venerdì 28 febbraio 2014

La tenerezza di padre Luciano Cupia


uno dei disegni che illustrano il libro
Sono un sacerdote che ha già passato i sessant’anni e che ha vissuto una meravigliosa vita, piena di intense emozioni. Da sempre ho rincorso la misericordia di Dio, alla scoperta della sua tenerezza.
L’ho trovata nelle persone che ho incontrato. Ho frequentato uomini e donne. Mi sono addomesticato di più con i piccoli. Meno con i grandi. Attraverso i miei studi (filosofia, teologia e psicologia) ho tentato di capire il cuore dell’uomo. Nel frattempo ho cercato Dio, sempre presente nella mia vita. Ho anche tanto viaggiato per il mondo e soprattutto per l’Italia. Sempre alla ricerca di Lui. Mi è difficile dire come l’ho trovato, quando l’ho trovato o quando sono andato a sbattergli contro. Sembrerebbe ovvio e facile per un prete. Ma non lo è!
Forse tra i bambini lebbrosi incontrati a Bombay. Forse negli occhi dei bimbi e delle donne di un villaggio in Malawi. Forse nell’ascolto di storie di sofferenze di drogati, ragazze madri, figli soli o maltrattati, coppie in crisi, eccetera. Forse, più semplicemente, nelle persone che ho tentato di amare e da cui sono stato sicuramente tanto amato.
Ho capito che quando si dice che Dio è dappertutto, ciò corrisponde a una grande verità. Sì, è veramente dappertutto, in ogni angolo di strada, in ogni cuore di uomo e di donna. E ti attende con pazienza. E tanta tenerezza. La sua presenza mi ha fatto impazzire di gioia.
Ora sono qui a raccontare la Sua storia d’amore. Così, semplicemente, sfogliando la Bibbia.

Così inizia il libro Come una carezza. Alla scoperta di un Dio tenero e misericordioso (1999), di p. Luciano Cupia, OMI, fondatore, già negli anni Sessanta, del Centro Famiglia e della Scuola di formazione per consulenti familiari, docente di spiritualità familiare all’università Gregoriana. Un pioniere nel campo. Oggi il suo funerale. Immagino la grande carezza di Dio. Il libro termina infatti con queste parole:

Essere accarezzati da Dio è facile. Basta abbandonarsi a Lui con lo spirito di un "bambino". Abbandonarsi significa avere fiducia, sentimento profondo di sicurezza, che ci porta a confidare in qualcuno. Ora questo qualcuno è un Dio tenero, padre e madre, che ci ha travolti in una storia d'amore.

giovedì 27 febbraio 2014

Renata Borlone, testimonianza di gioia

Rallegratevi, è il titolo della lettera della Congregazione della vita consacrata presentata ieri all’Urbaniana.
Una testimonianza particolarmente eloquente di una vita consacrata vissuta nella gioia è quella di Renata Borlone, di cui oggi ricorre l’anniversario della partenza per il Cielo, 27 Febbraio 1990. Dai suoi detti - dai quali appare che la gioia si da dando gioia agli altri:

* La gioia coincide con Dio… possederla sempre vuol dire possedere Dio”
* La gioia di vivere per gli altri”
* La mia gioia non può essere condizionata da niente, da nessuno” perché
Dio mi ama, anche se sono incapace, se ho fatto tanti pasticci nella vita e continuo a farne
* Sono felice, sono troppo felice - Voglio testimoniare che la morte è Vita
* Vivere per far felici gli altri, che il mio Cielo quaggiù sia la gioia degli altri 
* Io non mi donavo a Gesù per essere io felice, ma perché la mia donazione avesse un senso per la gioia, per la felicità di tutti gli altri, di tutti quelli che Dio mi avesse messo vicini.


(Nel 2011, assieme a Lida Ciccarelli, ho pubblicato la sua autobiografia, dove la gioia è addirittura nel titolo: La gioia di essere tutta di Dio. Forse vale la pena riprendere in mano quel libro)

mercoledì 26 febbraio 2014

Una parola sola: Gioia!

“Una parola sola: Gioia!
Sempre, dove sono i consacrati, sempre è gioia” (Papa Francesco)
La scritta campeggia nell’auditorium dell’Urbaniana, gremita all’inverosimile di religiose e religiosi convenuti per la presentazione di una lettera; la prima scritta dalla Congregazione della vita consacrata in vista dell’anno proclamato dal papa per il 2015 proprio sulla vita consacrata.
“La gioia, ha detto sr. Nicla Spezzati, non è inutile ornamento, ma è esigenza e fondamento della vita umana. Nell’affanno di ogni giorno, ogni uomo e ogni donna tende a giungere e a dimorare nella gioia con la totalità dell’essere. Nel mondo spesso c’è un deficit di gioia. Non siamo chiamati a compiere gesti epici né a proclamare parole altisonanti, ma a testimoniare la gioia che proviene dalla certezza di sentirci amati, dalla fiducia di essere dei salvati”.
La presentazione è presieduta da tutto lo staff della Congregazione, una cosa in grande. Ma la lettera in sé appare molto semplice. Tra l’altro riporta 71 citazioni di papa Francesco: praticamente l’ha scritta lui.
Due le parole chiave: rallegratevi e consolate.
Mi viene in mente, tanto per rimanere in tema, l’invito del papa agli evangelizzatori, ad essere felici di quello che sono e di quello che fanno, a sentirsi identificati con la loro missione.
Penso che il segreto sia tutto qui.

