lunedì 31 ottobre 2022

Tutti i Santi


Quanti sono i santi in cielo? 

Quanti bastano per non essere 

e non sentirsi mai soli.

domenica 30 ottobre 2022

Le mie parole mensili

Ogni mese, da due anni, sulla rivista “Città Nuova”, pubblico una rubrica di mezza pagina appena, intitolata “In poche parole”. Le parole che ho scritto quest’anno sono: Armonia, Compassione, Ardore, Preghiera, Condivisione, Accompagnamento, Essenziale, Mitezza, Effimero, Perseveranza, Animare.

Dopo che sono apparse sulla rivista le pubblico su questo mio blog. Il resoconto automatico delle statistiche mi dice che i blog che riportano queste parole sono i meno letti. Penso che sarà altrettanto per la rivista Città Nuova: la rubrica meno letta. Mi domando se vale la pena continuare.

Comunque per dicembre devo scrivere l’ultima parola dell’anno (l’ultima in assoluto?). Ho pensato a Attesa. Potrebbe essere, visto che a dicembre saremo nel periodo liturgico dell’Avvento, il tempo per eccellenza dell’attesa.

At-tendere: rivolgersi verso. È più di un semplice aspettare – “aspicere” – che indica un atteggiamento piuttosto passivo: guardare, essere rivolti verso la persona o la cosa che deve arrivare. Nell’attesa c’è molta più partecipazione, implica un dedicarsi, una “tensione”. Non si sta lì con le mani in mano, si vorrebbe quasi anticipare la venuta, andare incontro, per accorciare tempi e distanze. Si aspetta che spiova, non possiamo farci niente. Si aspetta Gogol, come Becktett, ma aspetta aspetta non viene mai… fino alla rassegnazione. Nell’attesa invece sono coinvolti mente e cuore, con impazienza. Riflettendo su questa parola mi rendo conto di quante altre parole sono ad essa correlate: attenzione, tensione, intendere, pretendere, attenzionare... Ma anche altre che non hanno un legame etimologico e che indicano piuttosto sentimenti corrispondenti all’attesa: trepidazione, delusione, speranza. Niente a che fare con un atteggiamento di immobilità, L’attesa implica un atteggiamento attivo, un essere interamente rivolti, protesi verso, nella speranza di essere appagati da quell’arrivo.

L’attesa non consente distrazione, ossia l’essere attratti altrove. Uno dei miei soliti aneddoti spiega bene che l’attesa richiede concentrazione, vigilanza. Ero in “attesa” del treno. Stazione secondaria di una cittadina in Francia. Mattinata tiepida, con un sole splendente in un cielo d’un azzurro terso. Mi siedo sulla panchina del binario dove deve sostare il treno. Pochi i passeggeri che aspettano assieme a me. Mi immergo nella lettura di un romanzo classico. Ad un certo momento alzo lo sguardo e mi ritrovo solo, senza più nessuno attorno. Guardo l’orario: il treno dovrebbe essere arrivato, fermato e ripartito da una ventina di minuti. Non me ne sono accorto. Vado in biglietteria per regolare il biglietto e mi scuso dicendo che mi sono distratto. “No – mi dice il bigliettaio – lei era semplicemente altrove”. Era vero, non mi trovano al luogo dell’appuntamento, il romanzo mi aveva portato lontano, in una piazza di Milano nel 1600. Come non ricordare la pagina evangelica delle vergini saggie e delle vergine stolte. Queste ultime all’arrivo dello sposo sono altrove, sono a comprare l’olio per le lampade… e perdono il treno!

Quante volte Gesù invita a vigilare, ad essere pronti, svegli, perché egli arriverà all’improvviso. La sposa del Cantico dei Cantici ci confida che anche quando dorme il suo cuore è sveglio e al minimo rumore riconosce il bussare discreto del suo diletto (cf. 5. 2). L’amore veglia, l’amore è sempre in attesa. Un’amica, alla quale avevo chiesto se stava aspettando, mi rispose, “No, amo, aspettando”. Non era più un aspettare ma un “attendere”.

