giovedì 30 giugno 2011

San Paolo a Roma: Santa Maria in Via Lata

Un’altra discesa nella Roma sotterranea. Mi dicono che questo è il luogo nel quale san Paolo ha vissuto durante la sua prigionia romana. Ma non era nell’insula di san Paolo alla Regola? No, secondo un’altra tradizione la prigione sarebbe stata proprio qui, in via Lata (via Larga), l’attuale via del Corso.
Nella festa dei santi Pietro e Paolo scendo dunque negli scavi sottostanti la chiesa, fino a raggiungere i resti di un portico o casa romana del primo secolo.
La devozione popolare vi ha venerato la casa di Luca evangelista che qui vi avrebbe scritto gli Atti degli Apostoli, dipinto immagini della Madonna, ospitato Pietro, e accolto Paolo nei due anni di prigionia in Roma. Lasciamo stare, per un attimo le tradizioni e godiamoci gli ambienti. Stanze dopo stanze… Gli scavi non sono ancora completati e si intravedono altri locali. Doveva esserci un mercato rionale, o forse delle taberne. Alla fine del VI° sec., alcuni ambienti dell'antico portico o insula vennero trasformati in una diaconia, probabilmente gestita da monaci della Grecia o della Cappadocia. Nel 2010 il pozzo, a seguito di una ricerca archeologica, ha restituito vari oggetti in ceramica e metallo, e la catena di ferro di circa due metri, che era avvolta alla colonna (quella che teneva prigioniero Paolo?). Un cippo di marmo (cippo funerario romano?) è stato riusato come altare; una tradizione vuole che su questo altare abbia celebrato S. Gregorio. Gli affreschi sono stati asportati e ora custoditi al Museo di Roma.
Non potrebbe essere questo il luogo della seconda prigionia di Paolo? Quella nella quale ci fu veramente il processo, seguito dalla condanna e dalla decapitazione? Vari pannelli ripropongono frasi sulla sua prigionia tratte dalla Lettera a Filemone, ma sono inadatte, perché questa lettera fu scritta molto probabilmente durante un’altra precedente prigionia ad Efeso. Chissà che non siano più appropriate, per quest’ultima prigionia romana, le parole della seconda lettera a Timoteo, che se pure fu scritta da un discepolo Paolo, sembrano tramandare i ricordi di quegli ultimi drammatici momenti che ci mostrano l’apostolo solo, sostenuto soltanto da Luca. Era stato trascinato via d’improvviso e con forza, senza neppure poter prendere mantello e pergamene. Vi si legge: “Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui… Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato, avendo preferito le cose di questo mondo, ed è partito per Tessalònica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me... Venendo, portami il mantello, che ho lasciato a Tròade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato… Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. In questo 29 giugno, nel quale celebriamo il suo martirio, queste parole di Paolo, lette in questo ambiente dove hanno vissuto e pregato generazioni e generazioni di cristiani nel ricordo della sua memoria, mi restituiscono la sacralità dell’esperienza dell’Apostolo, l’eroicità della sua testimonianza e della sua passione per Cristo e per il suo Vangelo di salvezza, e mi invitano a riscegliere Gesù come l’unico Signore, per il quale vale la pena dare anche la vita.

mercoledì 29 giugno 2011

Auguri Santo Padre

Roma questa sera ha tributato i suoi auguri al Papa per il 60° di sacerdozio, con i fuochi d'artificio, lanciati da Castel Sant'Angelo. Visto dal ponte che attraversa il Tevere deve essere stato uno spettacolo straordinario. Visto dalla terrazza di casa mia, è apparso uno spettacolo piccolo piccolo... Cosa può uguagliare lo spettacolo maestoso della cupola di san Pietro? Anche Castel Sant'Angelo sembra scomparire. Le diverse prospettive rendono tutto  relativo...

martedì 28 giugno 2011

Roma è sempre Roma!


Roma è sempre Roma! Anche tornando dal dentista, basta fermarsi per strada, ad esempio a Villa Torlonia, e sei immerso nella storia, nell’arte, nella natura. Un’ora soltanto e vai dalle catacombe ebraiche, a Benito Mussolini che affittò la villa per una lira all’anno, dai Principi banchieri Torlonia che l’avevano costruita, ai musei con i tesori d’arte romana… E poi il parco, il lago… Un’ora soltanto e sono secoli di storia. Roma è sempre Roma! 

lunedì 27 giugno 2011

unità tra carismi

Una visita agli ammalati anziani è sempre un dono, tanto più se si chiama Andrea Balbo!
Sono stato a trovare il nostro padre “Novo” a Saccolongo (Padova). Contentissimo del lavoro che sto facendo per gli Oblati, ma non tralascia di ricordarmi che l’originalità e la novità della nostra esperienza è vivere in unità tra religiosi di carismi diversi!

È giunto un cammento al blog:
Oggi ho letto “Il punto di vista dell'altro” di venerdì 24 giugno 2011. Grazie per queste osservazioni. Mi hanno aiutata ad allargare l'orizzonte.
Il segno della croce prima dei pasti per me era preghiera di ringraziamento e di richiesta per i fratelli bisognosi; non avevo mai pensato a coltivatori, produttori, venditori, ecc. E così anche per ogni partenza: si limitava alla richiesta di protezione per me e per quanti si trovavano in viaggio. Ora potrà estendersi a tutti quanti hanno contribuito alla concretizzazione dei mezzi di trasporto e di ciascuna struttura di servizio, a iniziare dall'estrazione delle materie prime fino ad arrivare alla manutenzione, oltre che alla fruizione. Certo il campo si allarga a dismisura e capisco che la tentazione possa essere quella di ritrarsi per ridurre l'orizzonte e quindi l'impegno. Per farcela, basterà iniziare con poco ed estendere il campo progressivamente. Grazie! Alessandra Chillè

sabato 25 giugno 2011

Michelle Obama e gli Oblati di Soweto

Michelle Obama questi giorni è stata a trovare Mandela in Soweto. Non poteva rimanere sotto silenzio la chiesa centrale di Regina Mundi, tenuta dagli Oblati, con le vetrate che ritraggono Mandela e raccontano la lotta per la libertà, che si è svolta proprio lì attorno. La BBC ha fatto un servizio intervistando il parroco p. Mahlangu, Benedict Mzwandile. Vedi in servizio: http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-13867997

