sabato 28 febbraio 2015

Le condizioni per seguire Gesù

“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8, 34)
 Durante il suo viaggio a nord della Galilea, nei villaggi attorno alla città di Cesarea di Filippo, Gesù domanda ai suoi discepoli cosa pensano di lui. Pietro, a nome di tutti, confessa che egli è il Cristo, il Messia atteso da secoli. A scanso di equivoci Gesù spiega chiaramente come intende attuare la propria missione. Libererà sì il suo popolo, ma in maniera inaspettata, pagando di persona: dovrà molto soffrire, essere riprovato, venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Pietro non accetta questa visione del Messia – se lo immaginava, come tanti altri al suo tempo, come una persona che avrebbe agito con potenza e forza sconfiggendo i Romani e mettendo la nazione di Israele al suo posto giusto nel mondo – e rimprovera Gesù, che lo ammonisce a sua volta: «Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (cf 8, 31-33).
Gesù si rimette in cammino, questa volta verso Gerusalemme, dove si compirà il suo destino di morte e risurrezione. Ora che i suoi discepoli sanno che andrà a morire, vorranno ancora seguirlo? Le condizioni che Gesù richiede sono chiare ed esigenti. Convoca la folla e i suoi discepoli attorno a sé e dice loro:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”

Erano rimasti affascinati da lui, il Maestro, quando era passato sulle rive del lago, mentre gettavano le reti per la pesca, o al banco delle imposte. Senza esitazione avevano abbandonato barche, reti, banco, padre, casa, famiglia per corrergli dietro. Lo avevano visto compiere miracoli e ne avevano ascoltato le parole di sapienza. Fino a quel momento lo avevano seguito animati da gioia ed entusiasmo.
Seguire Gesù era tuttavia qualcosa di ancor più impegnativo. Adesso appariva chiaro che significava condividerne appieno la vita e il destino: l’insuccesso e l’ostilità, perfino la morte, e quale morte! La più dolorosa, la più infamante, quella riservata agli assassini e ai più spietati delinquenti. Una morte che le Sacre Scritture definivano “maledetta” (cf Deut 21, 23). Il solo nome di “croce” metteva terrore, era quasi impronunciabile. È la prima volta che questa parola appare nel Vangelo. Chissà che impressione ha lasciato in quanti lo ascoltavano.
Adesso che Gesù ha affermato chiaramente la propria identità, può mostrare con altrettanta chiarezza quella del suo discepolo. Se il Maestro è colui che ama il suo popolo fino a morire per esso, prendendo su di sé la croce, anche il discepolo, per essere tale, dovrà mettere da parte il proprio modo di pensare per condividere in tutto la via del Maestro, a cominciare dalla croce:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”

Essere cristiani significa essere altri Cristo: avere «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù», il quale «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 5.8); essere crocifissi con Cristo, al punto da poter dire con Paolo: «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20); non sapere altro «se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2, 2). È Gesù che continua a vivere, a morire, a risorgere in noi. È il desiderio e l’ambizione più grande del cristiano, quella che ha fatto i grandi santi: essere come il Maestro. Ma come seguire Gesù per diventare tali?
Il primo passo è “rinnegare se stessi”, prendere le distanze dal proprio modo di pensare. Era il passo che Gesù aveva chiesto a Pietro quando lo rimproverava di pensare secondo gli uomini e non secondo Dio. Anche noi, come Pietro, a volte vogliamo affermare noi stessi in maniera egoistica, o almeno secondo i nostri criteri. Cerchiamo il successo facile e immediato, spianato da ogni difficoltà, guardiamo con invidia chi fa carriera, sogniamo di avere una famiglia unita e di costruire attorno a noi una società fraterna e una comunità cristiana senza doverle pagare a caro prezzo.
Rinnegare se stessi significa entrare nel modo di pensare di Dio, quello che Gesù ci ha mostrato nel proprio modo di agire: la logica del chicco di grano che deve morire per portare frutto, del trovare più gioia nel dare che nel ricevere, dell’offrire la vita per amore, in una parola, del prendere su di sé la propria croce:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”

La croce – quella di “ogni giorno”, come dice il Vangelo di Luca (9, 23) – può avere mille volti: una malattia, la perdita del lavoro, l’incapacità di gestire i problemi familiari o quelli professionali, il senso di fallimento davanti all’insuccesso nel creare rapporti autentici, il senso di impotenza davanti ai grandi conflitti mondiali, l’indignazione per i ricorrenti scandali nella nostra società… Non occorre cercarla, la croce, ci viene incontro da sé, forse proprio quando meno l’aspettiamo e nei modi che mai avremmo immaginato.
L’invito di Gesù è di “prenderla”, senza subirla con rassegnazione come un male inevitabile, senza lasciare che ci cada addosso e ci schiacci, senza neppure sopportarla con fare stoico e distaccato. Accoglierla invece come condivisione della sua croce, come possibilità di essere discepoli anche in quella situazione e di vivere in comunione con lui anche in quel dolore, perché lui per primo ha condiviso la nostra croce. Quando infatti Gesù si è caricato della sua croce, con essa ha preso sulle spalle ogni nostra croce. In ogni dolore, qualunque volto esso abbia, possiamo dunque trovare Gesù che già lo ha fatto suo.
Igino Giordani, vede in proposito l’inversione del ruolo di Simone di Cirene che porta la croce di Gesù: la croce «pesa di meno se Gesù ci fa da Cireneo». E pesa ancora di meno, continua, se la portiamo insieme: «Una croce portata da una creatura alla fine schiaccia; portata insieme da più creature con in mezzo Gesù, ovvero prendendo come Cireneo Gesù, si fa leggera: giogo soave. La scalata, fatta in cordata da molti, concordi, diviene una festa, mentre procura un’ascesa» (La divina avventura, Città Nuova, Roma 1966, p. 149ss).
Prendere la croce dunque per portarla con lui, sapendo che non siamo soli a portarla perché lui la porta con noi, è relazione, è appartenenza a Gesù, fino alla piena comunione con lui, fino a diventare altri lui. È così che si segue Gesù e si diventa veri discepoli. La croce sarà allora davvero per noi, come per Cristo, «potenza di Dio» (1 Cor 1, 18), via di risurrezione. In ogni debolezza troveremo la forza, in ogni buio la luce, in ogni morte la vita, perché troveremo Gesù.


venerdì 27 febbraio 2015

I conflitti e la cultura della misericordia

Un pomeriggio con la Rivista
Unità e Carismi
Dialogo su:

I CONFLITTI E LA CULTURA DELLA MISERICORDIA

Lunedì 2 marzo 2015:
dalle 16 alle 18:30
Roma, via degli Scipioni 265, 1° piano
Fermata Metro Lepanto

Il coraggio di affrontare i conflitti, senza voltare la faccia fingendo di non vederli.
La misericordia come atteggiamento imprescindibile davanti al dilagare di piccoli o grandi violenze, di conflitti, anche nella vita quotidiana.