Vediamo se ne esce una pagina decente per la mia rubrica.

sabato 29 ottobre 2022

Una ricerca reciproca

Il sicomoro di Gerico 

La simpatia va subito a quell’ometto piccolo di statura, furbo, sempre di corsa, intraprendente, determinato, libero dai condizionamenti sociali, da ciò che pensa e dice la gente. Un solo pensiero lo guida: il desiderio di vedere Gesù. È mosso dall’inquietudine, dal disagio interiore. Ha i soldi e si sente vuoto, non gli bastano a colmare il cuore, anzi lo inaridiscono. È insoddisfatto, ma non rassegnato. Ed eccolo sull’albero. È curiosità la sua o una segreta ricerca di felicità, il desiderio sincero di un incontro che cambi la vita? È comunque un’iniziativa premiata: trova la gioia, la forza della conversione, della generosità e del dono, la salvezza. Non si ripiega sui propri sbagli: è libero perché liberato.

Quanti troverebbero la felicità e la pienezza della vita se si mettessero alla ricerca del tuo volto, Gesù, come fece Zaccheo; se si accendesse in essi il desiderio di te, se andassero oltre le convenienze sociali, se vincessero i pregiudizi dei luoghi comuni su di te, sulla tua Chiesa e avessero il coraggio di guardarti in faccia, di lasciarsi interpellare dal tuo vangelo...!

Anche per noi Zaccheo resta un modello. La ricerca di te può affievolirsi, nell’illusione di averti trovato, di conoscerti già, tu sempre nuovo, imprevedibile, inafferrabile. L’assuefazione alla tua presenza può smorzare la gioia, lasciarci illanguidire, insabbiare il cambiamento di vita e renderci statici, inoperosi.

La nostra simpatia va soprattutto a te che sai suscitare l’insoddisfazione e il desiderio della ricerca. A te che per primo ti muovi per trovare ciò che è perduto. A te che hai alzato lo sguardo e hai rinvenuto la pecorella smarrita e non l’hai rimproverata, che hai accolto il figlio prodigo senza rinfacciargli il male fatto e senza chiedergli di restituire il maltolto. A te che hai onorato il peccatore con la tua visita.

Forse non sappiamo suscitare la salvezza attorno a noi perché all’altro abbiamo sempre tante cose da dare, da dire: siamo ricchi. Tu invece hai chiesto a Zaccheo, facendoti bisognoso d’accoglienza: eri povero. Così l’hai messo in occasione di donare e il cuore è scoppiato di generosità e di gioia.

venerdì 28 ottobre 2022

giovedì 27 ottobre 2022

Ritorno in Continente

Riparto per il Continente, o per l’Italia, come dicono in Sardegna. 

Torno in Continente e lascio qui la nostra splendida comunità. Gli Oblati, con un po’ di presunzione,  si definiscono “vicini alla gente”. Qui è particolarmente vero. Si guasta l’ascensore? Le fogne sono intasate e fuoriescono i liquami? È finito il gas? C’è una emergenza sanitaria? Dove va la gente? Dagli Oblati. Non va alla messa ma va dagli Oblati. In un quartiere senza punti di riferimenti e centri di aggregazione, non si va dal sindaco, in comune, si va dal parroco. 

Qui le persone sanno di essere accolte, ascoltate, aiutate se possibile. Gli Oblati si fanno loro portavoce e vanno dal sindaco, dall’assessore, li portano sul posto… Terra di missione.

Torno in Continente e lascio paesaggi da sogno, amalgama di rocce, boschi, montagne e vallate, mare, spiagge, cale e calette...  

Torno in Continente e lascio e gente accogliente. Prendo a prestito le parole di Paolo VI pronunciate al santuario della Madonna di Bonaria: “popolo semplice, laborioso, austero, taciturno, selvatico e triste, ma dai costumi umani e pii; un popolo adusato alle privazioni e alla fatica, un popolo isolato dal mondo, come la sua terra; un popolo dalle passioni fiere e tenaci, ma insieme dai sentimenti ingenui e gentili, capaci di esprimersi in leggendarie fantasie ed in canti gravi e calmi come echi incantevoli, che recano ancora la voce di secoli lontani”.



 



mercoledì 26 ottobre 2022

Gli Oblati nel quartiere sant'Elia a Cagliari

Breve visita alle Suore di Madre Teresa di Calcutta che abitano nel medesimo edificio dell’oratorio parrocchiale. Ne incontro due soltanto, delle sei che compongono la comunità, una albanese e una indiana. Pochi minuti e alla porta si susseguono più persone che vengono a portare aiuti di genere alimentare per i poveri. Le suore visitano infatti le famiglie del quartiere e nei casi più disperati fanno anche le pulizie delle case e altri servizi, specialmente per le persone più povere, ammalate o anziane.