venerdì 24 giugno 2011

Il punto di vista dell'altro

A volte ho l’impressione che più si allargano gli orizzonti del mondo - grazie ai viaggi, ai mezzi di comunicazione, a internet… - più cresce la tendenza all’autoreferenzialità: il mio Paese, il mio partito, la mia squadra di calcio... Il cerchio si rimpicciolisce sempre più fino a ridursi a ciò che penso io, a “me”. Il resto non conta, o meglio, è filtrato dalle mie convinzioni, unico criterio di verità e di giudizio - insindacabile. Ci strozziamo con le nostre stesse mani.
La scelta di Benedetto XVI di dedicare alla preghiera una nuova serie dei famosi discorsi del mercoledì, mi sembra un antidoto contro questa tendenza. Si potrebbe avere l’impressione contraria. Cosa più della preghiera, verrebbe da dire, porta al ripiegamento su stessi, a mettere al centro il proprio io? Non è forse la preghiera una sublime introspezione che rinsalda le convinzioni personali? Non lo è la preghiera cristiana. Il papa ha iniziato le sue conversazioni richiamando il racconto biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo, quasi icona del rapporto con Dio: una lotta, un corpo a corpo da cui non si esce indenni, anzi sconvolti (nel caso di Giacobbe con un nervo a pezzi che lo farà zoppicare per tutta la vita). La preghiera non porta dentro, porta fuori: è un dialogo, un confronto che relativizza se stessi, aprendo verso nuove ragioni, nuovi modi di vedere, quelli dell’altro.
Va da sé che ponendoci a tu per tu con Dio, la preghiera (a condizione che sia sincera!) rimettere in discussione il nostro punto di vista, che si trova a vacillare davanti alla forza stringente e stravolgente del Vangelo. Eppure essa ha la capacità di ridimensionarci anche davanti agli altri. Il segno di croce prima del pasto non è soltanto un grazie a Dio per il “pane quotidiano”; quell’attimo di distanziamento dall’istinto animalesco del mangiare, umanizza il pane che ho davanti e mi fa pensare che proviene da Dio ma anche dal fornaio, dal contadino… Il segno di croce che faccio quando parte l’aereo non è soltanto un affidamento a Dio (mai un atto scaramantico!), è un atto di fiducia anche nel pilota, nel controllore di volo, nel tecnico della manutenzione, e di ringraziamento per chi ha pulito i sedili, per gli assistenti di volo…
L’orizzonte torna ad allargarsi e introduce nel mondo dell’io nuovi criteri di lettura, quelli evangelici, ma anche nuove persone, suscita nuove relazioni, apre a nuove prospettive nel leggere situazioni e problemi. La preghiera mi rende consapevole del punto di vista dell’Altro… e degli altri.

giovedì 23 giugno 2011

San Paolo a Roma: San Paolo alla Regola

Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni. Salpati di qui, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l'indomani arrivammo a Pozzuoli…  Quindi arrivammo a Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio”. È Luca che racconta il suo viaggio con Paolo, lungo la via Appia.
Tre anni prima Paolo aveva scritto ai cristiani di Roma una lettera straordinaria, una sorta di “summa” di tutta la sua dottrina, nella quale esprimeva il “desidero ardente” di comunicare loro “qualche dono spirituale” e di “essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io”. Ma mai avrebbe pensato che vi sarebbe arrivato come prigioniero, per comparire davanti al tribunale dell’imperatore. Era così tanto atteso dai romani che alcuni cristiani gli vennero incontro fino al Forum Appii, un piccolo centro sorto come tappa e luogo di sosta là dove iniziavano le paludi pontine; altri lo aspettavano alle Tre Taverne, a 61 chilometri da Roma, nell’odierna Cisterna di Latina.
Una volta arrivato a Roma dove alloggiò l’Apostolo? Sempre Luca ci racconta che arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia”.

Vogliamo andare a vedere questa camera affittata, dove Paolo rimase per due anni in una sorta di libertà vigilata che gli consentiva tuttavia contatti con i cristiani, in attesa di un processo che non si fece mai, per il mancato arrivo degli accusatori dalla Palestina?
Dobbiamo recarci in uno dei numerosi quartieri popolari dove abitava la grande comunità ebraica di Roma, che contava 40 mila persone! Una città nella città. Non erano confinati in un ghetto, ma secondo l’usanza ebraica amavano raggrupparsi tra di loro. Molti cristiani, benché si fossero staccati da alcuni anni dalla sinagoga e contassero nella propria comunità membri di provenienza non ebraica, rimanevano nei quartieri artigiani e commerciali ebraici.
Il quartiere di Paolo era molto probabilmente tra l’attuale Campo de Fiori e il Tevere. Dobbiamo scendere di due livelli sotto il Palazzo degli Specchi, a 8 metri di profondità dalla quota attuale della strada, che ricalca quell'antico tracciato stradale che fin dall'età repubblicana collegava il Circo Flaminio con la pianura del Campo Marzio. Fin dall'epoca di Augusto la zona era adibita a magazzini ed attività connesse alla vita del Tevere, come la fabbricazione di tende e vele, mestiere che era tra quelli esercitati dagli ebrei stabiliti in questo luogo. Già anni prima Paolo aveva incontrato a Corinto una coppia di ebrei cristiani provenienti da Roma, Aquila e Priscilla, che erano appunto fabbricanti di tende e con i quali si era messo in società. Che Paolo abitasse qui  lo attesta una antica tradizione che, nel IV secolo, con papa Silvestro, ha portato a trasformare in oratorio e poi in chiesa, questo luogo. Ancora oggi, all’interno della chiesa di San Paolo alla Regola, si indica la stanza dell’apostolo.
In questa zona, accanto e sopra agli antichi magazzini di Domiziano, erano state costruite “insulae” di quattro piani di altezza, successivamente distrutte da un vasto incendio. L'insula di S. Paolo ci riporta ai “condomini” di quel tempo: edifici quadrangolari, con cortile interno, sul quale erano posti i corridoi di accesso ai vari locali abitativi: al piano terra botteghe d’artigiani, ai piani superiori gli alloggi.
Eccolo lì, Paolo. Basta chiudere gli occhi e lo si vede ancora, intento a scrivere le sue lettere, a parlare di Gesù giudei e cristiani, a pregare, riposare... Per quanto la sua fosse una custodia preventiva, molto leggera, che gli permetteva una certa libertà di azione, egli probabilmente rimaneva legato con il polso destro al soldato di guardia, secondo quanto prescriveva la custodia militaris romana. Ma la parola di Dio, come scrive in una delle sue lettere, “non è incatenata”.
Luca, sempre negli Atti degli Apostoli, narra che “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui,  annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Erano gli anni 61-63.
E poi? Il racconto termina qui. Probabilmente fu liberato, perché nel 64 Paolo non era più a Roma durante la persecuzione di Nerone; forse si trovava in Spagna o di nuovo in Oriente.
Tornò a Roma prigioniero una seconda volta, per affrontare il martirio.
Ma a Luca non interessa come continua la vita di Paolo. Gli interessa piuttosto raccontare la vita del Vangelo, il cammino della Parola di Dio, seguendo l’itinerario dettato da Gesù stesso, prima di salire al cielo, quando comandò ai suoi apostoli: “di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. Dov’erano i confini della terra? A Roma, centro del mondo antico! Con Roma il cammino del Vangelo aveva raggiunto una meta decisiva.