martedì 25 febbraio 2014

Pierre Babin: Siamo quello che insegniamo

“Come vorresti essere ricordato dopo la tua morte” chiese Seán-Patrick Lovett a padre Pierre Babin. “Come un innamorato di Dio”, fu la risposta.
Questa sera commemorazione di p. Pierre Babin durante il convegno internazionale di Signis una "associazione cattolica per la comunicazione", non governativa, con membri in 140 paesi nel mondo, che riunisce i professionisti in radio, televisione, film, video, educazione ai media, internet e nuove tecnologie. Tra loro il gruppo organizzativo (12 persone di 10 nazionalità) del CREC, il Centro di Ricerca e di Educazione in Comunicazioni fondato nel 1971 a Lione da p. Pierre Babin (+ 9 maggio 2002), un genio, un artista, un grande missionario, un Oblato di Maria Immacolata.
Avendo capito l’importanza dei mezzi di comunicazione per l’evangelizzazione, aveva creato questo centro per formare ai nuovi linguaggi dei media. Sono passati di lì un migliaio di persone che oggi sono responsabili di radio e televisioni in più di 100 paesi nel mondo. Oggi un gruppo di specialisti, molto affiatati, vanno soprattutto nei Paesi di missione per formare sul posto alla cultura dei media seminaristi, vescovi, missionari, laici cristiani.
Questa sera il gruppo direttivo del Crec ha voluto celebrare il ricordo del loro fondatore in maniera simpatica, con una degustazione di formaggi, vino e dolci, tipicamente francese. Su uno schermo scorrevano a centinaia le testimonianze, in lingua francese e inglese, inviate su internet di persone che hanno conosciuto p. Babin e che sono state formate da lui.
Mi hanno colpito le parole che usava ripetere: “Siamo quello che insegniamo”. 

lunedì 24 febbraio 2014

Lo schiaffo di Anagni e la carezza di papa Francesco


Il palazzo di Bonifacio VIII ad Anagni, costruito tra il 1100 e il 1200, è uno dei più celebri tesori della città. Le sue stanze solenni, con gli affreschi delle oche e delle scacchiere, hanno visto storie memorabili. La più nota l’oltraggio al papa da parte dei francesi e dei Colonna, lo “schiaffo”, morale o fisico che fosse. Era la risposta di Filippo il Bello all’ultima e più categorica pretesa di superiorità del papato sull’impero, affermata da Bonifacio VIII nella bolla Unam sanctam. Quel fatto, oltre a procurare al papa un trauma che lo portò presto alla morte, segnò la fine di un’èra e il lontano inizio della Riforma. Bonifacio VIII fu, come lo definisce Montin, “l’ultimo eroe di una battaglia ormai irrimediabilmente perduta”.

In questi giorni ho visto su You Tube un video ripreso con l’iPhone con il saluto di papa Francesco ad un congresso di Pentecostali in USA, un insieme di gruppi spesso neppure riconosciuti dal Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra:

A registrare, il vescovo Tony Palmer, durante un colloquio a Santa Marta. Una registrazione chiesta proprio dal papa per mandare un appello per l'unità dei cristiani. Inizia con: “Voglio parlare la lingua del cuore”. “Vi parlo come un fratello con gioia e nostalgia” per l'unità dei cristiani. “Dobbiamo trovarci come fratelli, dobbiamo piangere insieme, il pianto che unisce”. “Il miracolo dell'unità è cominciato”.
“Siamo fratelli e ci diamo spiritualmente questo abbraccio e lasciamo che il Signore finisca l'opera che ha cominciato, perché questo è un miracolo”.
Al termine chiede la benedizione e dona la sua benedizione.

Da Bonifacio VIII a papa Francesco la Chiesa ne ha fatta di strada…
Due ère che non possiamo neppure paragonare, pena di essere antistorici. Ma visitando Anagni non ho potuto ricordare lo schiaffo di Bionifacio VIII senza pensare al video di papa Francesco. Quella di papa Francesco mi è sembrata una carezza data in cambio dello schiaffo ricevuto da Bonifacio VIII.

domenica 23 febbraio 2014

Anagni, una sorpresa

Un autentico gioiello sia per l’architettura sia soprattutto per gli affreschi del 1100-1200. La cripta della cattedrale è un capolavoro inatteso e che lascia incantati. Per trovare qualcosa di simile occorre andare a Subiaco.
Quante volte dall’autostrada per Napoli ho visto in lontananza Anagni, lassù sulla collina. Eppure soltanto oggi pomeriggio, per la prima volta, sono andato a visitare questa città medievale, a due passi da Roma, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Si presenta come le altri cittadine laziali, interamente in pietra, con strade e vicoletti ricchi di colonne, capitelli, bifore, arcate, in una fantasia libera e creativa. Con la cattedrale il palazzo di Bonifacio VIII, il palazzo comunale, le mura ciclopiche… e un gioiellino come casa Barnekow del 1200, davanti alla quale non si può resistere alla tentazione di una foto.
Città natale di quattro papi, nella quale essi hanno anche dimorato a lungo. L’ultimo Bonifacio VIII, immortalato da Dante nella Divina Commedia, dove lo ricorda per ben tre volte, nell’inferno dove lo si aspetta, dato che il papa era ancora in vita!; nel purgatorio, dove si predice l’affronto di Anagni; nel paradiso dove san Pietro stesso gli rivolge una violenta invettiva.
Ciononostante Dante, da buon credente, non può fare a meno di riconoscere anche in questo papa il Vicario di Cristo, formula apparsa pochi anni prima e che proprio Bonifacio VIII aveva reso definitiva nella bolla Unam Sanctam (prima il papa era detto vicario di Pietro 
vicario del principe degli apostoli):
veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l'aceto e 'l fele,
e tra vivi ladroni esser anciso
(Purgatorio, XX, 85-90)
Ma a me piace ricordare Bonifacio VIII come il papa del primo anno santo, quello del 1300.
Adesso so perché ai papi di allora piaceva risiedere ad Anagni.

sabato 22 febbraio 2014

Cardinalato: un disastro!

Erano le sei di sera nelle Filippine quando il papa, dalla finestra del suo studio – ore 12 di Roma – annunciava la nomina dei nuovi cardinali. L’arcivescovo di Cotobato era a cena e quindi aveva spento il cellulare. Quando lo riaccende una pioggia di messaggi, tanto che il telefonino si blocca. “Deve essere successo un disastro”, si dice preoccupato. Tra i vari messaggi vede il nome del cardinale di Manila. Allora lo chiama subito. E così apprende la sua nomina a cardinale. “Era proprio vero, ha poi commentato, era accaduto proprio un disastro! Proprio ora che ho raggiunto i 75 anni e stavo per scrivere la lettera di dimissioni da vescovo”.
Oggi la berretta. “Ti incoroneranno cardinale!”, gli avevano detto partendo dalle Filippine. “Sì, ha riposto, ma di spine”. E oggi ha ricevuto la berretta come fosse una corona di spine, che identifica con i problemi della sua gente e la grande povertà della sua isola di Mindanao.
Gli abbiamo fatto festa sabato scorso, qui in casa, che come Oblato è anche casa sua. Ci ha raccontato la storia della sua vita: un vero romanzo! Sempre vicino alla gente, con fermo proposito di attuare il Concilio, di dialogare con i musulmani, di assecondare il processo di pace, di combattere la corruzione.