Nell’oratorio vengono i volontari dei Somaschi per il doposcuola a ragazzi e giovani. Ivan, il giovane Oblato, pensa alle materie scientifiche. La scuola del quartiere ha chiuso le medie e ha accorpato le classi elementari: i genitori preferiscono mandare i figli in altre scuole più lontane perché l’aria che si respira da queste parti è troppo pesante, con delinquenza, droga, violenza. Ma padre Paolo, da buon vecchio missionario, mi assicura che la maggior parte della gente è buona, c’è solo una cattiva fama a causa di pochi… La chiesetta che gestisce, succursale della parrocchia, era il locale d’appoggio degli operai, proprio tra i palazzi, quando lavoravano alla costruzione delle case popolari. La stanza adibita a sacrestia è stata occupata abusivamente durante il periodo del lockdown e è impossibile farla liberare, come è impossibile far rimuovere la macchina senza ruote, riempita di tutto e di più, parcheggiata davanti alla porta della chiesa e attorno alla quale screscono le erbacce. “Bisogna capire – ripete p. Paolo – sono persone che hanno problemi, ma sono buone”.

Il quartiere è nato con gli sfollati della guerra, quando il 70 per cento di Cagliari fu distrutta dai bombardamenti, ed ha continuato ad attirare poveri e persone disadattate. È in una posizione bellissima, sul mare. Il comune ha creato parchi, una magnifica passeggiata lungo in mare, campo da gioco… “Ma adesso bisogna costruire le persone…”, dice p. Stefano.

Dei quasi 10.000 abitanti la domenica vanno in chiesa soltanto 90 persone. Terra di missione. E i nostri Oblati sono proprio missionari. Dopo sei anni in un’altra zona di Cagliari, da un anno sono stati invitati a prendersi cura del quartiere e della parrocchia. Le volontarie del Movimento dei Focolari danno la loro collaborazione al centro di ascolto, nei locali della parrocchia, e stanno avviando una consulenza medica. Sono coinvolti anche i laici di Madre Teresa. Attiva la Charitas. “Dobbiamo aiutare le persone a diventare umane – ripete p. Stefano citando sant’Eugenio – poi cristiane, poi sante”. Umane: occorre creare un centro sociale, favorire il dialogo fra tutti, dare fiducia… Terra di missione! E missionari sono p. Stefano che gestisce l’ufficio immigrati; p. Paolo che visita le persone anziane; p. Saverio che si occupa più direttamente della parrocchia; p. Francesco che tiene aperta la comunità su tutta la Sardegna organizzando incontri, predicazioni, missioni; Ivan, che si prepara al sacerdozio e intanto si cala nella realtà del territorio…

Percorro in lungo e in largo questa terra di missione, strada per strada, tra panni stesi, pochissimi negozietti precari, garage adibiti abusivamente ad abitazioni, abeti e prati che abbelliscono gli spazi, l’affaccio sul mare che allarga l’animo, la vista della collina rocciosa che domina dall’alto infondendo sicurezza… e tanta umanità, tanta umanità, che ricorda le folle senza pastore che Gesù incontrava e alle quali dava pane e speranza.

martedì 25 ottobre 2022

Nel cuore della Sardegna


“… io sono un detenuto politico e sarà un condannato politico… non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in un certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso”.


20 ottobre - Dopo Paolo VI e Madre Teresa è ora la volta di Antonio Gramsci. Sono a Ghilarza, nella sua casa natale ora trasformata in museo. Nella prima stanza campeggia la gigantografia di una lettera alla madre di cui ho ricopiato questa frase, testimonianza di un altissimo profilo morale, coerente. E in questo mondo di scotenti, proprio mentre è provato della libertà e allontana da moglie e figli, si dichiara contento! È soltanto uno dei grandi sardi che incontro in questi giorni. Penso ad altri grandi politici come Segni, Berlinguer, Cossiga…

Ghilarza, paese di Gramsci


Sono venuto questa mattina a Aidomaggiore, nel cuore della Sardegna. Un paesetto in mezzo a colline verdi, ricche di olivi, vigne… Trent’anni fa c’erano 1300 abitanti, ora poco meno di 400, con uno spopolamento che colpisce tutta l’isola. Ma ci sono ancora i Carabinieri, l’ufficio postale, il tabaccaio. E tante cose disabitate. Case a pietra nera, solide, belle, arcaiche.