mercoledì 22 giugno 2011

Escrivá de Balaguer: la santità per tutti


Il nunzio mi ricorda che oggi si celebra la memoria di San Josemaría Escrivá de Balaguer, e mi manda un bellissimo pensiero:

La santità come vocazione e meta per tutti gli uomini e le donne di buona volontà, la santità come la "misura alta" della vita cristiana ordinaria: era l'ideale che San Josemaría aveva annunciato prima sulle strade della Spagna, e poi del mondo, fin dagli anni ’30: "Tienes obligación de santificarte. Tu también. Quien piensa que esta es labor exclusiva de sacerdotes y religiosos? A todos, sin excepción, dijo el Señor: Sed perfectos, como mi Padre Celestial es perfecto" (Camino, 291). Questa è infatti la novità storicamente importante che il carisma di San Josemaría ha portato nella Chiesa: la santità, che si era ritirata dalle strade e dalla vita quotidiana per rifugiarsi nei conventi, con la spiritualità di San Josemaría è ritornata nelle case e nelle strade, in mezzo al mondo. Vivendo ogni attimo la volontà di Dio, ognuno può santificarsi nella propria condizione umana e professionale facendo l'operaio o l'impiegato o la casalinga o il prete. E può così contribuire – secondo il comando del Signore – “a coltivare e a custodire quel giardino dell’Edem” che la terra, come casa degli uomini, è chiamata ad essere (cfr. Gen 2,15).
Nell'insegnamento di San Josemaría ritorna continuamente l'esortazione a mettersi “… por caminos de oración y de Amor” (Camino, Prólogo). “Amor” con la “A” grande, maiuscola, perché l'Amore è Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, comunione trinitaria, che Gesù ha portato sulla terra. Per San Josemaría è evidente che ogni professione e ogni mestiere non sono che l'ambito umano quotidiano in cui ciascuno di noi – da autentici “figli di Dio” (cfr Rom 8,14) – può e deve esercitare l'amore per stabilire con i suoi prossimi rapporti di carità, ossia rapporti divini. E quando questi rapporti diventano reciproci, Gesù si rende presente e la vita del cielo si trasferisce sulla terra, in una famiglia, in una parrocchia, in una scuola, in un ospedale... E’ la Chiesa che nei vari ambiti della vita quotidiana diventa “casa e scuola di comunione”.

martedì 21 giugno 2011

Comunione nella Chiesa

Il titolo non era molto allettante: “Le convenzioni tra il vescovo diocesano e il superiore di un istituto missionario a norma del Can. 790 § 1, 2° del CIC. Prassi della Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata”. Sono andato alla difesa della tesi soltanto per ragioni convenienza, visto che Roberto è il mio superiore. È invece durante la discussione ho scoperto che, dietro questo titolo ostico, è nascosto un tesoro. In definitiva, come è stato spiegato, “L’analisi storica e giuridica fatta nel corso di questa ricerca ha mostrato come il problema dei rapporti tra vescovi e superiori… è l’espressione del fondamentale e sempre vivo rapporto tra dimensione istituzionale (petrina) e dimensione carismatica (paolina) della Chiesa». E si riportano le parole del papa Benedetto XVI: in questi rapporti reciproci «è estranea sia l’idea di isolamento e di indipendenza della comunità religiosa in rapporto alla Chiesa particolare, sia l’idea del suo pratico assorbimento nell’ambito della Chiesa particolare». La presentazione si è conclusa con le sagge parole di Velasio De Paolis: si tratta di «trovare la giusta collaborazione della vita consacrata all’interno della Chiesa, di rispettarla e promuoverla, proprio perché essa è un  dno fatto alla Chiesa che va da tutti rispettato e promosso». La tesi è stata giudicata degna di pubblicazione nella collana giuridica dell’Università Gregoriana. Auguri, Roberto!

lunedì 20 giugno 2011

Maria del Gen Verde

L’istituto “Tra Noi” ha celebrato il decimo anniversario del loro fondatore. Per l’occasione, nel prestigioso Auditorium di via della Conciliazione, il Gen Verde ci ha donato il suo ultimo splendido spettacolo: “Maria”. Ho rivisto, dopo tanto tempo, il Gen Verde nel suo stile più puro: leggero, delicato, elegante, finemente spirituale, mistico. Soprattutto armonioso e coerente nei colori pastello della scenografia e dei costumi, nelle danze, nei canti, nella recitazione. Una contemplazione di Maria alta e insieme sobria, creatura terrena e lieve, divina, vicina, che vive la nostra vita e la vita del Figlio di Dio, radicata nella sua Nazareth e dilatata in tutti i popoli. Ti fa amare Maria e suscita il desiderio di riviverla.

domenica 19 giugno 2011

Ineffabile infinito

Stavo dando un corso in Ucraina. Naturalmente tutto con traduzione. Dopo la prima ora (naturalmente parlo della Trinità), chi mi traduce mi dice. “Mi deve scusare, ma io non posso tradurre la parola Trinità, come lei la usa tante volte; io devo sempre dire la Santissima Trinità”.
Una bella lezione, vero? L’amore dei Tre ci avvolge e ci coinvolge, ci porta dentro di sé e ci dà di vivere la sua stessa vita. Eppure davanti al Mistero – proprio l’infinito indicibile Amore – si deve rimanere in adorazione, consapevoli del nostro niente di fronte al Tutto di Dio  sempre al di là di ogni nostra comprensione. Lui ci comprende in sé, noi non possiamo “com-prenderlo”. Non possiamo rimpicciolirlo. Lui si rimpicciolisce per noi, per amore. E rimane sempre inafferrabile infinito.