Hanno confermato la loro partecipazione:
- Pasquale Ferrara, diplomatico e attuale Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze, esperto in relazioni internazionali;
- Gigi Avanti, consultore familiare, esperto di problematiche della vita famigliare;
- Alessandro Partini o.f.m., psicologo: affronterà il tema del conflitto nelle comunità religiose;
- Aglaya Jimenez Turati, dottoranda alla UPS sulla riconciliazione nazionale avviata in Sudafrica, per superare la piaga dell’apartheid e del razzismo;
- Andrea Wodka c.s.s.r., preside dell’Alfonsianum: analizzerà la cultura della misericordia nella prospettiva biblica;
- Michele Zanzucchi, direttore del Gruppo editoriale Città Nuova: illustrerà la visione di papa Francesco e il suo impatto mediatico sull’argomento.

Modererà lo scambio don Mauro Mantovani s.d.b., decano della facoltà de Scienze della Comunicazione Sociale della UPS, che analizzerà la tematica dal punto di vista dei mass media.

giovedì 26 febbraio 2015

Le religioni: terreno di incontro o scontro tra popoli?



I magici Dialoghi a Sant’Eustachio, oggi hanno visto a confronto Pasquale Ferrara, Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e diplomatico, e Abdellah Redouane, Segretario Generale Centro islamico Culturale d'Italia.
L’attentato al giornale Charlie Hebdo e al supermercato kosher di Parigi, i massacri di Boko Haram in Nigeria, la crociata dell’Is…sono solo alcuni degli episodi più recenti che fanno parlare di una guerra in atto tra Occidente cristiano e Medio Oriente musulmano. Ma l’Occidente, con 25 milioni di cittadini musulmani, è proprio cristiano? E il Medio Oriente, con i cristiani che sono lì prima ancora dei musulmani, è proprio musulmano? Quanto più complessa la situazione.
Ed è proprio vero che le religioni sono “motori di guerra”? E nel caso dell’islam radicale è la religione la motivazione fondamentale del conflitto? O non piuttosto la conquista del potere, dell’espansione economica, dando all’ideologia una giustificazione religiosa?
Non continuano le religioni ad avere un ruolo centrale nell’indicare le questioni strategiche, quali lo sviluppo e il modello di sviluppo, il rispetto reciproco tra le identità?
Le molte persone presenti e il dialogo che ne è scaturito dicono la voglia di capire, di andare oltre i luoghi comuni, di sperare.
Io ho trovato posto in una navata laterale, che mi consentiva di intravedere la statua della Madonna e non ho potuto fare a meno di pensare che era ebrea, che è la madre di Gesù, che è nominata molte volte nel Corano e venerata dai musulmani. Che non sia proprio lei a mettere insieme noi seguaci testardi e bellicose di queste tre religioni?


mercoledì 25 febbraio 2015

Ma insomma, erano vegetariani o no i cristiani di Roma?

Le presunte catene di Paolo nella prigionia a Roma

La mia risposta sui primi cristiani “vegetariani” di Roma
(http://fabiociardi.blogspot.it/2015/02/ma-i-primi-cristiani-di-roma-erano.html)
 non ha soddisfatto:

Grazie della risposta, mi permetto dilungarmi sulla questione, quindi se lei ha pazienza mi piacerebbe avere il seguente chiarimento: nel testo della mia Bibbia (in lingua corrente Ed. Elle. Di. Ci del 1985) sempre in Rm 14.1 Paolo afferma ...”uno per esempio, crede di poter mangiare di tutto, invece un altro che è debole nella fede mangia soltanto verdura (*)”.
L’asterisco (*) a piè di pagina spiega che non si tratta di “vegetariani” ma di gente che vuole evitare di mangiare carne perché questa potrebbe essere stata offerta prima agli idoli.
Alla luce di quanto affermato sulla Bibbia ritengo che usare oggi il termine “vegetariano” abbia tutto un altro significato.
Se il fine della lettera di Paolo ai Romani è la tolleranza fra chi è debole e chi è forte, perché evidenziare il “debole” con termini che oggi hanno un  significato diverso?

Ecco a risponderle subito, a meno di un'ora, dalla sua.
L’interpretazione della Traduzione in lingua corrente da lei citata è riduttiva. Non si trattava soltanto di non mangiare carne nel timore che fosse immolata agli idoli. Quello dei “deboli nella fede”, come li definisce Paolo, era tutto un complesso di usanze che riguardavano un regime alimentare che includeva non solo il non mangiare carne, ma anche l’astensione dal bere vino (cf. 14, 21), e questo non aveva niente a che fare con le carni immolate agli idoli. Inoltre queste usanze riguardavano anche l’osservanza di un determinato calendario festivo (cf. 14, 15). Da notare che a Roma, in quel tempo, nell'ambiente ebraico, non mancavano certo mecellerie kosher, dove si poteva essere sicuri di mangiare carni uccise secondo le tradizioni mosaiche.
Via Lata: possibile luogo della prigionia di Paolo a Roma
Forse le tradizioni dei Romani a cui Paolo si riferisce avevano una provenienza dal mondo pagano, come ad esempio i Pitagorici o altri filosofi stoici. Ma più presumibilmente si faceva riferimento a tradizioni bibliche. Basti pensare al racconto di Daniele, il quale, per non contaminarsi a una mensa pagana, rifiutò i cibi e il vino offerti da Nabucodonosor e chiese da mangiare solo legumi e da bere solo acqua (cf. Dn 1,8-16). Nell’apocrifo Testamenti dei 12 patriarchi, si legge: “Vino e carne non mangiai fino alla mia vecchiaia” (Test. Giud. 15,4); “Non bevvi né vino né bevanda inebriante, la carne non entrò nella mia bocca, nessun cibo appetitoso mangiai, ma soffrivo per il mio peccato, che è stato grande come non ce n’è stato un altro in Israele” (Test. Rub. 1,10). Anche nel mondo giudaico dei Terapeuti, in Egitto, è attestata la pratica dell’astinenza dalle carni.
In ogni caso Paolo considera certe pratiche come una debolezza nel modo di vivere la fede. In Col 2,16-23 astensioni del genere sono definite senza mezzi termini come “prescrizioni e insegnamenti di uomini [...] che servono solo per soddisfare la carne” (Col 2,22-23). “Insegnamenti di uomini”, quindi filosofie che possono essere degne di stime, ma che non hanno a che fare con il cristianesimo: Gesù, riguardo ai cibi, ha detto chiaramente: «“Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?”. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7, 18-19).
Capisco comunque la suscettibilità odierna e quindi non entro in merito. Siamo in effetti in tutto un altro contesto.
Comunque penso non si possa impedire di usare il termine “vegetariano” a indicare semplicemente una persona che mangia soltanto vegetali, per il semplice fatto che oggi questo termine ha anche altre accezioni: la molteplicità delle accezioni non implica l’abolizione di una a favore dell’altra. Ho usato il termine con assoluta normalità, partendo dal semplice significato etimologico del vocabolo. Mi dispiace di non aver tenuto presente una certa sensibilità attuale.

