari, capaci di sostenersi reciprocamente.
Dunque l’unità della grande famiglia non ci sarà più?

Ed ecco la seconda immagine che mi è venuta alla mente: la basilica dell’Annunciazione a Nazaret, che ha la forma di un giglio capovolto. 
Il bulbo del giglio è in basso, nascosto sotto terra, ma a Nazaret il giglio ha la radice in cielo…
La radice che ha dato vita e sostenuto per tanti anni una famiglia sempre più grande come la nostra, dilatata ormai in tante famiglie, si è trasferita in alto, in modo da poter seguire meglio i trapianti che consentiranno una crescita sempre più ampia, in risposta al comando iniziale: “Crescete e moltiplicatevi”.
L’unità non si allenta, cresce e si fa sempre più divina, quindi più salda.