Ha ricevuto la porpora nella giorno della festa della cattedra di Pietro: “Non dobbiamo dimenticare chi è un cardinale. Non è un privilegiato, ma un uomo di Dio che viene chiamato ad aiutare il Papa e gli porta la voce della sua gente. Io sarò dunque una specie di portavoce ufficioso della mia isola, affinché i problemi della gente – le spine, se vogliamo usare questa immagine – possano essere conosciuti da tutti e possibilmente risolti”.

venerdì 21 febbraio 2014

Lettera ad apa Pafnunzio



Mi è arrivata una lettera indirizzata ad apa Pafnunzio che volentieri condivido, in attesa di conoscere l’identità di questo “apa” del nostro secolo (che mi pare essere piuttosto una “amma”)

Carissimo apa Pafnunzio,
l'eco dei suoi primi detti ha risuonato non solo fino alle rocce di quel rude deserto ma anche fino alle mie orecchie, anzi direi fino al cuore!
Non mi sembrano dei semplici detti! Fanno trasparire quel "di più" che supera il tempo e brucia le distanze, trasformando in oro le ore quotidiane.
Le voglio fare una confidenza: da qualche tempo sono in contatto con un "apa" del nostro secolo. Certo i suoi detti sono di tutt'altro spessore, ma per chi sa "leggere" tra le righe - come sa fare lei - sono anch'essi rivelatori di luce....
Mi permetto di fargliene conoscere alcuni. Chissà se per il 27 febbraio non riuscirà ad allacciare amicizia con lui e confezionare così un bel "post" per la gioia di tanti, di tutti! Mi scusi l'ardire, ma sono certa del suo buon cuore. Grazie infinite!
Con l'augurio di un pieno successo per la sua preziosa pubblicazione.
uno dei suoi... discepoli.

La gioia coincide con Dio…possederla sempre vuol dire possedere Dio…è santità. Come è difficile! (6 agosto 1969)
Ho il desiderio di possedere la gioia, non certo per sentire la gioia, ma per dare continuamente a Dio la prova del mio amore. (30 aprile 1971)

Stasera ho parlato della gioia. Mi pare di capire sempre di più che è stata l’essenza della vita di quelli che si sono fatti santi. (…) vorrei essere sempre nella gioia ma come sono distante da questa realtà (24 luglio 1971)

Sento che chi ha la gioia ha Dio (4 settembre 1971)

Mi appare sempre più evidente che la gioia (e come è difficile conservarla sempre!), quella spremuta dalla sofferenza, è vita di Dio in noi e quindi santità. (13 novembre 1972)

giovedì 20 febbraio 2014

Mandami tanta vita

Mi sono centellinato con gusto il romanzo di Paolo di Paolo, Mandami tanta vita. Una scrittura leggera come il paracadute della copertina, perfetta, una storia credibile e insieme fantasiosa, una esplosione di vita e insieme il tormento del vivere, un piccolo gioiello.
Ricopio una sola pagina, quella che dà il titolo al libro, nella quale si evoca la magia delle lettere (quelle di una volta, che ora non ci sono più, scritte sulla carta, con l’indirizzo e il francobollo). La lettera di Piero Gobetti alla moglie Ada:

Prende la carta, e scrive, numera la lettera, si sforza di pensare in francese. Ma petite chérie. Ho ricevuto ieri la tua lettera del 3-4. Per un istante vede la loro storia d'amore come un lunghissimo corridoio fatto di carta. Le pareti sono fatte di lettere, buste, biglietti, cartoline, lasciano filtrare una luce tenue, giallina. Pagine scritte a penna, battute a macchina (ecco, avrebbe bisogno di una macchina per scrivere, vorrebbe chiederla a Olivetti), pezzi di carta imbucati a mano, o inviati da lontano: a volte portavano il profumo di lei fino a San Bernardino di Trana, fino a Firenze o a Roma. Lettere che sono state attese, lettere arrivate tardi, lettere mai arrivate. Appena mi sveglio, tu con il pensiero mi accompagni all'ufficio postale. In certi paesi di villeggiatura non si trovano francobolli.

I timbri sopra le buste sono un linguaggio a sé, la carta viaggia, prende i treni, vola, fa le sue tappe. C'erano segni lunghi come code di stelle comete e c'erano indicazioni che dicevano FRAGILE, perché i sentimenti purtroppo lo sono; oppure PRIORITÉ, perché a volte si vuole affrettare il tempo, anche se il tempo ha già di suo molta fretta. Quando si sta tre giorni senza qualcuno, una lettera che arriva è una gioia del cuore. Adesso che l'impiegato batte forte il timbro sull'affrancatura,vorrebbe dirgli Mi scusi, devo fermarla, avrei una frase da aggiungere, è una frase che mi è tornata in mente adesso, l'ho scritta una volta sola, è passato qualche anno, ma l'ho pensata spesso, l'ho pensata sempre, era per la mia fidanzata, che adesso è mia moglie e la madre di mio figlio, se ricordo bene diceva così: Una lettera di Didì è la vita sai? Quindi mandami tanta vita. 

mercoledì 19 febbraio 2014

Prima presentazione del libro di apa Pafnunzio


Questa sera la prima presentazione del libro di apa Pafnunzio.
La “prima” è sempre un momento importante! È stata accompagnata da cantucci di Prato e vin santo.
Il pubblico? Numeroso e di una decina di nazionalità! La mia comunità.
Tra l’altro ho letto il primo “detto” di apa Pafnunzio:

LA NUDITA' DEL DESERTO

N
on era il deserto dalle dune di sabbia d’oro plasmate dal soffio del vento. Era un deserto duro, sassoso, d’un’altra austera bellezza, con rocce che sfumavano dal rosa pallido al verde azzurro, al rosso, al nero cupo.
Deserto, perché landa scarsamente abitata, inospitale.
Per uomini dalla rude tempra come apa Pafnunzio era luogo ideale per il lungo cammino dell’ascesi.
Arida e spoglia, senza beni né comodità, quella lontana regione non consentiva distrazione alcuna, invitava piuttosto a una separazione progressiva e radicale da ogni attaccamento, per centrarsi su ciò che rimane. Tutto vi era messo a tacere, perché una voce soltanto potesse essere udita e riconosciuta.
Terra privilegiata per la lotta con Satana che faceva emergere le falsità e gli idoli bugiardi che albergano nel cuore umano. Niente più v’era dietro cui potersi nascondere. Ogni anacoreta si ritrovava nudo davanti a se stesso e davanti al Dio vero ed unico. Tentazione e prova lo conducevano alla vera conoscenza di chi egli fosse e di chi fosse Dio.
Luogo di morte dell’uomo vecchio, faceva riaffiorare l’immagine e la somiglianza di Dio, la vera identità dell’uomo nuovo.
Una sola parola udivano quelle rocce:

Conoscere me, conoscere Te.
Io sono nulla, Tu sei tutto.
Sei Tu, Signore, l’unico mio bene.

martedì 18 febbraio 2014

Aquero

Il 18 febbraio a Lourdes si celebra la festa di santa Bernadette.
L’abbiamo celebrata anche noi a Roma, in un teatro moderno, vicino a casa nostra, con lo spettacolo Aquero, dei nostri bravissimi giovani di Firenze.
Il racconto di Massabielle, con le canzoni e le musiche, ci hanno ridonato il senso del mistero:

È mistero attorno a Massabielle
Uno squarcio nella continuità del tempo.
Chi sarà mai la Bianca Signora
Qual è il suo nome, quale il suo segreto?

Se io fossi poeta, scriverei di te
Le cose che nessuno ha detto mai.
Dell’arte avessi il dono
Io rapirei la luce
Per poter disegnare gli occhi tuoi.
Se grandi avessi l’ali
Le scioglierei nel volo
Per arrivare in alto fino a te
Madre dolcissima…


lunedì 17 febbraio 2014

Leone XII: gli Oblati ringraziano


Chi non conosce Leone XIII, il grande papa della Rerum novarum e della questione sociale, aperto alla modernità, innovatore nella cultura… 25 anni di pontificato, a cavallo tra il 1800 e il 1900, hanno segnato la storia della Chiesa moderna. 
Chi conosce invece Leone XII? Nessuno. Eletto dai cardinali conservatori e intransigenti (“Avete eletto un cadavere”, disse loro, pensano alla sua salute malferma), 6  anni di pontificato, si è attirato la fama di reazionario. “Nonostante qualche intuizione perspicace – scrive il grande storico della Chiesa Jedin – lascerà il ricordo di una figura scialba e incapace di dominare gli avvenimenti”.
“Nonostante qualche intuizione perspicace”. Quali? Una di queste è indubbiamente l’aver intuito la grandezza di sant’Eugenio de Mazenod quando si presentò a lui per chiedergli di approvare la Regola degli Oblati. “Questo gruppo di missionari mi piace, disse il papa; deve essere approvato”.
Firmò il decreto di approvazione il 17 febbraio 1826. Qualche mese dopo, il 20 novembre, ne firmò uno sciagurato che sottoponeva gli ebrei, relegati nel ghetto di Roma, a inquisizione e li obbligava ad ascoltare le prediche dei sacerdoti inviati per convertirli. Ci fu un massiccio esodo di ebrei che portò anche ad un considerevole danno economico allo Stato pontificio.
Ma almeno una l’ha fatta giusta: gli Oblati!
“O Leone XII! – scrisse sant’Eugenio –… sare­ste considerato sempre da noi un benefattore e il padre della nostra Famiglia”. “Che serve ricordare l'affabilità e la delicatezza con cui S. Santità si è degnato ricevermi e una infinita benevolenza molto superiore ai miei meriti la quale non mancherà di serbare nel mio cuore sentimenti di riconoscenza e anche di confusione? Circa la finezza, l'acuta perspicacia e la saggezza profonda dimostrate dal Papa nel corso del colloquio, non ho lingua per esprimermi. Prostrato ai suoi piedi, commosso intimamente nel trovarmi alla presenza del vicario di Cristo, versavo lacrime di consolazione, raccoglievo avidamente ogni parola… In questa vicenda di enorme importanza per la Chiesa, per la Congregazione e per ciascun di noi, il Sommo Pontefice ha fatto ogni cosa di sua iniziativa e sotto dettato dello Spirito Santo che lo guida continuamente nel governo della Chiesa. Come gli son nati quella benevolenza, quella cura costante di proteggerci, quello zelo carico di sollecitudine che in nome del suo potere supremo han spazzato via gli ostacoli?”
Oggi abbiamo fatto memoria di quel 17 febbraio 1826 e di Papa Leone XII, strumento dell’amore di Dio per gli Oblati.

domenica 16 febbraio 2014

Un pomeriggio con Modigliani





Ho trascorso il pomeriggio in compagnia di Modigliani, Soutine e gli altri artisti maledetti che vissero e dipinsero nella folle Parigi di inizio Novecento. La mostra, allestita a Palazzo Cipolla, espone un centinaio di opere, dietro le quali si nascondono vite tormentate, alla ricerca disperata del bello, del senso della vita.
“I colori dell’anima”, si intitolava un film su Modigliani di una decina d’anni fa. Ho cercato di indovinare, tra quadri che ti prendono per una toccante bellezza che non può lasciare indifferenti, le anime contorte e insoddisfatte dei loro pittori. 
Mi sono ricordato le parole rivolte dal Concilio Vaticano II agli artisti: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione”. Non meno significative le parole di Modigliani: “Il tuo unico dovere è salvare i tuoi sogni”.

sabato 15 febbraio 2014

La forza unificante della memoria


17 luglio 523, a Roma, nel portico della casa di santa Galla, figlia del Prefetto Simmaco, la Vergine Maria appare nella dispensa dove la santa custodisce il cibo per i poveri. Papa Giovanni I, con il popolo romano, accorre alla casa di Galla e si vede consegnare da due serafini un’icona della Madre di Dio, ora conservata nella chiesa in Campitelli e invocata come “Porto sicuro dei romani”: un’immagine piccolissima in una chiesa grandissima.