martedì 24 febbraio 2015

Fratel Giuseppe D'Orazio e san Giuseppe Benedetto Labre

Fratel D'Orazio con i Fratelli Oblati

Qualche volta vi è capitato di vedere in giro per Roma san Giuseppe Benedetto Labre? Se sì, non si tratta di lui, perché è morto due secoli fa: http://fabiociardi.blogspot.it/2014/09/passeggiando-per-roma-il-barbone-santo.html
Se lo avete visto comunque forse non si è trattato di una apparizione, avete semplicemente visto un suo omonimo, Fratel Giuseppe D'Orazio.
Come il santo clochard, Fratel Giuseppe se ne va ogni giorno pellegrino di chiesa in chiesa, accende una candela, colleziona immaginette, recita rosari. Ma va anche a trovare i parenti dei missionari su e giù per l’Italia. E quando i missionari partono, c’è sempre per ognuno di loro l’immaginetta di un santo con sotto un biglietto verde statunitense. Ricorda per nome ogni persona incontrata.
La sera, quando noi andiamo a letto lui inizia a passeggiare in cappella, fino alle ore piccole (salvo poi recuperare la mattina…) e chissà che cosa si dicono lui e la sua Madonna del Buon Consiglio (davanti alla quale accende perennemente un lume e porta fiori) e il Santissimo…
Ci sente benissimo, senza bisogno di apparecchi: sente anche quello che non dovrebbe sentire e fa finta di non sentire quel che non vuol sentire. Ci vede benissimo senza occhiali e vede anche quello che non dovrebbe vedere e fa vinta di non vedere quello che non vuol vedere.
Guardiano fedele della casa, che ha iniziato ad abitare 65 anni fa, prima ancora che fosse inaugurata, oggi compie 95 anni. Ad multos annos!


lunedì 23 febbraio 2015

Ma i primi cristiani di Roma erano vegetariani?


Continuano le perplessità sul mio commento alla parola di vita. Questa viene da Bolzano:

Mi rivolgo a lei nella speranza di dipanare dei forti dubbi che ho da diversi giorni dopo aver letto il testo della Parola di Vita di febbraio.
Premetto che sono una vegetariana quindi sono andata a vedere sulla Bibbia il testo riguardante la lettera di Paolo ai Romani (15,7) non trovando riferimenti ai vegetariani mi è venuto il forte dubbio che, chi ha redatto il testo abbia arbitrariamente aggiunto questo termine come se fosse stato Paolo ad averle spiegate, mi chiedo quindi dove – nella Bibbia – posso trovare una chiara risposta a quanto affermato oppure si tratta di una libera interpretazione di chi ha scritto la Parola di Vita?
Al punto 15,9 Paolo parla di pagani (cioè infedeli) mi domando se davvero intendesse includere anche i vegetariani.
Spero tanto di ricevere una risposta chiara a questo quesito e nell’attesa porgo cordiali saluti.

Rispondo volentieri.
Non si può isolare un versetto della Scrittura dal suo contesto. Nel caso della Parola di vita di febbraio occorre leggere tutta la pericope che va dal capitolo 14,1 a 15,13, dove di parla del contrasto tra quanti erano considerati "forti" e quanti erano considerati "deboli", senza che questi due termini, usati per indicare due gruppi di cristiani, siano indice di una valutazione positiva o negativa. I cosiddetti "forti" sono quelli che pensavano di poter mangiare di tutto, mentre i cosiddetti "deboli" sono quelli che mangiavano solo legumi: in greco lachanon = verdura, ortaggi (Rm 14,2).
Non si tratta quindi di una mia aggiunta o interpretazione arbitraria, ma del riferimento esatto al testo. Di mio c'è che ho chiamato "vegetariani" quelli che secondo il testo "mangiano solo legumi" (leggo sul dizionario della lingua italiana Oli- Devoto: "Vegetariano, sostantivo maschile. Che limita la propria alimentazione a cibi vegetali").
Mi astengo assolutamente da ogni giudizio riguardante le scelte vegetariane, in conformità a quanto chiedeva san Paolo ai Romani: "Chi mangia (di tutto) non disprezzi colui che si astiene (mangiando soltanto legumi); e chi si astiene non sottoponga a giudizio colui che mangia" (Rm 14,3).
Riguardo a Rm 15,9 il testo non ha niente a che fare con la distinzione tra "deboli" e "forti" (due gruppi di cristiani distinti da usanze alimentari), ma tra "circoncisi" e "incirconcisi" (due gruppi di cristiani distinti per provenienza, i primi dal mondo ebraico i secondi da quello pagano, divenuti entrambi cristiani). Io appartengo al gruppo degli incirconcisi, quindi dei cristiani provenienti dal paganesimo; non so se anche lei, oppure se lei proviene dal mondo ebraico.
Spero di aver risposto alla sua domanda.
Allora, da buoni cristiani, sia che proveniamo dal mondo ebraico o da quello pagano, io che mangio carne (una, due volte la settimana) non giudicherò lei che non la mangia e lei non giudicherà me, "senza voler entrare a discutere le opinioni", come invita a fare Paolo (Rm 14,1). Infatti neppure Dio ci giudica. Dobbiamo piuttosto accoglierci l'un l'altra.