Al tramonto salgo sulla collina alle spalle del paese per lasciarmi avvolgere dal mistero di tre nuraghi. All’ultima luce del sole appaiono caldi, danno sicurezza, anche se, solitari, non sanno raccontare le storie che li ha abitati.



Più lontano un “novenario”, di cui non avevo alcuna conoscenza: una chiesetta dedicata a Maria con attorno delle piccole case che vengono abitate soltanto durante la novena dell’otto settembre. Le persone del paese si trasferiscono lì per pregare, fare festa, dormire insieme, accampati. Vengono anche i parenti, gli amici… Al mattino partono per il lavoro e a sera tornano di nuovo. Una tradizione diffusa, che rifiorisce ad ogni festa patronale, e sono tante. Ci sono ancora i festoni con le bandierine che ricordano la festa del mese scorso. Penso che una volta un evento del genere fosse occasione di una profonda evangelizzazione, e mantenesse viva la fede, chissà se oggi svolge ancora questa funzione…

21 ottobre – Oggi è la volta di altri grandi sardi, anzi sarde. Inizio da Nuoro, con Grazia Deledda. La casa natale custodisce tanti ricordi. Di stanza in stanza rifiorisce la vita di fine Ottocento. Mi attira soprattutto una foto che la ritrae con altri artisti della città: un musicista, un pittore, un poeta… Un cenacolo di artisti! Non fiorire in solitario, ma in legami di interessi, di passioni, di condivisioni…

Casa di Grazia Deledda


A Dorgali un’altra grande sarda, la beata Maria Gabriella Segheddu, Gabriella della Trappa. Questa volta la casa natale non è bella, spaziosa e signorile come quella di Gramsci e Deledda… ed è anche chiusa! Non è una attrazione turistica e culturale. Per chi la conosce sa che ha bruciato le tappe della santità e dato la vita per l’unità dei cristiani. In paese la ricordano per il carattere ostinato, critico, contestatario, ribelle, ma con un forte senso del dovere, della fedeltà. Poi, nella trappa di Grottaferrata, la metamorfosi: “Nella semplicità del mio cuore, ti offro tutto lietamente, Signore… Io mi sono offerta interamente e non ritiro la parola data… La volontà di Dio, qualunque essa sia: questa è la mia gioia, la mia felicità, la mia pace.

Casa di Grazia Deledda

Casa di Gabriella della Trappa


A Orgosolo mi aspetta la beata Antonia Mesina: una casa ancora più modesta e anche questa chiusa ai visitatori. In compenso è aperta la cripta che contiene il suo corpo, con gli affreschi che raccontano la breve vita, un fiore colto in tutta la sua purezza.


Casa di Antonia Mesina


Antonia Mesina con l'amica


Il tutto incastonato in una natura meravigliosa e un po’ selvaggia, la Barbagia, così denominata dai Romani – terra dei barbari – perché non riuscivano a domarla. Le rimane ancora quel tocco di indomabile. All’ingrasso di Orgosolo un murale lo afferma chiaramente: “Nel territorio di Orgosolo il popolo regna sovrano e lo stato obbedisce”. È un mondo a parte con le sue regole. I numerosi murales che rappezzano l’intero corso testimoniano la forte ribellione contro ingiustizie, soprusi, vuote retoriche. Gente tutta d’un pezzo.


Murale di Orgosolo

A sera, nei dintorni di Aidomaggiore e Sedilo visito altri “novenari”: chiese ancestrali, porticati per i pellegrini, orizzonti appaganti lo sguardo e l’anima.



Santa Greca con Antonietta e Assunta


22 ottobre – Alla partenza da Aidomaggiore tutto il vicinato si è riversato in strada per salutarmi e reclamarmi per più prolungato soggiorno. Che umanità bella! A cominciare dalla carissima Giulietta e da sua sorella Assunta, dal nipote Piero, dall’amico Roberto, da Antonella, Tanina, il vecchio patriarca Michelino… Un mondo piccolo e coeso, accogliente, pieno di sentimenti, di passioni, di tragedie e di sofferenze, come ovunque, ma qui particolarmente condiviso.