15 febbraio 1826. Nel palazzo di fronte alla chiesa tre cardinali devono esprimere il loro parere, per poi presentarlo al papa, sulle regole di un prete francese che da 10 anni ha fondato una comunità di missionari. Il fondatore, un certo Eugenio de Mazenod, va nella chiesa in attesa della decisione. È d’accordo con l’usciere del palazzo che appena i cardinali hanno finito lo avvertano. L’usciere se ne dimentica, così il povero sant’Eugenio passa la mattinata ascoltandosi nove messe. Intanto però il parere dei cardinali è stato positivo. Due giorni dopo l’approvazione di Leone XII.
Anche quest’anno tutta la comunità si è recata in santa Maria in Campitelli per “fare memoria” di quel momento di preghiera di quasi due secoli fa e per ringraziare Maria, quasi invisibile, lassù in alto, tra gli ori barocchi.

“Fare memoria” delle nostre origini. È importante. È la memoria che tiene uniti una comunità, come ogni famiglia, come una nazione, non per una inutile nostalgia del passato, ma perché fa rivivere i momenti ideali che sono alla base della nostra storia.

venerdì 14 febbraio 2014

Vinea mea a Loppiano

È una gioia tenere lezione nell’antico convento francescano di Incisa Valdarno ora completamente rinnovato: antico e nuovo vi convivono armoniosamente, grazie ad un sapiente progetto architettonico.
È una gioia non soltanto per la bellezza dell’ambiente, ma soprattutto per l’uditorio: una ventina di sacerdoti, seminaristi e religiosi proveniente da ogni parte del mondo e riuniti in questo centro di spiritualità – Vinea mea – per una “scuola” tutta particolare, fatta di studio e di vita.
Le mie lezioni? La Parola di Dio.
Ho scritto sette libri sulla Parola di Dio. Tutto è cominciato nella Quaresima del 1977, all’EUR a Roma, quando, nella grande chiesa dei santi Pietro e Paolo, svolsi le prime catechesi su questo tema. Vent’anni dopo quegli appunti mi servirono per scrivere la Presentazione al Vangelo e Atti degli Apostoli, un libretto di Città Nuova che continua ancora a essere pubblicare. Erano soltanto nove paginette, ma lì avevo condensato tutto quanto ho poi sviluppato nei libri successivi.
Quel primo scritto iniziava come iniziano tutti gli altri miei libri:

Quando Gesù parlava quelli che lo ascoltavano rimanevano incantati dalle sue parole…  I suoi discepoli ne era conquistati. Non indietreggiavano neppure quando esse apparivano particolarmente esigenti: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
Il fascino delle sue parole ha continuato ad attirare le generazioni cristiane, che hanno colto la distanza che le separa dalle altre parole umane…
Il Vangelo esercita il suo fascino anche al di fuori del mondo cristiano….
Ma anche per chi si professa non credente il Vangelo risulta un libro del tutto particolare...
Il fatto è che le parole di Gesù possiedono uno spessore ed una profondità che le altre parole non hanno, siano esse di filosofi, di politici, di poeti. Le parole di Gesù sono “parole di vita”…

Oggi anche su di me, parlandone alla Vinea mea, hanno esercitato lo stesso fascino.


giovedì 13 febbraio 2014

Cosa c’entra san Valentino con gli innamorati?


San Valentino, cittadino e vescovo di Terni fu decollato a Roma sotto l’Imperatore Aureliano il 14 febbraio 273. Sulla sua tomba la prima basilica costruita nel secolo IV. Nel 1605 fu rinvenuto il corpo in una cassa di piombo contenuta entro un’urna di marmo. La testa era separata dal busto a conferma della morte avvenuta per decapitazione. Per accogliere il corpo fu costruita una nuova Basilica.
Cosa c’entra tutto questo con la festa degli innamorati?
Greci, Italici e Romani il 15 febbraio festeggiavano gli dei Pane, Fauno e Luperco, e in loro onore si celebravano i Luparcali, legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Divenuti troppo licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi da Gelasio nel 494.
La Chiesa cerca comunque di “battezzare” sempre le usanze popolari. Così cristianizzò quei riti pagani della fecondità anticipandoli al giorno 14 di febbraio, attribuendo al martire San Valentino la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio.

Non si disprezza niente…

Pubblicato il libro di apa Pafnunzio


Il libro è ormai pubblicato e disponibile.
Nella locandina pubblicitaria preparata dall’editore si legge:

Abbandonano la città e la frenesia della vita sociale per la pace e la solitudine. Sono i Padri del deserto, monaci vissuti nel IV secolo d.C. in Palestina, Egitto e Siria. Testimoni di una fede cristiana vissuta nella semplicità e nella radicalità. Di loro ci sono giunti brevissimi testi, i “detti”, intrisi di saggezza umana e sapienza evangelica.
Fabio Ciardi raccoglie e riscrive alcuni detti che attribuisce ad un apa Pafnunzio, la cui identità rimane indefinita. Brevi racconti, spaccati di una vita immersa nella contemplazione e nella ricerca di Dio, scritti in una prosa raffinata e piacevole. Pagine che offrono agli uomini e alle donne di oggi un’oasi di pace, di riflessione e di serenità nel frastuono della vita quotidiana.

Nella foto: Il direttore dell’editrice Città Nuova Luca Gentile (con il nuovo libro in mano), assieme ad alcuni membri della redazione.

martedì 11 febbraio 2014

A un anno dallo storico annuncio di Benedetto XVI

Era l'undici febbraio del 2013 quando papa Ratzinger sorprese tutto il mondo annunciando di voler rinunciare al ministero petrino. Un gesto coraggioso che ha aperto la strada a 
Francesco.