domenica 22 febbraio 2015

Le COMI: il volto femminile degli Oblati



“Nel 1948 ebbi la nomina di Direttore Nazionale dell’Associazione Missionaria di Maria Immacolata – AMMI -, formata da laici, uomini e donne. Vedendo i vari gruppi sparsi in tutta Italia, mi resi conto che alcuni vivevamo una spiritualità tipicamente missionaria. Decisi di organizzare un convegno a Roma, nel settembre 1950”. Fu così che alcune di quelle ragazze gli chiesero: “Vogliamo essere come gli Oblati”. “Questa richiesta coincideva con un mio desiderio segreto… Abbozzai un piano spirituale e lo proposi durante il loro ritiro del 18-22 agosto 1951, a Firenze… Così, il 22 agosto 1951, festa del Cuore Immacolato di Maria, nella basilica dell’Annunziata a Firenze, 18 fecero la prima consacrazione nel segno di Maria e del suo sì. È questa la data e il luogo teologico della nascita delle Sorelle Oblate… configurato come Istituto Secolare, assumendo il nome di Cooperatrici Oblate Missionarie dell’Immacolata”.

Così racconta padre Gaetano Liuzzo, fondatore dell’Istituto secolare delle COMI. Oggi sono io l’Assistente ecclesiastico dell’Istituto, chiamato a condividere l’avventura del cammino di un gruppo carismatico che si presenta come “volto femminile degli Oblati”! in questi tre giorni ho partecipato al convegno invernale che ha racconto una quarantina di membri. Un gruppo piccolo, ma che vive per la Chiesa; una famiglia dispersa per tutta l’Italia, l’Uruguay, l’Argentina, il Congo, ma unita; donne di tutte le età che testimoniano la giovinezza perenne del Vangelo.


sabato 21 febbraio 2015

Il cantico delle creature di Padre Vigne


Il SOLE continuamente ci dice:
“Ti do la mia luce perché tu ami
Colui che l’ha fatta”.
Le STELLE cantano:
“Testimoniamo la potenza di Dio,
le sue infinite perfezioni
perché tu lo ami”.
La TEMPESTA, i lampi, i tuoni, le piogge e i venti,
ognuno a suo modo, ripete:
“Ama Colui che ti ha creato,
non lasciarti invadere dalla durezza del cuor e dall’indifferenza”.
La TERRA e tutto ciò che contiene ripete:
“È per te che sono stata fatta,
ama Colui che mi sostiene, ama Colui che ti custodisce.
Quando produco è per il tuo sostentamento.
Ama Colui che sempre agisce in me per farti del bene”.
L’ARIA ci dice:
“Senza di me non potresti vivere:
non mi vedi eppure ti sono intima e penetrante più di te a te stessa.
Ricordati che Dio nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo.
È lui che mi ha creata per te!”
Il FUOCO dice: “L’amore è un fuoco,
ama Dio! La sua misericordia ti aspetta!
Salgo verso di Lui; amalo!”
L’acqua ci ripete:
“Esisto solo per servirti.
Ama dunque Colui che ti ama, Colui che cancella ogni cosa.
Va’ verso il tuo centro, scorri verso il mare immenso…
Verso il tuo Dio!”
I pensieri che noi abbiamo, le parole che ascoltiamo,
tutto ciò che è in noi e fuori di noi,
tutto grida: “Ama, ama!
Ama il tuo Creatore! Ama il tuo Dio!
Ama il Padre tuo! Ama il tuo redentore”.

Così il beato Pietro Vigne. Abbiamo letto questo suo testo oggi pomeriggio, durante la celebrazione dei 300 anni da quanto egli ha fondato le Suore del SS. Sacramento. Ho avuto la gioia di esporre la sua spiritualità davanti a tanti persone incantate dalla bellezza del carisma che Dio ha risposto in questo santo del 1700, ancora vivo nelle sue suore…


venerdì 20 febbraio 2015

La casa di apa Pafnunzio


Ogni mattina apa Pafnunzio era solito iniziare la giornata rivolgendosi alla Madre di Dio. Dopo averle ricordato che era sua Madre, la supplicava di venire nella sua casa, come aveva fatto il discepolo
 prediletto quando l’aveva presa con sé.
“Verrai anche a casa mia? – ripeté con l’abituale litania.
Non è bella né adorna.
Sarai tu a pulirla e a farla bella
Come solo una madre sa fare”.
Quella mattina, quando ebbe terminato la preghiera, gli venne spontaneo domandarsi:
“Qual è la mia casa?”
L’invito rivolto alla Madre era sempre stato quello a entrare dentro di sé. Non era l’interiorità del cuore la sua casa? Non gli aveva insegnato, la Madre Chiesa, parafrasando le parole del centurione di Cafarnao, a chiedere: “Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa…”? Era quella la sua casa, nella quale sapeva che il Signore sarebbe voluto entrare per cenare con lui e prendervi stabile dimora. Era per questo motivo che chiedeva alla Madre di precedere e preparare l’avvento del Signore.
“Qual è la mia casa?”, si domandò ancora una volta quella mattina.
Non era forse anche la laura che raccoglieva la comunità dei fratelli? Perché non chiedere a Maria che venisse anche in quella casa, che era casa sua?. Gesù non voleva infatti rendersi presente anche tra i due, o i tre o i sette, quanti erano loro monaci?
Si ricordò della casa che aveva lasciato al villaggio per seguire la chiamata del Signore. Non era più la sua casa. O lo era ancora? Perché non chiedere a Maria di andare anche là a preparare la venuta del Signore?
Pensò ad Alessandria, la grande città. Egli oramai era cittadino del cielo. Ma non rimaneva pur sempre fratello degli uomini e delle donne della sua terra? Non voleva il Signore fare di quel popolo il suo popolo? Anche quella era la sua casa. Poteva dunque estendere la sua preghiera a Maria perché preparasse in Alessandria la strada al Signore.
In quante altre città, pensò più tardi apa Pafnunzio, Dio vuol venire ad abitare e brama porre la sua dimora. Gli sembrò che la terra intera, con la moltitudine di lingue e popoli diversi, fosse una sola famiglia, una sola casa: la sua casa.
Il giorno seguente tornò a pregare con le parole di sempre:
“Verrai anche a casa mia?
Non è bella né adorna.
Sarai tu a pulirla e a farla bella
Come solo una madre sa fare”.
Le parole erano quelle di sempre.
La casa si era dilatata all’infinito.


giovedì 19 febbraio 2015

Ma l’apostolo Paolo è stato in Spagna?