A Narbolia altra accoglienza festosa. Ritrovo l’aria di casa mia, aria di famiglia, con figlie e figli attorno alla mamma anziana. Le ore corrono veloci. Non vorrei più partire…

E i siti archeologici: Nuraghe Losa, Tharros… Silenziose pietre millenarie. Il tramonto a Capo san Marco infonde una pace infinita e chiude questa mio giornata d’incanto.



lunedì 24 ottobre 2022

Il Crocifisso di sant’Elia

Alla crocifissione di Gesù “c’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala…”. Così il Vangelo di Marco (15, 40). Invece secondo Giovanni le donne stavano ai piedi della croce (18, 25-27). L’arte va oltre e mostra Maria di Magdala avvinghiata ai piedi del Crocifisso. È forse il prolungamento dell’atto di lavargli i piedi con le lacrime, profumarli, asciugarli con i capelli (la tradizione ha infatti fuso la peccatrice innominata con Maria di Magdala). L’arte non contenta di ritrarre la Maddalena mentre abbraccia i piedi del Crocifisso, glieli fa abbracciare e a baciare anche nell’atto della deposizione (come in un bel dipinto di Pietro Cavaro conservato proprio nella pinacoteca di Cagliari, dove invece Maria di Cleofa esprime il suo dolore levando le braccia al cielo…).

Le donne gli abbracciarono i piedi anche il giorno della resurrezione: e siamo al Vangelo di Matteo (28, 9). Erano importanti i piedi di Gesù, si potevano toccare: Dio si era fatto “carne”.

Non posso non pensare a questi episodi del Vangelo mentre guardo il grande Cristo crocifisso che domina la chiesa di sant’Elia degli Oblati a Cagliari. Ha i piedi grandi, sproporzionati. Sono grandi quei piedi baciati e bagnati di lacrime dalla peccatrice, abbracciati da Maria di Magdala, avvinti dalle donne della resurrezione.

Anch’io, come le donne, inizio a guardare questo crocifisso dal basso, dai suoi piedi. Grandi, perché hanno percorso tanta strada, per andare in villaggi e città, in cerca delle pecorelle smarrite, incontro a peccatori e malati. Camminava, camminava per portare ovunque l’annuncio della buona novella: “Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunci, messaggero di bene che annuncia la salvezza» (cf. Is 51, 7). È un Cristo missionario quello appeso sulla croce nella chiesa dei missionari a sant’Elia.

Piedi grandi e braccia spalancate. Le donne gli hanno abbracciato i piedi, lui ha abbracciato il mondo intero: ha spalancato le braccia per un abbraccio universale, è morto per tutti (cf. 2 Cor 5, 14). È il Salvatore, titolo che sant’Eugenio amava in modo particolare, col quale voleva che i suoi Oblati lo pregassero.

Dai piedi salgo con lo sguardo fino al volto. Non è subito evidente se ha gli occhi socchiusi o definitivamente chiusi dalla morte. Il sangue che sgorga dal costato dice che ha già ricevuto il colpo di grazia con la lancia. Sembra abbia appena dato l’ultimo respiro, ha la bocca ancora socchiusa. L’evangelista Giovanni, usando una parola del tutto in solita per designare la morte di Gesù, scrive che “consegnò” lo spirito: “reclinato il capo consegnò lo spirito” (19, 30). Luca dice che lo consegnò al Padre (cf. 23, 46). Giovanni sembra mostrare Gesù nell’atto di consegnare il suo spirito (lo Spirito?) su Maria e Giovanni che, ai suoi piedi, rappresentano tutti noi, la Chiesa. Quando veniamo a pregare questo Crocifisso dovremmo aprire anche noi la bocca per aspirare lo Spirito che Gesù soffia su di noi: da bocca a bocca, come un bacio.

La prima cosa che mi ha colpito guardando questo grande crocifisso in ceramica, opera dell’artista Claudio Pulli, 1973, è la sua collocazione: davanti a un dipinto precedente, sul fondo della chiesa, raffigurante la scena della Trasfigurazione.

Troppo evidente il contrasto. La Trasfigurazione dovrebbe essere luminosa: Gesù vi appare in tutto il suo splendore, davvero “il più bello tra i figli dell’uomo”: vi traspare la sua divinità, chiaramente proclamata dalla voce del Padre. Invece il dipinto, su maiolica, nella chiesa di sant’Elia, è severo, scuro… non mi permetto di dire brutto.