“È un grande!” Fu la prima parola – un grido, per la verità – che mi è uscita dalla bocca alla notizia delle dimissioni di Benedetto XVI. L’avevo incontrato personalmente una settimana prima dello storico annuncio. Avevo avuto con lui un breve intenso colloquio nel quale potei cogliere l’inestimabile profondità d’animo, la lucidità del pensiero che lo ha sempre caratterizzato, e insieme l’estrema fragilità fisica: piuttosto che sorreggere la pesante casula che gli avevano messo addosso, pareva fosse questa a tenerlo in piedi. Perché non può dimettersi? mi chiesi tornando a casa. Lo ha fatto. Ed ha mostrato un coraggio ed una fede di una grandezza diametralmente opposta alla dichiarata mancanza di “vigore sia del corpo, sia dell’anima”, che gli faceva riconoscere “l’incapacità di amministrare bene il ministero” affidatogli, come lui stesso dichiarava.
Perché non è rimasto sulla breccia fino all’ultimo come ha fatto Giovanni Paolo II?, si è sentito ripetere da più parti. Il papa polacco era animato da una spiritualità del sacrificio e del martirio, tipica della cultura slava, il papa tedesco da una spiritualità del servizio, che invita a ritirarsi quando si percepisce che il servizio non è più tale perché non si hanno più le capacità per adempierlo. Ambedue legittime, ambedue evangeliche. All’inizio del pontificato Benedetto XVI si era presentato come “semplice e umile servo nella vigna del Signore”. Non era retorica. Dopo aver lavorato nella vigna del Signore, avvertiva che era giunto il momento di lasciare il posto ad altri, come un “servo che ha compiuto la sua missione”, mostrando che il “potere” è tale nella misura in cui è realmente a servizio del popolo.
Se si fosse ritirato per amore del quieto vivere, sarebbe stata una fuga. E chi non ne è tentato davanti a responsabilità che diventano troppo pesanti? “Pregate per me - aveva chiesto lui stesso nella messa di inizio pontificato -, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Non l’ha fatto per sé, ma per il bene della Chiesa, prendendo la decisione “davanti a Dio”.
Forse nessuno come lui, dallo strategico posto di osservazione della Congregazione della Dottrina della fede prima e del papato poi, aveva la consapevolezza della profonde riforme che si impongono alla Chiesa di oggi, soprattutto nel governo centrale. Durante la Via crucis al Colosseo del 2005 non aveva avuto remore nel dichiarare che spesso la Chiesa “ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”, la cui veste e il cui volto “così sporchi, ci sgomentano”. Gli ultimi tre anni del suo pontificato sono stati caratterizzati dall’esplodere di gravi scandali all’interno della sua stessa casa, della Curia, dello Ior, da pesanti attacchi mediatici contro la sua persona, segnali fin troppo evidenti che postulavano una profonda e coraggiosa riforma. Era necessario un forte atto di governo e papa Benedetto l’ha posto, il più audace, il più rivoluzionario, il più fecondo di conseguenze: le dimissioni.
Fuga sarebbe stato tergiversare, lasciare che le cose andassero avanti comunque, accettare che altri, surrettiziamente, prendessero in mano il potere. Ma Ratzinger è un puro e non avrebbe potuto cedere al compromesso. Il suo è stato un gesto coraggioso e profetico che ha destabilizzato una situazione di stallo e aperto la strada a un futuro nuovo, quello di papa Francesco.
La sua decisione ha inoltre demitizzato e desacralizzato la figura del pontefice, mostrandone la fragilità, la vulnerabilità, in una parola, l’umanità, rendendola così più vicina a quella di Gesù e delle persone di oggi. Papa Francesco non avrebbe potuto inaugurare quello stile così familiare e semplice che lo caratterizza e che risponde così profondamente alle attese, senza il gesto di papa Benedetto che, paradossalmente, ha infinitamente esaltato la dignità del papa, la sua autorevolezza, la sua credibilità. Ne è prova l’inversione di atteggiamento da parte dell’opinione pubblica, che ora ripone nella sua figura fiducia e speranza. Basta guardare alle reazioni di fronte alle accuse mosse in questi giorni dall’ONU alla Santa Sede. Solo un anno fa avrebbero raccolto un consenso unanime, ora sono considerate con un certo scetticismo e indifferenza, perché se ne riconosce la parzialità.
“Se fosse stato eletto solo per fare questo passo, sarebbe valsa la pena!”, mi scrisse all’indomani della rinuncia un ignoto follower del mio blog. Altri messaggi, di persone altrettanto sconosciute, indirizzatemi subito dopo quello scioccante annuncio, possono dare il polso, meglio di ogni altra considerazione, di come un anno fa venne accolto il gesto del papa: “L'annuncio il papa che lascia il ministero petrino, mi ha suscitato uno sbrigativo: allora possiamo anche mollare! Ma lui non l'ha fatto come atto liberatorio, ma come atto di un amore grande. Dopo aver compiuto tutto ciò che sentiva di poter compiere, si è messo davanti a Dio e ha ascoltato quanto lo Spirito gli chiedeva in questo momento. Lo ringrazio del suo esempio che ancora una volta ci mette in prima persona davanti a Lui, senza timore”; “Questo atto di Benedetto XVI mi ha lasciato molto ammirata. Ho colto in esso tutta la libertà tipica dei Figli di Dio che in un colloquio filiale profondo, capace di tradursi in dialogo, può trarre decisioni che possono rompere gli iter consolidati e scontati, rimanendo, nonostante tutto, ancorati a ciò che conta: alla Verità contenuta nel Vangelo. Certo è uno scenario nuovo, una strada mai percorsa, ma meno male, è il segno della vita che si evolve senza timore”; “Accettare il limite umano. E' una grande lezione di Umanità. E' bello che la Chiesa si presenti anche con un volto umano”; “La prima impressione è quella di un grande gesto che farà la storia della chiesa e non solo per il futuro dell'umanità: riconoscere i propri limiti e comprendere che altri meglio di te possono ricoprire un incarico ed un servizio è profondamente cristiano e profondamente umano”; “Ho tanta gratitudine per il suo essere testimone coraggioso e nello stesso tempo mite, delicato e rispettoso”. 
Col passare degli anni ci si renderà sempre più conto della profondità del suo Magistero. I suoi scritti continueranno ad essere letti per la loro profondità e ricchezza dottrinale. Ma prima di tutto rimarrà la grande lezione della sua rinuncia.



lunedì 10 febbraio 2014

Bella Roma


Roma è sempre bella.
Non soltanto per i suoi monumenti,
ma anche e soprattutto per la sua gente,
preti compresi!