Un commento al blog di ieri. Un anno fa ti risposi nel giorno della S.S.Trinità – a proposito del blog nel quale parlavi dell’omelia sulla SS. Trinità – dimostrando il mio rammarico per omelia che avevo ascoltato durante la messa. Oggi finalmente ho ascoltato parole nuove: la Trinità è comunione d'amore, anche noi dobbiamo vivere la vita di Dio amandoci, facendo fra noi comunione anche fra razze diverse, in questa comunità ci sono cinesi, africani, italiani, amiamoci come ci insegna la Trinità.  Per cominciare subito a costruire rapporti nuovi, dopo la messa superandomi sono andata dal sacerdote a ringraziarlo per le parole che aveva detto. (PS: il sacerdote è cinese).

sabato 18 giugno 2011

Festa della Trinità, festa dell’amore scambievole

Chiesa OMI Johannesburg


Gesù, che viene dalla Trinità, ci ha rivelato come vive la Trinità. Ognuna delle Tre Persone vive per l’altra, nell’altra, dell’altra. Vi è reciprocità di donazione, di accoglienza, di appartenenza, di amore.
E quando Gesù vuole tradurre in termine umani ed adattare a noi la legge di vita della Trinità ci consegna il suo comandamento: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34; 15,12). Amarsi l’un l’altro in Cristo, con la sua stessa misura, è vivere l’amore trinitario sulla terra, innestati, ciascuno e insieme, nella vita d’amore di Dio stesso.