Per contro il Crocifisso è bello, luminoso, pur nel suo colore di un rosso-mattone intenso.

Non dovrebbe essere tutto l’inverso?

Di cosa stavano parlando Gesù, Mosè e Elia sul monte della trasfigurazione? Del transito che sarebbe avvenuto in Gerusalemme. La luce del Tabor, come un faro potente, era tutta proiettata sul Tabor. È quello – mi pare – che appare dal Crocifisso di sant’Elia. Lì, sulla croce, Gesù si mostra davvero il più bello dei figli dell’uomo, proprio nel momento in cui è sfigurato, irriconoscibile. È sfigurato per ridare a noi la figura di figli di Dio che avevamo perduto con il peccato.

Per questo Maria di Magdala lo abbraccia. Per questo anche voi lo abbracciamo.

Dopo quel grido tremendo che fece tremare la terra, il Crocifisso di sant’Elia è nella pace, ha completato l’opera che il Padre gli aveva affidato: “È compiuto” (Gv 19, 30). Il “missionario”, il “mandato” dal Padre, ha compiuto la sua missione. Un invito a compiere anche il mandato missionario affidato ad ognuno di noi battezzati.

 

domenica 23 ottobre 2022

Padre Gigi Sion raccontato dai Borzaga

Su Padre Gigi Sion lascio raccontare prima a Lucia Borzaga, poi a suo fratello Mario Borzaga.

Lucia:

Giovedì sera padre Gigi ci ha salutato, dopo una vita di missione e di Fede incarnata nella vita quotidiana. Se n’è andato in punta di piedi, all’improvviso, senza disturbare nessuno.

Nei suoi 54 anni di missione ha attraversato il mondo: prima il Laos, poi l’Uruguay e infine il Kenia. Un vero Missionario con la M maiuscola. Con un carattere forte, indipendente, libero e soprattutto pieno d’ironia che l’aiutava a stemperare ogni suo gesto e ogni situazione. Un artista che era noto per i suoi disegni e le sue caricature con cui prendeva in giro confratelli e superiori, senza fare distinzioni. Un costruttore di chiese e di scuole conquistando sul campo il ruolo di ingegnere e architetto.

Il 31 ottobre 1957 parte dal porto di Napoli per il Laos con padre Mario e altri quattro compagni. Con lui vive tanti momenti di vita dura nella foresta, momenti estremi, faticosi, pieni di sudore, di domande e di Fede. Si sostengono a vicenda, condividendo anche la passione per il fumo. Padre Mario fuma sigarette e lui fuma la pipa. Quando nel 1960 padre Mario era “sparito” lo aveva cercato tanto e più di una volta ricordava il dolore che aveva provato nell’incontrare i suoi genitori a Trento. Parlando del suo confratello Beato, faceva rivivere il suo amico raccontandolo senza timidezze e senza celebrazioni ampollose. Ora sono di nuovo insieme, nella pienezza della Vita che non finisce mai. Mario e Gigi, grandi missionari che sorridono nella Pace dei Giusti. Di loro ci restano tanti ricordi, foto, frasi, sorrisi, parole e tanta fede.

Negli scritti di p. Mario, p. Gigi appare moltissime volte. Trascrivo alcune brevi frasi degli inizi della missione nel 1959.

Padre Sion si buttò su duna sedia, stanco. Con aria giocondamente sconsolata bofonchiò: Se questi Meo non la smettono di convertirsi, andrà a finire che io diventerò pazzo. Diceva così per dire, per sottolineare con una frase che avesse un podi sapore, tragico ad esempio, che egli aveva molto lavoro.

Quando ci si mette la Grazia, evidentemente cè del lavoro, soprattutto se si vuole marciare col suo ritmo. A Na Vang, il villaggio sulla catena di montagne dalle carovane di nubi, un due trecento Meo, or soli, or a gruppi, in questi mesi hanno voluto entrare cheti cheti nellovile della Chiesa del Cristo. Padre Sion è il loro pastore. 

All’arrivo a Luang Prabang lo stile diverso di Staccioli e Sion:

Andammo ad attenderli allaeroporto. Padre Staccioli apparve alla scaletta del Dakota timido e sorridente in mezzo alla variopinta folla dei funzionari e dei bonzi, Padre Sion dal canto suo ci salutava col gesto classico della mano di moda presso i grandi internazionali, sfoggiando quella certaria libera e indipendente comune a tutti i triestini delluniverso.