Il cambio di autore della parola di vita, da Chiara Lubich a un ignoto Fabio Ciardi, non è né indolore né pacifico. Le reazioni pro e contro sono tante.
Mi giungono anche domande di chiarificazioni. Eccone ad esempio una:
Il commento alla P.d.V. inizia dicendo che dopo Roma s. Paolo voleva proseguire per la Spagna. Forse è stato un "refuso". Non riesco a capire come san Paolo potesse pensare di proseguire per la Spagna (visto che era destinato a Roma poiché si era appellato a Cesare) e visto che comunque dei militari romani credo lo tenevano sotto controllo, in attesa del suo giudizio.

Risposta semplice: Quando Paolo scrive ai Romani non è ancora prigioniero.
Nel Capitolo 15 (v. 25-28) della lettera presenta ai Romani il suo progetto: “Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella comunità (...) Fatto questo e presentato ufficialmente ad essi questo frutto, andrò in Spagna passando da voi”.
Se questo era il suo progetto di viaggio è presumibile che quando, dopo due anni di carcerazione a Roma, è stato liberato, sia andato in Spagna.


mercoledì 18 febbraio 2015

Lontano dagli occhi: le sofferenze nascoste


Qui nella città di Zamboanga viviamo momenti strazianti. La pace non è stabile attorno a noi. Nel mese scorso, dopo la visita del Santo Padre, ci sono 44 soldati uccisi brutalmente dai ribelli nel nord del Mindanao. Qui in Zamboanga stiamo sperimentando l’allerta massima, per cui viviamo sotto la paura di essere attaccati dai ribelli.
Per quanto riguarda i miei bambini, ringrazio Dio perché stanno bene, stanno crescendo sotto la Sua Divina provvidenza. Il mio lavoro terminerà a marzo, dopodiché perderò il mio posto di lavoro, non avendo i soldi per terminare la mia preparazione.
Mi trovo in una situazione troppo difficile. Ho tanto bisogno aiuto. Mio marito, che fa servizio taxi con il triciclo, guadagna soltanto il minimo per il nostro sostentamento quotidiano, e tante volte ci manca anche quello.

È quanto mi scrive una mia ex alunna dal sud delle Filippine, una regione lontana dagli occhi e quindi lontana dal cuore. I riflettori sono puntati altrove, giustamente: Medio Oriente, Libia, Ucraina, Nigeria… Così ci sfugge tanta di quella micro sofferenza diffusa che tocca piccole famiglie e persone sole che sperimentano la fragilità e la precarietà del vivere umano. Possiamo almeno far sentire la nostra vicinanza, non farle sentire sole. A volte basta un gesto, una preghiera…

martedì 17 febbraio 2015

La biodiversità dell’OMI (Organizzazione a Movente Ideale – Oblati di Maria Immacolata)


Come ogni anno eccoci a Santa Maria in Campitelli
per ricordare l'approvazione delle Regola degli OMI
In questo 17 febbraio, anniversario della approvazione della Regola OMI (1826), casca proprio bene l'editoriale che Luigino Bruno ha scritto sull'Avvenire domenica scorsa. 
Eccone alcuni stralci con le mie brevi chiose in corsivo:

Molte imprese e organizzazioni… sono l’emanazione della personalità, delle passioni, degli ideali di una o più persone, che in quella loro organizzazione mettono e incarnano le parole più alte e i progetti più grandi della loro vita.
È così che sono nati gli OMI (Oblati di Maria Immacolata)

Queste realtà, se vogliono durare oltre la vita del fondatore, hanno un bisogno vitale di membri creativi e innovativi. Ma una volta che queste organizzazioni e comunità crescono e si sviluppano, chi le ha generate finisce per dar vita a strutture di governo che impediscono l’emergere di nuova creatività, e così danno vita al loro declino. È questa una legge fondamentale di movimento della storia: la prima creatività che genera organizzazioni e comunità a un certo punto inizia a produrre al suo interno gli anticorpi per proteggersi da nuove creatività e innovazioni che sarebbero essenziali per farle continuare a vivere.
È il rischio che corrono anche gli Oblati dopo 200 anni di storia

Per timore di annacquare, contaminare o deteriorare la purezza originaria della missione della comunità-organizzazione, vengono scoraggiate le persone dotate di maggiore creatività perché percepite come una minaccia per l’identità… Si confonde il nucleo immutabile dell’ispirazione originaria con la forma organizzativa storica che esso ha assunto nelle fasi di fondazione, e non si comprende che la salvezza dell’ispirazione originaria consisterebbe nel cambiare le forme per restare fedeli alla sostanza del nucleo originario.

Per questo sto organizzando un grande Congresso mondiale, che si terrà simultaneamente il 8 punti del pianeta, intercorressi telematicamente tra di loro. Il Congresso avrà come tema “Il carisma oblato in contesto”, così da prendere coscienza dei grandi cambiamenti avvenuti in questi anni, della grande diversità nei modi di vivere la stessa vocazione, della creatività nell'incarnazione in mondo e in modi diversi: elementi che occorre incrementare per rimanere vivi e propositivi.

I sintomi di questa malattia sono molti…  Quello più profondo è una carestia di eros, di passione e di desiderio, che si manifesta in una accidia organizzativa collettiva… L’unica vera possibilità perché un albero che ha portato buoni frutti (l’OMI, cioè un’organizzazione a movente ideale) possa continuare a vivere e a fruttificare è diventare frutteto, bosco, foresta. 
Mi fa piacere scoprire che OMI, oltre che per Oblati di Maria Immacolata, sta per Organizzazione a Movente Ideale. Proprio quello che vogliamo.

Una OMI può morire per sterilità, ma può morire anche diventando qualcosa che non ha più nulla del DNA e degli ideali del fondatore… senza più alcun rapporto col primo DNA carismatico.
Che missione grande mi è stata affidata dalla Congregazione degli OMI: promuovere gli studi sulla nostra storia, la nostra spiritualità, il carisma, l’identità… il DNA! e suscitare eros, passione, desiderio... A volte mi sento come un fuscello in mezzo all'oceano.