venerdì 17 giugno 2011

Forma e riforma della Chiesa

Di tempo in tempo nella Chiesa si leva un grido: “Riforma!”. È la denuncia di una insoddisfazione del nostro modo di seguire Gesù, la confessione dei nostri sbagli e della lontananza dall’ideale di vita che egli ci ha proposto. Il grido è anche la proclamazione dell’intento di ritrovare la purezza evangelica e l’esigenza di adeguarsi con radicalità alla parola di vita. La storia della Chiesa è scandita dalle riforme. La prima, forse, è quello che portò gli apostoli a istituire i “diaconi”.
A pochissimi anni dagli inizi nella prima comunità di Gerusalemme, si avvertiva già una disuguaglianza tra i credenti, in contrasto con il progetto iniziale che li voleva un cuore solo e un’anima sola e con i beni in comune. I credenti di origine straniera venivano discriminati proprio nella distribuzione dei beni. Bisognava correre ai ripari, “riformare” la comunità, perché trovasse nuovamente l’originaria e originale fraternità.
In alcuni momenti storici l’azione di riforma è stata talmente determinante da caratterizzare l’epoca: si parla così di “Riforma gregoriana”, o addirittura di “Riforma” in assoluto, quando ci si riferisce a Lutero e al movimento che ne è nato.
Ma è la Chiesa o sono i suoi membri e le sue istituzioni che esigono di essere riformati? Per i suoi membri non c’è alcun dubbio. Siamo tutti peccatori. Chi di noi non avverte il bisogno di riformare costantemente se stesso? La parola che usiamo abitualmente per indicare il cambiamento a cui siamo sempre chiamati è “conversione”. Essa nasce dal riconoscimento dei nostri peccati e dal desiderio di ricominciare in novità di vita.
Spesso l’esigenza di conversione non è avvertita soltanto personalmente, ma da interi gruppi e movimenti di cristiani, insoddisfatti del loro modo di vivere. È tipica quella che si avverte ciclicamente all’interno della vita monastica e religiosa, per la quale si usa proprio la parola “riforma”. Il monachesimo benedettino ha conosciuto grandi riforme, come quella cluniacense, cistercense, camaldolese… Lo stesso è avvenuto all’interno del francescanesimo, tra i Carmelitani, gli Agostiniani… In questi casi la riforma è il tentativo di tornare alla “forma” primitiva, all’ispirazione originaria del fondatore. Essa nasce dalla convinzione che l’ideale di vita sia nelle origini e che, a mano a mano che ci si allontana da esse, si perde lo smalto iniziale in un graduale e progressivo rilassamento. La constatazione della mediocrità della vita presente diventa un appello a ritrovare l’ispirazione nel passato.
Anche le istituzioni della Chiesa hanno visto e vedono una permanente riforma. Non è il ministero come tale che la domanda, ma il modo di esercitarlo; non la Parola, ma il modo di viverla e di annunciarla; non il sacramento, ma il modo di amministrarlo e di attuarlo. Ed ecco le riforme liturgiche, canoniche… Ma la Chiesa come tale è veramente “reformanda”?
I Padri e la grande tradizione teologica hanno sempre distinto tra la riforma della Chiesa e la riforma nella Chiesa. La prima, propriamente parlando, non si può dare perché la Chiesa, nella sua realtà misterica più profonda è Cristo stesso, il Santo. Ma dobbiamo pensare la Chiesa come un organismo vivente, che se non cresce e non si rinnova costantemente muore; ad un popolo in cammino che, come tale, si protende costantemente in avanti verso una meta mai raggiunta, pena l’atrofia e la paralisi; a una comunità che vive nella storia e quindi sempre stimolata a rispondere in modo creativo alle nuove sfide ed esigenze. La riforma fa allora parte della sua stessa natura di realtà storica.
Il Concilio è chiaro in proposito: “la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento” (LG 8). Con formulazione più ampia la Gaudium et spes riconosce che “benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele del suo Signore e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene, la Chiesa, quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e l’umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo. Qualunque sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del Vangelo” (n. 43).
Si comprende allora la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II, non soltanto per i peccati e gli errori dei singoli membri della Chiesa, ma dalla Chiesa intera, sempre bisognosa di conversione e di riforma. Si comprendono gli appelli forti e decisi di Benedetto XVI a risanare il marcio che c’è nella Chiesa.
I carismi, sia detto per inciso, hanno un ruolo determinante al riguardo. Essi sono dati alla Chiesa dallo Spirito Santo proprio per rinnovarla costantemente. Come non pensare a quanto Dio ha operato attraverso Benedetto, Francesco, Domenico, Caterina da Siena, Teresa di Gesù, Ignazio... Lo stesso vale per i carismi di oggi. Le persone a cui essi sono elargiti – ricorda la Lumen gentium – sono resi “adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa” (n. 12).
Quale la via per ogni riforma nella Chiesa? Le vie e le formule sono tante quanti sono i riformatori. Potremmo rileggere al riguardo l’intramontabile libro di Y. Congar, Vera e falsa riforma della Chiesa (questo il titolo della tradizione italiana; l’originale parla di “réforme dans l’Église”). A me sembra di poter cogliere due linee costanti emergenti dalla storia dei carismi.
La prima è racchiusa nel termine stesso: “ri-forma”. Si tratta di “trovare nuovamente” (ri-) la “forma” della Chiesa. Ogni riforma ha guardato alle origini, alla Chiesa primitiva di Gerusalemme, individuando in essa il modello per ogni comunità cristiana, per la Chiesa di sempre. P.C. Bori, nel suo studio sulla Chiesa primitiva, ha mostrato come “la memoria della Chiesa delle origini, e particolarmente la descrizione della sua vita secondo gli Atti degli apostoli, ha sempre costituito, si può dire, un modello, un esempio, un ideale (talvolta un mito) nel corso della storia della Chiesa. Specialmente nei periodi critici, nelle svolte decisive, la possibilità di un ritorno all’antico, alle origini, l’idea di una riforma in riferimento alla ‘ecclesiae primitivae forma’ si è riproposta con vigore sempre nuovo…
I testi degli Atti si sono posti come stimolo, provocazione, principio di crisi nella coscienza cristiana, nel dilemma tra perenne, assoluta validità dell’ideale e continua necessità di una sua storicizzazione[1]. Ogni riforma dovrebbe giungere a rendere presenti nell’oggi quelle origini. Esse non sono lontane, confinate in un mitico tempo passato, e non sono neppure annuncio di utopia per i tempi futuri; sono vive qui e ora, realtà sperimentabile, visibilizzata. La memoria si fa appello, rivolto alla Chiesa intera, a vivere secondo la propria natura e, nello stesso tempo, ne annuncia la reale attuabilità.
Ma da cosa si è sempre rimasti colpiti guardando la Chiesa delle origini? Dall’u­nità che la caratterizza. È lì il fascino segreto che attira e che innamora. Nell’unità si ritrova ogni altra dimensione evangelica. In una parola, possiamo dire che la “forma” della Chiesa è la carità, fonte dell’unità. “La Chiesa è amore”. Riforma significa ritrovare l’amore che è forma della Chiesa. Nei documenti ecclesiali si parla sovente della carità come compito della Chiesa. Forse dovremmo soffermarci di più sulla “forma” come tale. Icona della Trinità la Chiesa è amore come Dio è Amore. E Dio è Amore prima di tutto in sé, nella comunione delle Tre divine Persone. Da tale mutuo amore scaturisce l’amore per la creazione e ogni creatura. Ugualmente, la Chiesa può esercitare un servizio di carità perché è carità.
Una seconda costante per ogni riforma, che mi sembra emerga dalla storia dei carismi, è l’azione collettiva. Al termine del suo libro su Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar parla della “responsabilità collettiva” delle colpe e delle tragedie lungo la storia della Chiesa, che accomuna pastori e fedeli. Se le deviazioni e gli sbagli sono collettivi, anche i cambiamenti di vita e di strutture domandano di essere collettivi. Avrebbero impresso una svolta alla Chiesa i grandi carismatici e riformatori se attorno a loro non si fosse creato un movimento di conversione e di riforma? Se la forma della Chiesa è l’amore, si può vivere l’amore – quello cristiano, quello trinitario – da soli? O non si dovrà coinvolgere l’intera comunità nella dinamica dell’amore?
Solo nella comunione è garantita l’autentica riforma nella Chiesa, perché tra quanti ne vivono la “forma” e sono uniti nell’amore reciproco Gesù stesso, capo della Chiesa, si rende presente. Sarà lui in mezzo a noi a dare sempre nuova forma alla sua Chiesa.
Illuminanti le parole del cardinale J. Ratzinger nel suo libro Rapporto sulla fede: “Dobbiamo avere sempre presente che la Chiesa non è nostra ma sua [di Cristo]. Dunque, le ‘riforme’, i ‘rinnovamenti’ – pur sempre doverosi – non possono risolversi in un nostro darci da fare zelante per erigere nuove, sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è una Chiesa ‘nostra’, a nostra misura, che può magari essere interessante ma che, da sola, non è per questo la Chiesa vera, quella che ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio dire che ciò che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque, ‘riforma’ vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate… L’ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di santità, non di management che ha bisogno a Chiesa per rispondere ai bisogni dell’uomo”. Santità come amore vissuto, forma del singolo cristiano e della Chiesa intera.
(Unità e Carismi 2011/1)


[1] P.C. Bori, Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini – Atti 2,42-47; 4,32-37 – nella storia della Chiesa antica, Paideia, Brescia 1974, p. 11.

giovedì 16 giugno 2011

Aiutami a vivere prima di morire

Quadro di
Padre Frans Claerhout 


Nel libro Live Before You Die W. A. Frans Human riporta queste parole di Padre Frans Claerhout: “Dio, tu hai un sacco di tempo, io no. Aiutami a vivere prima che io muoia”

Commento al post di ieri: Bello questo dipinto, è un genere moderno che piace anche a me, questo oblato doveva essere in gamba lo si capisce anche dalla novità che ha inserito nel tema del quadro.