Il costruttore:

Così accadde che a Nam Tha Padre Staccioli e Padre Sion lasciarono per qualche giorno i lavori dellapostolato per dedicarsi a rifare il tetto della loro casa. Il tradizionale tetto di paglia, caro nelle Missioni tropicali, fu gettato alle fiamme per dar posto alle moderne lamiere sulle quali la pioggia picchia sonora chè un piacere, mentre in casa ci si gode un focherello e due palmi dasciutto. Nonostante il tetto nuovo, Padre Sion il pessimista allegro, scriveva nel suo diario: Abbiamo rifatto il tetto. Attendiamo le prossime piogge per vedere da che parte cade lacqua e dove sistemare la roba.

Il missionario:

Quando Padre Sion, dopo due giorni di marcia giunse a Na Vang, era il primo sabato del mese di maggio e tutta la gente se ne stava in ozio seduta sui tronchi o allombra dei tetti di paglia. Che fate? Oggi non lavorate?chiese Padre Sion. Come? Non sa? Oggi è sabato e di sabato non si lavora, lo ha detto il Pastore. Padre Sion si senti venir meno: due giorni di cammino per capitare in un villaggio protestante. Poi raccolse le idee e con quel suo cipiglio mezzo burbero e mezzo bonario propose: Beh, sentite, il giorno del Signore non è il sabato, ma la domenica, dora innanzi riposerete la domenica. Il capovillaggio subito riunì gli anziani a consiglio. Cosa pensare della religione del Padre? Sciòng, il catechista meo di Padre Sion, piombò a razzo nelle discussioni, parlò con calore della religione cattolica, dimostrò lerrore della dottrina protestante. Dopo una notte intera di discussioni, il capo villaggio fece sapere a Padre Sion che se il Missionario si fosse stabilito al villaggio, a differenza del Pastore che si accontentava di qualche rara visita, essi si sarebbe convertiti. E Padre Sion rimase.

Per i primi giorni Padre Sion fu sistemato nella casa del capo villaggio. Dormivo la notte su una peIle di tigre, si dirà, la tigre era morta, ma le pulci della fu signora tigre, erano fin troppo vive. Dopo qualche giorno i meo gli costruirono una capanna di bambù, contemporaneamente diciassette famiglie accettarono di incominciare il catecumenato in preparazione al battesimo.

Collandare delle settimane altre famiglie vicine e lontane vollero farsi cattoliche e Padre Sion a girare dovunque sulle montagne col suo fedele catechista per compiere gli esorcismi di rito e la benedizione della casa. Infatti una famiglia pagana non può essere ammessa al catecumenato se prima non caccia gli spiriti, come diciamo noi. Il Padre in cotta e stola legge le formule del rituale, il catechista traduce e ne spiega il senso.

Ma quanta fatica è costata questa Missione allinfaticabile Padre Sion? Tra di noi si va dicendo che solo lui poteva fondare una Missione in simili condizioni durante la stagione delle piogge sulle montagne. I cinquanta chilometri da Nam Tha non sono che fango nel quale si affonda spesso fino al ginocchio, fiumi da attraversare a guado, nei quali la corrente forte rischia ad ogni momento di trascinare via i cavalli coi loro basti pieni di medicine e di libri. Le sanguisughe sono dovunque nella fanghiglia e tra le erbe bagnate, impossibile impedire loro dassalire il passante e dattaccarsi alle caviglie. Beati i piedi che annunciano la pace.... Ma quando si arriva a Na Vang sui piedi beati si trovano fino a venti trenta sanguisughe in rivoli di sangue, beato anche lui.

Il Signore ha benedetto largamente le fatiche apostoliche di Padre Sion. La domenica mattina alla Messa si possono avere fino a duecento persone stipate fitte in quella povera capanna che durante la giornata deve servire da scuola, stanza da letto e refettorio del Padre e dei catechisti, infermeria, sala gioco e di ritrovo per tutti. Padre Sion ha saputo ottimamente formarsi il suo ambiente. Pure incerto della lingua meo, saggira sorridente tra le sue variopinte schiere di meo bianchi e meo raye, tra gli uomini che fumando le grandi pipe ad acqua si scambiano quattro chiacchiere, le donne che col ricamo in mano se ne scambiano cento, mentre la gioventù legge o canta e i ragazzi sincaricano del baccano e del pubblico disordine.