La saggezza di governo… sta nel far sì che le persone creative possano svilupparsi nella loro diversità, non trasformandole in ancelle al solo servizio del carisma del leader. Se infatti, non si valorizzano le diversità e si orientano tutti i talenti migliori verso una cultura monista tutta tesa allo sviluppo dell’organizzazione, la OMI finisce per perdere biodiversità, fecondità, e si avvia al declino.
Evviva la biodiversità degli OMI (Oblati di Maria Immacolata)

lunedì 16 febbraio 2015

Il miracolo di ogni giorno

“Non è miracolo soltanto la salute ritrovata; miracolo è la salute. Non è miracolo soltanto la moltiplicazione dei pani; miracolo è il pane quotidiano. Il sole che sorge, sempre puntuale, è miracolo e i colori del suo tramonto. Miracolo il fiore tra l’erba e lo stelo d’erba, il grano che germoglia e la foglia che cade. Miracolo è l’amico vicino e l’affetto materno, il nascere, il vivere e il morire. Non è miracolo soltanto lo straordinario; miracolo è l’ordinario”.
Così scrivevo anni fa nel libro “I racconti di Cafarnao”.

Oggi, leggendo il mio solito commento al vangelo del giorno, ho ritrovato lo stesso pensiero in sant’Agostino, espresso come lui solo sa fare: “Ammira le meraviglie di Dio e risvegliati. Ti sai stupire delle novità. Sono più importanti delle cose che vedi abitualmente? Gli uomini rimasero attoniti del fatto che il Signore nostro Gesù Cristo avesse saziato tante migliaia di persone con cinque pani (Mt 14,19ss), e non si meravigliano che con pochi grani i campi si riempiono di messi. Gli uomini notarono fatta vino quella che era acqua e rimasero sbalorditi (Gv 2,19); Che avviene di diverso nei riguardi della pioggia a contatto con le radici della vite? E' sempre colui che fece quello ad operare anche questo…” 
È il miracolo di ogni giorno, ed ogni giorno è un miracolo. Basta avere occhi per vedere.

domenica 15 febbraio 2015

Carisma o patrimonio dell’Istituto?


Parlo così tanto di carismi che da un lettori mi è pervenuto un quesito:
Riguardo al concetto di carisma bisogna attenersi al Canone 578 del Codice del 1983, dove invece di carisma si parla di "patrimonio dell'istituto": "L'intendimento e i progetti dei fondatori, sanciti dalla competente autorità della Chiesa, relativamente alla natura, al fine, allo spirito e all'indole dell'istituto, così come le sane tradizioni, cose che costituiscono il patrimonio dell'istituto, devono essere da tutti fedelmente custoditi"
La relazione tra i due concetti è una relazione pacifica, logica, accettata, oppure è una relazione soggetta a critiche, incomprensioni, tra coloro che non vogliono parlare di carisma e preferiscono parlare di "patrimonio dell'istituto" da una parte, e coloro che invece preferiscono parlare di "carisma" e trovano inadeguato il termine "patrimonio dell'istituto" dall'altra?

Innanzitutto il Codice non è l’unico libro della Chiesa: vi sono i libri liturgici, i decreti conciliari, le professioni di fede, i catechismi…
Secondo. Nella Costituzione Apostolica Sacrae Disciplinae Leges, Giovanni Paolo II, promulgatore del Codice, afferma espressamente che “il codice non ha come scopo in nessun modo di sostituire la fede, la grazia, i carismi e soprattutto la carità dei fedeli nella vita della chiesa”. Dal che si deduce che i carismi ci sono! Ma lo sapevamo da ben altre fonti.
Terzo. Il Can. 303 parla esplicitamente del “carisma di un istituto religioso”. L’espressione deve essere proprio sfuggita ai giuristi, nonostante la ferma volontà di non utilizzare il termine carisma: “Le associazioni i cui membri conducono una vita apostolica e tendono alla perfezione cristiana partecipando nel mondo al carisma di un istituto religioso, sotto l'alta direzione dell'istituto stesso, assumono il nome di terzi ordini oppure un altro nome adatto”.
Come sempre sono i laici che ci fanno prendere coscienza che abbiamo un carisma e ce lo restituiscono!
E veniamo alla questione.
Il Codice non può codificare il carisma, altrimenti non sarebbe più carisma, ossia dono libero, imprevisto, gratuito dello Spirito. Se è libero e imprevisto non lo si può imbrigliare in un codice di leggi, pena la sua denaturalizzazione.
Il Codice può soltanto prendere atto e regolare ciò che il carisma produce e che costituisce il “patrimonio dell’Istituto”. Ma da dove nasce il “patrimonio dell’Istituto” se non da una “esperienza dello Spirito”, dal carisma, appunto?

Oggi abbiamo festeggiato il carisma oblato, da cui è nato il patrimonio che continuiamo a custodire e a vivere. Nel 1826, il 17 febbraio, Leone XII approvava l'Istituto e la Regola degli Oblati. Lo ricordiamo ogni anno con gratitudine. Cinque dei nostri giovani studenti hanno rinnovato i loro voti. Lunga vita agli Oblati e al loro carisma!




Prenderci per mano e accompagnarci nelle ore della vita




La nostra solitudine è una realtà della psiche che ci tormenta anche se intorno a noi ci sono persone che ci confortano. Solo la volontà di aprirci agli altri uomini donando qualche cosa di noi senza aspettarci un contraccambio ci circonda di amici che sanno prenderci per mano e accompagnarci nelle ore della vita anche se tristi .Grazie caro padre Fabio, perché anche tu sei uno di questi amici.