Una passeggiata a Roma con me, a visitare san Silvestro al Quirinale, Santa Maria in Campitelli, le stanze del Pallotti?

domenica 9 febbraio 2014

Apa Pafnunzio vide che anche gli altri erano buoni


Il caldo del primo meriggio stava ormai scemando e presto si sarebbe levata la brezza leggera, preludio della sera. Era il tempo di uscire di cella per recarsi alla collatio con i fratelli. Apa Pafnunzio attendeva quel momento con impazienza. Avrebbe potuto ascoltare la parola sempre piena d’unzione dell’egumeno, la condivisione dei frutti della preghiera degli altri cinque monaci, e lui stesso, settimo e ultimo della laura, avrebbe donato la propria esperienza.
Quel giorno era particolarmente felice e radioso; aveva compreso che agli occhi di Dio egli era buono e bello e che, nonostante le sue debolezze, la parola che Dio aveva pronunciato creandolo si sarebbe eternata in pienezza. Era quanto aveva pensato di donare ai propri fratelli.Apa Agatone iniziò come sempre leggendo e commentando la Parola di Dio. Non sembrava particolarmente ispirato, quella sera. Era diventato troppo vecchio? Perché da alcuni giorni si ripeteva continuamente? Apa Serapione se ne stava serio, come appartato e quando gli venne dato la parola rimase in silenzio, non aveva niente da dire. È così che si costruisce la fraternità? 
Apa Epifanio ebbe da osservare che gli ospiti venivano accolti con troppo frequenza, inquinando la solitudine monastica. Non si ricordava il detto gesuano: “Chi vede il fratello, vede il Signore”? Apa Teodoro sorrideva e annuiva, ma era evidente che aveva la mente altrove, e quindi anche il cuore. Non sapeva più vigilare su se stesso? Apa Meghezio disse belle parole, ma era così trasandato nel vestito e gesticolata in maniera sgraziata. Anche la povertà avrebbe dovuto avere la sua bellezza. Apa Filagrio, sempre così saggio, disse parole sconsiderate che era meglio dimenticare subito.
Ognuno dei fratelli mostrava le proprie debolezze e miserie. Apa Pafnunzio ne fu amareggiato e interiormente mosse il proprio giudizio di disapprovazione. Non si sentì neppure di condividere quanto aveva appreso nella meditazione del mattino e che gli aveva riempito l’animo di tanta gioia. Non valeva la pena donare una scoperta così bella a persone che non avrebbero saputo apprezzarla.
Apa Agatone infine sciolse l’adunanza. Tutti si stavano alzarono in silenzio per tornare nelle proprie grotte.
Fu allora che un bagliore di luce s’accese nel cuore di apa Pafnunzio. In un baleno comprese, e con la mano fece segno di restare. Tutti lo guardano con sguardo meravigliato e interrogativo. “Chiedo la parola, apa Agatone”. “Hai la parola”, gli rispose apa Agatone.
“Questa sera – disse apa Pafnunzio – vi ho guardati con questi miei occhi annebbiati e di ognuno ho visto povertà e mancanze. Ma ora vi guardo con occhio puro, come Dio vi guarda, con i suoi occhi di luce e d’amore, e vedo in voi la parola che egli ha pronunciato dall’inizio dei secoli quando vi ha pensato ad uno ad uno, e che si compirà nei secoli dei secoli. Quella parola è appena seminata nei nostri corpi, ha appena iniziato a germinare, ma crescerà e porterà frutto, non importa se qui o nei cieli avvenire. Noi non siamo come ci vediamo, ma come Dio ci vede, ed egli ha fatto bene ogni cosa. Il paradiso sarà contemplare, pienamente attuate, le parole di vita di ognuno di noi. Sarà una meraviglia, una sorpresa, sarà stupore. Non avremmo mai immaginato tanta bellezza nell’altro, in ognuno di noi. Perché non iniziamo a guardarci già in terra come ci guarderemo in cielo? Perché non ci aiutiamo a diventare quello che siamo agli occhi di Dio?”.
Era ormai notte. Eppure i sette probatissimi monaci di quell’ermo che confina co’ Saraceni, non si muovevano più dal loro posto. Si guardavano in silenzio, beati di gioia.

sabato 8 febbraio 2014

Apa Pafnunzio vide che tutto era buono


Anche quella mattina, quando apa Pafnunzio si affasciò sulla soglia della cella e vide il cielo cenerino striato dai riflessi rosa dell’alba, ringraziò Dio che ha fatto bene ogni cosa. Un leggero brivido di freddo lo scosse piacevolmente. L’aria fredda era limpida e pura come all’inizio dei tempi. Le otarde appena alzate in volo radente, silenziose, ravvivarono il paesaggio solitario. Dio aveva davvero fatto bene ogni cosa. Anche apa Pafnunzio, assieme a Dio, vide che tutto era buono.
Ma anche quella mattina ebbe una distrazione e, scostandosi dalla contemplazione della natura fresca e bella che lo circondava, guardò se stesso. Il creato non gli parve più così bello. S’era fatto anziano, ma le sue membra erano ancora armoniose e forti. No, non era l’aspetto fisico a parergli sgraziato, era la sua vita, il suo cuore, l’uomo interiore.
Rientrò nella cella e si pose seduto davanti all’icona del Cristo. “Hai fatto bene ogni cosa. Proprio ogni cosa?”, gli chiese. “Ogni cosa”, gli rispose il suo Signore. “Anche me?”. “Anche te”.
Perché, si domandò l’apa, Lui mi vede in modo diverso da come mi vedo io?
Durò a lungo la sua meditazione. Fin quando comprese.
Comprese che Dio lo guardava con occhi diversi. Lo guardava come lo aveva pensato da sempre in cuor suo (il cuore di un Dio!). Non poteva non essere buono e bello come tutto quanto Egli aveva creato.
Anche adesso Dio, quando pensava ad apa Pafnunzio, e lo pensava così come da sempre l’aveva pensato, provava un’intima gioia (l’intimo di un Dio!), e si compiaceva di averlo chiamato per nome, nome unico e irrepetibile, ineffabile, e di averlo creato come la più buona e la più bella di tutte le sue creature.
Quando poi lo guardava là sulla terra, nella sua umile cella, perduto nel deserto, si muoveva a compassione, consapevole dell’infinita distanza tra come Egli l’aveva pensato e come l’apa s’era ridotto. L’amava con tutto l’affetto d’un Dio perché apa Pafnunzio potesse giungere ad essere così come Lui l’aveva pensato. Continuava a ripetere il suo nome, a pronunciare ancora quella parola che gli aveva dato esistenza e che sarebbe risuonata in eterno. Il Paradiso apa Pafnunzio sarebbe stato per sempre come Dio l’aveva pensato e amato.
Apa Pafnunzio si guardo con gli occhi di Dio e vide che davvero tutto era buono.