 

sabato 22 ottobre 2022

Abbi pietà di me peccatore

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»

Si potrebbe parafrasare così un antico proverbio: «Dimmi come preghi e ti dirò chi sei». La preghiera del fariseo mostra una persona buona, che osserva la legge alla perfezione, anzi più di quanto essa prescriva: è richiesto un digiuno la settimana e lui ne fa due. Bravo! Anche lui è cosciente di essere bravo, al punto che non ha bisogno di chiedere niente a Dio. Non ha bisogno di Dio per andare in paradiso, ci va da sé, con le sue gambe. È Dio piuttosto a essere in debito verso di lui: il paradiso gli è dovuto perché è buono. Sfasato il rapporto con Dio, si sfasa anche quello con gli altri e nasce il confronto, la critica, il giudizio, la condanna.

È una caricatura quella che Gesù ha disegnato con la parabola? Non esistono mica persone così. O forse Gesù vuole smascherare certi atteggiamenti che covano anche nel nostro cuore. Sono proprio sicuro che anche in noi non faccia capolino un po' di autocompiacimento, un senso di superiorità nei confronti di qualcuno?

Vorrei tanto identificarmi con il pubblicano. È sincero il fariseo quando dice di essere ligio alla legge ed è altrettanto sincero l’odiato esattore delle tasse quando dice che ha infranto la legge. Ha frodato? Ha praticato l’usura? Ha tradito il suo popolo vendendosi al nemico? Comunque sia, si riconosce per quello che è: un peccatore. È quello che sono anch’io. Ma mi riconosco davvero sempre come tale, con la sua stessa sincerità? E quando lo riconosco mi abbandono nelle mani di Dio con la sua stessa fiducia?

Spero tutto e solo da Dio? Se sono un peccatore ho bisogno di Dio, come il pubblicano. Da me non mi posso salvare. Gesù è venuto per i peccatori, non per i giusti. È venuto per il pubblicano, è venuto per me. Abbassa chi si è innalzato e innalza chi si è abbassato, come aveva predetto sua Madre: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore... ha innalzato gli umili» (Lc 1, 51-52).

 

giovedì 20 ottobre 2022

Nuraghi

Tra i nuraghi nel cuore della Sardegna non c’è wi-fi. Occorrerà attendere sabato per tornare nell’era contemporanea.

Per il momento vedi https://fabiociardi.blogspot.com/2012/08/il-silenzio-e-la-solitudine-del-nuraghe.html



mercoledì 19 ottobre 2022

Non si può essere cristiani se non si è mariani

 


L’arcangelo Michele lottò col diavolo, lo disarcionò e la sella cadde in mare e si pietrificò diventando un promontorio. Così la leggenda. Sono salito sulla Sella del diavolo, un aspro monte circondato dal mare, con una visione a tutto tondo, in una mattinata di sole luminosissima. Fin sulla cima, una volta sede del tempio di Artemide e ora sormontata da una grande croce di legno. Com’è bello il creato!


Torno al “campo base”, in quartiere Sant’Elia. Nel 1985 Madre Teresa vi aveva mandato le sue suore. L’anno successivo venne lei stessa a visitare il quartiere: era proprio adatto per le sue suore, che ancora oggi sono qui assieme agli Oblati. Madre Teresa fu ospitata nei locali della canonica, in quella che ancora oggi si chiama Via dei musicisti, ma che presto sarà rinominata via Madre Teresa di Calcutta: parola di p. Stefano!  Una targa di pietra sul muro della casa ricorda: “Casa Madre Teresa di Calcutta S. Elia Cagliari, 24-26 settembre 1986”. In quegli anni anche i gen della Sardegna venivano come volontari a dare una mano nel quartiere. Maria Caterina, ora a Roma, mi raccontava che per due estati ha dato ripetizione ai ragazzi…

Pomeriggio alla Madonna di Bonaria, un tuffo nella più pura pietà popolare. Storie e tradizioni sono quelle dei più grandi santuari, così come l’infinita collezione di ex voto, soprattutto di barche e navi salvate dalle tempeste grazie a un frammento della cassa della Madonna. Leggo il discorso programmatico che vi tenne Paolo VI nella sua memorabile visita. Fu in quella occasione che tra l’altro disse e documentò la famosa frase: “Non si può essere cristiani se non si è mariani”.