Così mi scrive la nostra solita Pierangela, a commento del blog su sant’Eustachio: http://fabiociardi.blogspot.it/2015/02/a-santeustachio-si-vola-vela.html
Grazie Pierangela di questa condivisione.


venerdì 13 febbraio 2015

San Valentino: un milione di innamorati

Sarebbe un fallimento se l’Anno della vita consacrata, indetto da papa Francesco, fosse celebrato nel chiuso dei conventi, quasi riguardasse soltanto suore, frati, religiosi, membri degli istituti secolari e tutta quella selva di persone consacrate dalle mille denominazioni. A volte entrare in questi mondi delle persone “consacrate” dà l’impressione di entrare in una realtà un po’ misteriosa ed esotica.
Inoltre si tratta di una realtà ritenuta piuttosto marginale: che nella Chiesa cattolica la vita consacrata ci sia o non ci sia sembra non abbia una grande rilevanza, ne se può fare a meno. In fondo le persone interessate sono appena un milione, a fronte di un miliardo e trecento milioni di cattolici. La vita consacrata viene considerato un elemento positivo, ma a volte semplicemente decorativo. Difatti i manuali di ecclesiologia, su un 700 pagine ne dedicano sì o no una decina appena a questa realtà: ci sono cose ben più importanti di cui parlare.
Ma cosa sarebbe la Chiesa senza Benedetto e Bernardo, Francesco e Domenico, Ignazio di Loyola e Teresa d’Avila, Angela Merici e Vincenzo de Paoli, Giovanni Bosco e Teresa di Calcutta? Cosa sarebbe la Chiesa senza la santità, senza i carismi di questi grandi santi che continuano ad essere presenti nelle famiglie da loro generate? Che Chiesa povera, fatta solo di strutture, incapace di attrarre.
Assieme alla santità, la vita consacrata tocca la missione stessa della Chiesa. I movimenti religiosi nati dai carismi sono diventati naturali evangelizzatori. Basterà pensare all’invio dei Benedettini in Inghilterra, fino alla penetrazione del cristianesimo in Cina e nel Nuovo Mondo da parte degli Ordini religiosi, all’esplosione missionaria dell’Ottocento, che si estende dall’Africa all’Oceania, alle missioni artiche.

L’Anno indetto da papa Francesco potrebbe essere l’occasione per prendere coscienza del dono che Dio ha fatto e fa alla Chiesa con i carismi. L’annuncio fu dato il 29 novembre 2013, alla fine dell’incontro con 120 Superiori generali, dietro suggerimento della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
Esso è stato pensato nel contesto dei 50 anni del Concilio Vaticano II, e più in particolare a 50 anni dalla pubblicazione del Decreto conciliare Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita religiosa. Iniziato il 30 novembre scorso, l’Anno è scandito da un calendario ricco di eventi e terminerà il 2 febbraio 2016. Gli obiettivi sono enunciati nella Lettera apostolica di indizione (21 novembre 2014): 1) guardare il passato con gratitudine, 2) vivere il presente con passione, 3) abbracciare il futuro con speranza. 
Fin dalla prima riga della Lettera si avverte il coinvolgimento personale del papa: scrive non soltanto come Successore di Pietro, ma come “fratello vostro, consacrato a Dio come voi”. Soltanto Francesco, perché Gesuita, poteva presentarsi come papa fratello. Non si tratta di una “captatio benevolentiae”: tutta la lettera è una sincera condivisione di gioie, problemi, speranze… Il papa è dentro la realtà dei consacrati, espressione di tutti loro.
Ma nella sua lettera si rivolge anche ai laici che, assieme alle persone consacrate, condividono ideali, spirito, missione. Attorno ad ogni Istituto è infatti presente una ricca pluralità di soggetti. È poi la volta dell’intero popolo cristiano “perché prenda sempre più consapevolezza del dono che è la presenza di tante consacrate e consacrati, eredi di grandi santi che hanno fatto la storia del cristianesimo”. Si rivolge inoltre “alle persone consacrate e ai membri di fraternità e comunità appartenenti a Chiese di tradizione diversa da quella cattolica”, perché anche loro partecipino all’iniziativa dell’Anno della vita consacrata, e attira l’attenzione anche al monachesimo di altre religioni.
In una parola è l’invito a vivere questo anno con grande respiro; un anno che dovrà vederci tutti protagonisti di una realtà che ci appartiene.


giovedì 12 febbraio 2015

A Sant’Eustachio si vola (vela)

A Sant’Eustachio si cammiva, si vola… anzi, si veleggia!
Questa sera abbiamo veleggiato con un velista d’eccezione, il livornese Riccardo Bosi che, come vecchio lupo di mare, ci ha incantato con i suoi racconti, fatti di vele, venti, ancore, compagni di viaggio... Altrettanto Loris che si muove con il kayak.

Proprio oggi nella liturgia si è letto il racconto della creazione dell’uomo: è l’inizio del grande viaggio. Prima ancora che iniziasse Dio ha dovuto dare una compagna di viaggio all’uomo: dove sarebbe potuto andare da solo?
Il viaggio dell’Esodo, madre di ogni viaggio, è viaggio di un popolo intero.
Anche Gesù, quando intraprende il grande viaggio che lo porterà a Gerusalemme si crea un gruppo di 12 compagni.
Paolo viaggia con Barnaba, Timoteo, Tito, Silva, Luca…

A noi? Ce lo dice la Lettera agli Ebrei: “Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti…” (12, 1-2). Anche fossimo soli o ci sentissimo soli ad affrontare la vita, non siamo mai soli: nel nostro cammino siamo sempre circondati da un gran numero di testimoni (tutti quelli che ci hanno preceduti nella fede), che ci sono vicini, camminano accanto a noi, ci sostengono, ci incoraggiano, ci accompagnano… 
Buon viaggio!

mercoledì 11 febbraio 2015

A Sant’Eustachio: compagni di viaggio



Che tristezza viaggiare da soli. Si può intraprendere un viaggio per affari, per andare a trovare qualcuno…  e allora si può anche essere soli. Ma un viaggio vero, di quelli che si preparano con cura, che non si dorme la notte prima perché eccitati all’idea della partenza, va intrapreso insieme: il tempo passa più in fretta, ci si aiuta, ci si incoraggia se capita di sbagliare strada, si condividono le nuove scoperte, le gioie, le difficoltà. Guai avventurarsi per mare senza compagni di viaggio. Insieme è più sicuro e la meta è certa.
Sarà questo il tema del dialogo a sant’Eustachio di giovedì prossimo 12 febbraio con Riccardo Bosi che, tra vela e kajak, ho percorso qualche migliaio di miglia, fin da ragazzo. Un viaggio per mare dunque… metafora, come sempre, del viaggio della vita.


martedì 10 febbraio 2015

Religiosi profeti


La settimana scorsa (4-6 febbraio) si è tenuto il consueto incontro annuale dei religiosi al Centro Mariapoli di Castelgandolfo. Sempre un momento di  festa e di profondità, di comunione e di riflessione sulla vita consacrata. Ne è emersa la vocazione tipica della vita consacrata: la profezia e in particolare la profezia della fine: l'unità.