mercoledì 15 giugno 2011

L'esperienza di Emmaus

In Sud Africa ho scoperto padre Frans Claerhout, poeta, artista, missionario oblato. Le sue opere sono ormai nelle galleria di tutto il mondo. Ho visto due suoi dipinti anche in una gioielleria a Kimberly. Nel 1999 ricevette il dottorato honoris causa dall’Università dell’Orange Free State in Bloemfontein, “per le sue opera di creatività artistica e per una vita dedicata al servizio della comunità”. Il Cancelliere dell’Università, in quella occasione così si espresse: “Dal 1961 p. Claerhout è stato presente in molte esposizioni in Sud Africa, in Belgio, sua terra d’origine, in Germania, negli Stati Uniti. I suoi lavori sono presenti in molte collezioni d’arte conosciute. I suoi dipinti, i disegni, le statue, le poesia riflettono una grande consonanza con la nostra umanità, che gli deriva dal suo ministero di predicatore del Vangelo… Come prete ha servito la sua comunità in circostanze difficili… La sua eredità consiste nel grande contributo dato nel piegare il sofisticato stile europeo a ritrarre la nostra gente semplice nell’assolato scenario sud africano”.
Mi sarebbe piaciuto conoscerlo di persona. Ma ho visto i suoi quadri nelle nostre cose. Uno di ha colpito in modo particolare, la cena di Gesù con i discepoli di Emmaus. Al centro, contrariamente a ogni iconografia, una mamma con un bambino (ci doveva pur essere qualcuno in quella casa!), e i due che si rivolgono a lei e al bambino quasi per condividere subito la loro scoperta. Un’icona del quello a cui siamo chiamati: sperimentare la presenza del Risorto e comunicarla subito a chi ci sta attorno.

martedì 14 giugno 2011

Santità possibile

Se cerchi un ideale, eccolo, se vuoi amore, eccolo; se vuoi un modello, eccolo”. Sono le parole che Teresa Candamo Alvarez Calderón udì provenire da un grande Crocifisso, mentre entrava in una chiesa ad Alassio, all’inizio del 1900. Qualcuno conosce questa peruviana venuta in viaggio in Europa e divenuta fondatrice? Leggendo gli esami scritti dagli studenti vengo in contatto con tanti umili fondatori e fondatrici, i più sconosciti. Tutti sono attratti dall’amore più grande, quello del Crocifisso; tutti riconoscono il Crocifisso nei volti più sfigurati; tutti vogliono riamarlo in loro. La santità pullula dai punti più impensati, dalle persone più ignorate. La santità è possibile! Per tutti.

lunedì 13 giugno 2011

Viaggio in Sud Africa / 16 – Victory Park

12 giugno
Il mio viaggio in Sud Africa si conclude nella Chiesa St. Charles a Victory Park, una delle più belle parrocchie oblate, una delle più grandi di Johannesburg. Nata con l’Apartheid è naturalmente una comunità quasi interamente bianca. Venerdì è venuto l’arcivescovo oblato di Johannesburg Buti Joseph Tlhagale - lui è nero - per conferire la cresima a una settantina di giovani tra i 17 e i 18 anni. Vi sono infatti molte famiglie giovani. Una quarantina i gruppi che animano la vita parrocchiale.
Oggi, domenica di Pentecoste, la liturgia è particolarmente solenne. Dopo il saluto iniziale tutti i bambini si presentano per la benedizione, quindi vanno nelle loro sala per vivere insieme una liturgia della Parola adatta a loro; ritornano soltanto al momento dell’offertorio. L’omelia la tiene un diacono. Il coro è numeroso e ben compatto. Certo siamo lontani dalle musiche africane che ho sentito da altre parti. Tutti, come ogni giorno, fanno la comunione sotto le sue specie, con 10 calici. All’uscita della messa, nel parco antistante la chiesa, sono pronti panini e bibite per la festa domenicale. Si respira la gioia della domenica!
Sarebbe arrivato il momento, prima di partire, di fare finalmente una passeggiata in centro, anche perché questa è la prima giornata relativamente calda. Quello che mi è mancato di più in questi 15 giorni è il pane e il tempo per camminare tra la gente! La guida turistica sulla città dell’oro, la più popolosa del Sud Africa, mi dice che “vi troverete un’atmosfera rara, coi suoi venditori di strada e il profumo di mais e carne cucinati nelle bancarelle”; mi invita al “Nelson Mandela Bridge, il più lungo nel suo genere di tutta l’Africa meridionale. L’area è molto animata e viva, ricca di eventi, musei e caffé”.  Ma tutti me lo sconsigliano caldamente: troppo pericoloso, troppa violenza, non si può passeggiare nel centro, la vita non vi vale niente, si può uccidere per un telefonino…
Pat, il responsabile del focolare, qui a 30 anni, viene a prelevarmi e mi consiglia una passeggiata alla Gillosley Farm, un parco fuori città. Camminiamo per alcune ore sulle colline di roccia antica (in realtà cime di montagne perché l’altopiano è già sui 2000 metri) da dove si possono ammirare le diverse parti delle città molto distanti tra di loro, quella antica, quella finanziaria, quella industriale…
 “Perché, domando a Pat, tanta violenza?”. Perché la legge e la moralità ci sono e sono molto forti, ma all’interno del proprio clan; fuori non esistono più; la legge dello stato non ha senso. La gente, sradicata dai loro villaggi, ammassata nella città, perde la propria identità, il senso di appartenenza… Per l’anima africana senza il riferimento comunitario nulla ha più valore”.
Ritroverà l’Africa la sua anima?