venerdì 7 febbraio 2014

La mia ape aveva ragione


 

Questa sera piove, come al solito in questi giorni. Ma subito dopo pranzo ho fatto due passi a Villa Carpegna. Non un raggio di sole, come ieri, ma una cascata. 
Sui prati le prime margherite, tutte rivolte verso il sole, in obbediente risposta a una silente chiamata: isolate o a ciuffi, fremevano al soffio del vento, contente di mostrare che la primavera fa capolino, come loro tra l’erba. 
La mia ape di ieri diceva la verità. 

giovedì 6 febbraio 2014

Annuncio di primavera




Dopo lunghi giorni
di pioggia battente
un raggio di sole.
Un’ape è venuta a posarsi
sulla mia spalla:
mi ha annunciato l’arrivo
della primavera.

mercoledì 5 febbraio 2014

martedì 4 febbraio 2014

L’amore reciproco di Karl Marx



“Quando il tuo amore non produce amore e attraverso la tua manifestazione di vita di uomo che ama non fa di te un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura” (Karl Marx, 1844).

Il compagno Marx, in questo suo famoso aforisma, dimostra di saperne qualcosa sul comandamento dell’amore reciproco dell'ebreo Gesù. 

lunedì 3 febbraio 2014

Sant’Eugenio e la principessa santa

La tomba di Maria Cristina di Savoia

Nel mio ultimo viaggio a Napoli ho visitato la tomba della principessa Maria Cristina di Savoia, nella basilica di Santa Chiara. In questi giorni, il 25 gennaio 2014, in questa chiesa, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione dei Santi l’ha proclamato beata. Nacque a Cagliari da Vittorio Emanuele I e da Maria Teresa d’Austria Este, in esilio, il 14 novembre 1812. Era il periodo napoleonico in cui Stati e sovrani erano rimescolati come foglie al vento. Dopo la sconfitta di Napoleone, Vittorio Emanuele I poté lasciare Cagliari e rientrare a Torino. L’anno seguente, 1815, richiamò dalla Sardegna anche la moglie e le quattro figlie: Maria Beatrice, Maria Teresa, Marianna e Maria Cristina. A Torino la bambina venne educata dalla mamma, molto pia, e dal cappellano di corte, P. G. Battista Terzi. La giovane principessa dedicava molto tempo alla preghiera e alla sua istruzione religiosa, insieme alla cultura adatta alla sua condizione.
Nel 1825 Maria Cristina fu a Roma per il giubileo: visitò chiese, luoghi sacri e vide più volte papa Leone XII. Vari furono gli episodi di devozione religiosa e di umiltà che crearono intorno a lei un alone quasi leggendario. Dopo sei mesi rientrò a Genova, poi fu di nuovo a Roma a fine anno, e fino a metà del 1826. Fu proprio in quell’anno che Eugenio de Mazenod, a Roma per l’approvazione delle Regole, la vide.
In questi giorni sono tornato nella chiesa di san Silvestro al Quirinale dove sant’Eugenio abitava durante i suoi soggiorni romani, e dove vive la regina e la principessa, come scrive nel diario:
San Silvestro al Quirinale
La Regina di Sardegna e le sue figlie sono venute a sentire le istruzioni nella galleria della nostra chiesa. Queste istruzioni devono ruotare attorno al sacramento della penitenza, per preparare i fedeli alla dignità Pasqua. (Diario, 5 marzo, 1826). In serata, ho frequentato il catechismo nella chiesa della casa dove vivo. La Regina di Sardegna e le sue due figlie, che soggiornano al Palazzo del Quirinale, vengono ad assistervi regolarmente. Questo esercizio, ripetuto in trenta chiese di Roma per otto giorni consecutivi, deve essere molto utili ai fedeli che vi accorrono in folla. La nostra missione oggi ha fatto il suo catechismo sui peccati di scandalo. I Vincenziani fare lo stesso esercizio ogni giorno nelle loro missioni. (Diario, 7 marzo 1826)
Al momento dell’abdicazione di Vittorio Emanuele I, in mancanza di un discendete maschio, il regno era andato al cugino Carlo Alberto. Il giorno successivo alla morte della madre, avvenuta a Genova, giunse perentorio a Maria Cristina l’ordine di trasferirsi immediatamente a Torino. Carlo Alberto temeva, infatti, che ella potesse sottrarsi all’impegno delle nozze, necessarie per consolidare i rapporti con il Regno delle Due Sicilie. Data in sposa a Ferdinando I, re delle Due Sicilie, restò incinta nel 1835. L’erede al trono, il futuro Francesco II, nacque il 16 gennaio 1836. Poco più che ventitreenne, Maria Cristina morì a Napoli il 31 gennaio 1836 per le complicazioni sopravvenute.

domenica 2 febbraio 2014

Con Gesù Bambino in braccio



“Il vecchio portava il bambino,
e il bambino sosteneva il vecchio”.
Così l’antifona al Magnificat della vigilia del 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù al tempio.
È bello il vecchio Simeone che prende da Maria il bambino e lo porta tra le sue braccia come un nonno.
È il desiderio di tanti. Alcuni sono stati esauditi, come san Francesco, sant’Antonio di Padova.
Possiamo essere esaudito anche noi. Anzi di più. Ogni giorno, nell’Eucaristia, l’unità è ancora più profonda: noi lo riceviamo, lui ci sostiene.

“I miei occhi hanno visto la tua salvezza:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele”.
Così il versetto dell’Alleluia alla messa di oggi.
Il lettore, di sua spontanea iniziativa, ha aggiunto un ulteriore bellissimo versetto che ci ha fatto tutti sobbalzare di gioia:
“Beati i genitori
che presentano i loro figli al Signore”