Nella Lettera apostolica per l’Anno della vita consacrata papa Francesco ha scritto ciò che si attende dalle persone consacrate: «che “svegliate il mondo”, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia.
La profezia è vedere e aiutare a vedere con gli occhi di Dio. Leggere e giudicare la storia a partire dal progetto di Dio sulla storia. Far sì che la storia umana cresca fino a coincidere con la storia di Dio. Per far questo occorre conoscere la storia di Dio, conoscere Dio, esserne dentro, farne parte: è il cuore della vita consacrata: “Dio, Dio, Dio”.
Profezia è essere rivolti verso il popolo per parlare di ciò che si è contemplato nell’essere rivolti verso Dio, conoscere la storia umana, esserne dentro, farne parte: è l’invito del papa: vicinanza alla gente, uscire, periferie, i poveri, la carne dell’altro… È il cammino percorso in ogni forma di vita consacrata, che nasce sempre dalla condivisione della “compassione” di Gesù al vedere le folle.


Ma qual è il progetto di Dio sull’umanità? L’unità.
Per noi essere profeti significa capire e condividere il sogno di Gesù, il suo testamento, la sua ultima preghiera: “Che tutti siano uno”. Vivere perché il suo desiderio penetri nella storia umana, così che la storia di incammini verso il suo compimento: Dio tutto in tutti, nell’unità trinitaria. Aiutare la Chiesa a compiere la propria missione di sacramento universale di unità degli uomini tra di loro e con Dio.
Essere profeti significa aver compreso che l’unità è il disegno di Dio e il compimento della storia, che tutta la creazione è incamminata verso l’unità.
Essere profeti significa spendere la propria vita per questo compimento. Questa la nostra fede, il nostro Ideale, l’anelito, il perché della nostra vita.

Il capitolo VI della Lumen gentium, dedicato ai religiosi, è stato letto soprattutto alla luce del capitolo V, sulla universale vocazione alla santità, così che la vita consacrata è stata compresa come espressione della santità della Chiesa.
Non è invece stato letto alla luce del capitolo VII, che parla dell’indole escatologica della Chiesa.
Come religiosi dovremmo far vedere la meta ultima, il cielo, il Paradiso, Dio: è il ruolo di segno escatologico proprio della vita consacrata, la sua profezia.
Anticipare il Cielo sulla terra, farlo vedere possibile, informare tutto dell'unità trinitaria: come in cielo, così in terra.

lunedì 9 febbraio 2015

Reazioni a Crociate incrociate


Mi giungono due reazioni al mio articolo “Crociate incrociate”: http://fabiociardi.blogspot.it/2015/01/crociate-incrociate.html

La prima:
Il tuo “ Crociate incrociate” mi ha lasciato un po’ di amaro nell’anima. Certo, è luminosa la conclusione, là dove ricordi la bella immagine di Papa Francesco sull’unità come realtà “poliedrica” e non “sferica”, con la conseguente opportunità di trasformare le inevitabili posizioni diverse e tensioni in arricchimento reciproco.
L’amaro me lo hanno lasciato i riferimenti che ti offrono l’occasione per tanta conclusione, in particolare il riferimento a Messori che, pur precisando che non ne ha l’intenzione, introduci in quella che alcuni vedono come una campagna per screditare il Papa. Quando lessi l’articolo di Messori che ha poi suscitato non poco putiferio (articolo ripreso da Messori nel suo “Uno strano schiamazzo”), rimasi sì sorpreso dai suoi riferimenti a atti di Papa Francesco che potrebbero prestarsi a valutazioni ambivalenti, ma mi piacque - lo dico sinceramente - quel suo segnalare candidamente che una caratteristica di Francesco è quella di essere “imprevedibile”. Segnalazione accompagnata subito da una bella riflessione sull’occhio col quale il cattolico guarda al “Successore di Pietro”, che è l’occhio della fede, la quale lo rende certo che al Papa, al Vescovo di Roma - prevedibile o imprevedibile - Cristo Gesù ha assicurato l’assistenza del Paraclito, la garanzia della fedele custodia del “deposito della fede”.
Insomma, mi era sembrata bella e opportuna la candida affermazione - che ogni giorno, mi pare, sta sotto i nostri occhi - che Papa Francesco è un Papa “imprevedibile”, imprevedibilità che io percepisco come quella novità che è il segno dell’azione dello Spirito Santo. “Imprevedibilità” che può sorprendere e anche scioccare tanti bravi cattolici - e qui in Canada io lo vedo - ma che, in fondo, è una provvidenziale circostanza che ci fa tutti crescere nella fede, nella fede anche verso quel “carisma” che nella Chiesa è il Papa. E che ci fa molto pregare, portandoci a comprendere, forse con più profondità, quella costante domanda di Papa Francesco: “Per favore, pregate per me”.


La seconda:
Ho letto con piacere il tuo editoriale sull'ultimo Città Nuova: mi piace l'invito alla sinergia e il richiamo alla chiesa poliedrica: che splendore papa Francesco quando sa dare voce a tutti nella chiesa, in un'unità vera che non esclude la differenza ed il confronto.
Certo che però, fra il titolo "Crociate incrociate", la foto di Messori tutto serio, la didascalia sulle "forti critiche", l'articolo rischia di essere letto più come un giudizio su una parte che come un servizio all'unità. Non mi sembra che la redazione abbia reso un buon servizio al tuo lavoro...

Ciò che mi ha mosso a scrivere quel’editoriale è stato l’invito che mi è giunto a sottoscrivere una denuncia contro Messori da inviare alla CEI. Mi era sembrato un gesto inconsulto, una “crociata” inutile contro Messori, alla quale non potevo associarmi. Soltanto allora sono andato a ritroso nella mia lettura dei testi in questione: prima la risposta di Messori a Boff, poi Boff, infine il primo articoli di Messori.
Come ero stato disturbato dalla crociata contro Messori, altrettanto mi ha disturbato la risposta di Messori a Boff per i riferimenti personali “ex frate, amante”, ripetuti più pesantemente nell’articolo “Uno strano schiamazzo”. In Boff mi ha ferito l’accusa a Messori di non essere ancora convertito. Insomma questo andare sul personale.
Se il mio testo lascia l’amaro è perché l’ho scritto come reazione a tutto questo, cadendo forse anch’io, inavvertitamente, nella trappola.