domenica 12 giugno 2011

Viaggio in Sud Africa / 15 – Il museo dell’Apartheid

11 giugno 2011
Se il museo dei Voortrekker a Pretoria mostra la storia dolorosa e gloriosa degli Afrikans, il museo dell’Apartheid che oggi ho visitato a Johannesburg testimonia il martirio dei popolo nero oppresso da quegli Afrikans, a loro volta oppressi. Le foto, i documenti, i filmati si imprimono dentro e fanno rivivere quel tempo a noi così vicino. Mi colpiscono le parole chiave scolpite all’ingresso, quasi pilastri del nuovo Sud Africa: Democrazia, Uguaglianza, Riconciliazione, Diverdità, Responsabilità, Rispetto, Libertà. Mi viene in mente un terzo museo, quello dell’Olocausto a Gerusalemme. Presto ci sarà il museo dei Palestinesi, come ci sono quelli degli indios in Sud America… Ogni popolo ha le tragedie e le sue storie di sofferenza da raccontare. Occorrerebbe che ogni popolo le raccontasse in sinossi con quelle degli altri; ognuno, di volta in volta, apparirebbe oppresso e oppressore. Come rompere la spirale dell’odio e della violenza?
Il passaggio dal museo dell’Apartheid all’incontro con la nostra gente in focolare è troppo stridente. Entro in tutto un altro mondo dove la logica è quella dell’amore reciproco. Non c’è altra via per cambiare i rapporti non soltanto personali ma sociali.
Mi trovo anche un piccolo simpatico chierichetto!

sabato 11 giugno 2011

Viaggio in Sud Africa / 14 – Pretoria: per capire gli Afrikans



10 giugno 2011
Ci sono delle parole che si associano inconsciamente a sensazioni indelebili. La parola “Pretoria” fa scattare un meccanismo che mi richiama “il governo di Pretoria”, l’Apartheid, i pretoriani romani, il colore grigio… Oggi questi connessioni hanno subìto la stessa metamorfosi dell’atmosfera. La mattinata è iniziata con il solito freddo intenso, la pioggia, il cielo cupo, fenomeno del tutto insolito qui in questo periodo dell’anno, durante il quale abitualmente non piove mai. A metà mattinata cambio di scena: il sole, un cielo limpidissimo, un’atmosfera stemperata. Così anche la città di Pretoria, vista dal vivo, ha cambiato i colori della mia rappresentazione immaginaria.
Appena arrivo, da Johannesburg, mi si presenta con la sua università dalle linee architettoniche snelle, moderne, fantasiose e insieme sobrie: bella. Le sue strade ordinate, fasciate dai jacaranda, con le foglie minute, d’un verde tenero, che in primavera si colorano di azzurro; pensa, una città azzurra: bella. Le sua piazze, i suoi edifici antichi, le colline su cui è adagiata, la gente allegra, i colori dei negozi…: bella. Il museo di scienze naturali con i dinosauri e i reperti di una della più antica crosta terrestre: bella. Il palazzo del governo su un prato vede, i giardini e le terrazze ricche di aiole e di agave in fiore: bella. Sì, proprio una città bella, luminosa, colorata, sedimentata dalla sua lunga storia, con un suo carattere.
Maria Magnolfi, vecchia amica toscana, me la fa percorrere in lungo e in largo e me ne racconta la storia. È la prima grande città dei Boeri, gli Afrikans, i discendenti dei contadini olandesi impiantati a Città del Capo agli inizi del 1600, costretti dagli Inglesi ad abbandonare le loro terre e ad avventurarsi al nord, verso terre sconosciute. Le loro file sono ingrossare dagli Ugonotti cacciati dalla Francia e costretti a cercare un’altra patria. Famiglie, carri e buoi si avventurano sulle montagne, scendono nella valli, attraversano i fiumi. Attaccati dai bellicosi zulu, braccati dagli Inglesi, sono un popolo costretto a difendersi chiudendosi in se stessi, reinterpretando e ideologizzando l’idea biblica del popolo eletto in esodo verso la terra promessa, cadendo infine nella trappola della filosofia nazista. Occorre tornare in questi luoghi per capirne la tragedia, le sofferenze, gli sbagli. È stato necessario il genio politico di Nelson Mandela perché gli Afrikans non fossero cacciati, ancora una volta, dagli africani neri giunti al potere, ma integrati nel nuovo Sud Africa per la cui vitalità rimangono indispensabili.
A cancellare completamente la mia immagine preconcetta di Pretoria concorrerà anche il cambio di nome; oggi si chiama Tshwane
La meta del nostro viaggio di oggi è incontrare il rettore del seminario nazionale, l’unico del Sud Africa, al quale si aggiunge l’Istituto S. Giuseppe di Cedara tenuto dagli Oblati. Fino a pochi anni fa esso era in mano ai Francescani, oggi è diretto dal clero diocesano. Don Enrico ci accoglie con grande cordialità, ci guida per il seminario, la nuova biblioteca, ci presenta i professori… Veramente fa gli onori di casa per me; Maria è già di casa, vi insegna Sacra Scrittura. Parliamo di studi, di formazione… Roma e Pretoria, così lontane, così vicine.

giovedì 9 giugno 2011

Viaggio in Sud Africa / 13 – “Chi vuole essere dei nostri…”

Inizia presto la vita al noviziato oblato di Johannesburg; alle 5.30 i novizi sono già in cappella per la meditazione. Mi piace sentirli cantare e vederli muovere lentamente, quasi una danza, al ritmo di rudimentali tamburi e altri strumenti a percussione. Cantano a più voci anche il gregoriano! Sono 15, provenienti dai vari paesi africani di lingua inglese, ma ben 7 dal Natal; un vero noviziato internazionale. Li seguo alle lezioni, cui oggi partecipano anche novizie di altre congregazioni.

Fa molto freddo e qui come altrove non c’è riscaldamento. In casa si sta con maglie, giacconi, sciarpe, cappelli di lana, guanti… (ma in cappella si deve entrare scalzi!). Penso a cosa succederebbe se decidessero di andare in nord Africa e dirottare verso il sud oleodotti e gasdotti. Da questa parte del mondo si capisce meglio cosa significa che l’Europa e l’America del Nord assorbano per sé la maggior parte delle risorse del pianeta.

Al termine di un corridoio del noviziato trovo scritte alcune frasi della Regola di sant’Eugenio riguardante i novizi. Fanno bene anche a me:
“Chi vuole essere dei nostri deve possedere un desiderio ardente di perfezione, essere infiammato d’amore per nostro Signore Gesù Cristo e per la Chiesa, ardere di zelo per la salvezza delle anime.
Deve liberare il cuore da ogni affetto disordinato per le cose della terra e da un attaccamento eccessivo a parenti e patria; non deve desiderare ricchezze, considerandole spazzatura, per non avere altra ricompensa che Gesù Cristo; deve desiderare soltanto di donarsi interamente al servizio di Dio e della Chiesa, sia nelle missioni sia negli altri ministeri ella Congregazione.
Infine deve voler perseverare fino alla morte, fedele e obbediente alle Regole dell’Istituto”.

“Perché hai deciso di essere dei nostri?”, chiedo ad un novizio. “È stato il mio parroco oblato a dirmi di farmi Oblato”. “Allora non hai scelto, sei stato scelto”. “Anche gli apostoli non hanno scelto di seguire Gesù, è lui che ha chiesto loro di seguirli, è lui che li ha scelti!”.

Stessa domanda a un altro, che viene da Soweto. Prima di tutto mi dice: “Lo sai che anche l’arcivescovo di Johannesburg viene da Soweto? È un Oblato anche lui, come lo è il vescovo di Upington, p. Risi, che è stato maestro dei novizi in questo noviziato”. Poi continua: “Sono stato attratto dalla fraternità e della comunità degli Oblati: di tante culture, di tante nazioni, eppure così uniti tra di loro!”.
Prego perché questi giovani, così vivi, possano essere davvero dei nostri.

Per quelli che già lo sono, accanto al noviziato c’è il Centro de Mazenod, dove possono rinnovarsi nella loro vocazione. Naturalmente è un centro di formazione, di ritiro, di incontri per tanta gente. Il luogo è bello, spazioso, con tanto verde, come si richiede ad una casa di ritiro.

mercoledì 8 giugno 2011

Viaggio in Sud Africa / 12 – Soweto

Se Kimberlwy è nata attorno alle miniere di diamanti, Johannesburg è nata attorno a quelle dell’oro prima e poi del carbone. Nel 1905, fuori città, lungo la ferrovia che porta il minerale aurifero e il carbone, si installano alcune famiglie di operai sloggiati dalle loro case per far posto al mercato comunale. Vivono in baracche miserimme. Nasce Pimville. Gli Oblati, già presenti a Johannesburg fin dal sorgere della città, si fanno subito presenti per aiutare la gente e ogni domenica vanno a dire la messa. Alcuni anni dopo, viene stabilita la parrocchia. Negli anni Cinquanta, quando l’Apartheid entra in vigore, tutti gli abitanti neri di Johannesburg devono lasciare la città, riservata ai bianchi, e vengono trasferiti nella zona sud ovest dove c’è la parrocchia di Pimville: nasce Soweto, dalle iniziali di South West Township. Questo quartiere fuori città diventa più grande della città: 2 milioni di abitanti. Gli Oblati intensificano il loro lavoro e costruiscono quasi tutte le attuali 35 parrocchie. Siccome però gli Oblati sono tutti bianchi, non possono dormire a Soweto, riservata alla popolazione nera. Costruiscono così una casa appena fuori del quartiere dove la sera vanno a dormire e dalla quale al mattino partono per andare nelle parrocchie.

Il 16 giugno 1976 un gruppo di studenti di liceo organizza un corteo pacifico di protesta contro l’imposizione della lingua afrikaans: perché devono studiare in una lingua che non è la loro? La polizia interviene, spara, una strage. Inizia la rivolta. La chiesa Regina Mundi degli Oblati diventa il punto di riferimento per la resistenza. La polizia entra nella chiesa, spara… In parrocchia mi fanno vedere le finestre con i fori delle pallottole; le conservano ancora! Tutta questa grande area, con i suoi 2 milioni di persone, per anni viene blindato dalla polizia che ne fa un ghetto.

Se Soweto è un simbolo di liberazione per il popolo nero (Mandela abitava lì!), la chiesa Regina Mundi è un simbolo per tutto Soweto. Le vetrate delle finestre raccontano le rivolte di allora e la vittoria finale. Vi è anche una mostra di foto dell’epoca.

Dopo una nottata e una mattinata di pioggia torrenziale, assolutamente anomala in questo periodo dell’anno, oggi sono andato con p. Terry a visitare Regina Mundi e altre nostre parrocchie di questa città fuori della città. Vedo i monumenti alla lotta di resistenza (incontro vari gruppi di ragazzi delle scuole che seguono lo stesso itinerario), i nostri Oblati (ora tutti neri), i diversi quartieri diversissimi l’uno dall’altro: baracche di lamiera, casette i mattoni, zone benestanti… mondi diversi che condividono insieme.

Gli Oblati non hanno ancora scritto la loro storia a Soweto. Li ho invitati a farlo. Non sarà poi tanto diversa da quella di altri gloriosi missionari, come p. Berthieu, Gesuita, ucciso martire in Madagascar il 9 giugno 1896; oggi in Africa ne abbiamo celebrato la festa.

Viaggio in Sud Africa / 11 – Johannesburg

Alcuni degli Oblati presenti al funerale
7 giugno. Questa mattina presto sono partito da Bloemfontein per Johannesburg. Da qui è iniziato il mia viaggio in Sud Africa e qui termina.
Avrebbero voluto farmi venire in aereo, ma ho preferito l’autobus: molto meno costoso e consente di ammirare il paesaggio. Sei pacifiche ore di viaggio nello sterminato altopiano centrale. Ancora savana, terreni incolti, fattorie con distese infinite di mais, girasoli… Pii avverti lentamente che la grande città sta per avvicinarsi: le fattorie si fanno più ravvicinate, alcune cittadine, fabbriche… e finalmente ecco apparire Johannesburg, il polo industriale del Sud Africa, con i suoi grattacieli e il traffico intenso, come ogni grande città.
Arrivo alla casa provinciale e trovo le adiacenze piene di gente. C’è la grande chiesa circolare, la casa della parrocchia, vari edifici con le opere parrocchiali, la casa della missione, quella per gli Oblati anziani… insomma il più grande complesso oblato che abbia visto finora in Sud Africa. C’è tante gente perché in mattinata c’è stato il funerale di un Oblato. Sono venuti tanti confratelli e più di un migliaio di persone. Arrivo verso le due del pomeriggio ma sono ancora tutti lì per il grande pranzo comuniatario… con un migliaio di persone!
Vedremo cosa mi ha preparato la grande città. 
Un Boero, ai margini della strada, in dialogo con fratello struzzo