lunedì 30 settembre 2019

La vera icona


Alla donna che, secondo la tradizione popolare, asciugò il volto a Gesù sulla via del Calvario, viene dato il nome di “Veronica”. Il suo nome si confonde con la “vera icona” che Gesù lasciò impressa nel suo panno. Dove si trova oggi quella tela? In uno dei quattro pilastri che sostengono la cupola di san Pietro a Roma, a Monopello in Abruzzo, nelle città di Jaén e Alicante in Spagna?
La “vera icona” di Gesù, il suo vero volto, è sul volto degli uomini e delle donne nostri fratelli e sorelle.

L’uomo e la donna, culmine del creato, sono il capolavoro di Dio. Dopo averli plasmati Dio vide che non solo erano «belli e buoni» come le altre cose che aveva creato, ma «molto belli e buoni». «Come sei bella, amica mia», canta lo sposo della sposa (Cant, 1, 15; 4, 1). «Tu sei il più bello tra gli uomini», le risponde la sposa (Sal 45, 3).
Se la via che conduce a Dio la è bellezza – via pulchritudinis –, la via più sicura, la direttissima, che ci immunizza da ogni estetismo e da ogni illusione, è l’altro, il fratello. “Non posso amare Dio che non vedo, se non amo il fratello che vedo” (cf. 1 Gv 4, 20).
Abbiamo bisogno di “vedere”, la bellezza si vede.


Le sacre icone orientali sono tornate di grande attualità: si venerano anche in Occidente, si continuano a dipingere, o a “scrivere”, come si dice, si riscopre la profonda teologia che esse racchiudono. Ma non dimentichiamo che l’uomo e la donna sono l’autentica e la più bella icona di Dio, la “vera icona”, perché Dio li ha creati a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27). Se le icone che veneriamo nelle chiese sono opera di iconografi santi, l’icona dell’uomo e della donna è stata “scritta” da Dio stesso. Nell’opera redentrice Cristo quell’immagine è restituita in tutta la sua bellezza, sulla somiglianza del più bello tra i figli dell’uomo. La bellezza che splende sull’Uomo, il Signore nostro Gesù Cristo, rimbalza dentro colui che la contempla e lo investe e lo trasforma. Paolo l’ha espresso con una frase densissima, nella quale mostra come il raggio della bellezza di Dio prima risplende nella creazione, poi si riflette sul volto di Cristo e infine penetra dentro di noi: «E Dio che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6). Siamo belli della bellezza di Cristo e grazie alla sua bellezza: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18).

In questi giorni, sapendo che avrei dovuto preparare una conferenza sulla bellezza, una maestra mi ha scritto: «Anch’io sono stata e sono ancora conquistata dalla Bellezza. Ma le opere di arte, di tutti i tipi, sono solo produzione della Bellezza. Quella vera sono le persone. A scuola, in classe, quando guardo ad uno ad uno i piccoli alunni chini sui lavori o mentre mi parlano, penso “Com’è bello!”».
Cos’è che fa belle le cose e le persone? La luce che è dentro di loro – lo Spirito Santo –, che sprigiona da loro e che, nello stesso tempo, è più grande di loro. Quell’ordine e quell’armonia che tiene in rapporto d’amore tutte le cose, quella luce che da esse si sprigiona e le fa apparire belle, è il sigillo di Dio, che è Bellezza.
Cos’è che fa belle le cose e le persone? La luce che è dentro di loro – lo Spirito Santo –, che sprigiona da loro e che, nello stesso tempo, è più grande di loro. Quell’ordine e quell’armonia che tiene in rapporto d’amore tutte le cose, quella luce che da esse si sprigiona e le fa apparire belle, è il sigillo di Dio, che è Bellezza.



domenica 29 settembre 2019

Chiamare ciascuno per nome


Festa in via Aurelia 290.
Le tre comunità sono riunite al completo.
È il compleanno del superiore generale e l’anniversario della sua elezione.
E cosa ha fatto p. Louis?
All’omelia ci ha nominati uno per uno, chiamandoci per nome uno per uno, e siamo settanta!
Uno per uno perché ognuno è unico e irrepetibile, con un suo nome e una sua storia.
Voleva ringraziare ciascuno per la sua presenza, il suo lavoro.
È la dimostrazione di un amore concreto e personale.
Ognuno di noi è dovrebbe sempre riflettere l’amore di Dio, che chiama ciascuno per nome: ai suoi occhi non siamo numeri, ma persone.

sabato 28 settembre 2019

Un mendicante di nome Lazzaro

Evangeliario di Echternach (VIII secolo)

«C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.  Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe» (Lc, 16, 19-30).
Lazzaro. È l’unico personaggio delle molte parabole a cui Gesù dà un nome. E non è certamente un nome che spunta lì a caso. È il nome dell’amico di Gesù che è davvero risorto, come il povero della parabola.
Viene naturale fare il confronto con l’uomo ricco che invece è senza nome.
Tutto il contrario di quando avviene abitualmente: chi è ricco e ha potere si fa un nome, che è povero e insignificante non lascia traccia di sé nella storia.
Forse è proprio questo l’insegnamento di Gesù. 

La parabola è infatti collocata in un contesto preciso: Gesù, rivolgendosi ai farisei attaccati al denaro, aveva appena detto: “Ciò che tra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Mi dispiace, ma questa gliel’aveva insegnato la mamma! Nel Magnificat aveva cantato: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”). La parabola ne è un esempio concreto: c’è un riccone che tutti esaltano e c’è un poveraccio che non è nessuno. Ma questo è come si vedono le cose dal basso, secondo l’opinione pubblica, è quello che dicono i mass media. Dall’alto le cose si vedono in altro modo e la storia si capovolge.

I mezzi di comunicazione, che condizionano il nostro modo di vedere e di giudicare, ci fanno vedere sempre e solo la prima parte della parabola, ma è una storia che dura poco. La seconda parte della parabola si svolge altrove e non si può registrare, neppure di nascosto, con un telefonino, ed è la storia vera, che dura per sempre.
Chissà che ascoltando il Vangelo di questa domenica non impariamo davvero a guardare le cose con occhi diversi, come le guarda Dio: “Ciò che tra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (16, 15).

venerdì 27 settembre 2019

50 anni fa i primi passi



Il 28 settembre 1969, 50 anni fa, iniziavo il noviziato.
Ho già riportato la pagina di diario di quel giorno:
Ci sono altre pagine che testimoniano i primi timidi passi di quel periodo.
Sono molto semplici, ma dico la volontà di andare avanti…
Eccone una:

Il colloquio con p. Santino è stato meraviglioso...
Gli ho comunica il mio dispiacere nel non riuscire ad amare fino in fondo il fratello che mi viene a disturbare mentre studio… Come mi sforzo di amarlo! Eppure dopo mi accorgo di non essermi dato a lui fino fondo. Ma è proprio Cristo, il Verbo che un tempo incarnato in Gesù è ora incarnato nel fratello. Anche con tutto questo disagio di non vedere in me l’adesione totale a Cristo che ama fino alla morte, ho tanta serenità…
Gli ho detto anche quello che pian piano sta entrandomi dentro: il criterio per cui il tempo è impiegato bene o male, la vita è piena o vuota sta cambiando. Il criterio di prima era quello del libro: se avevo studiato molto e bene non avevo perso tempo. Adesso invece questo criterio sta cedendo il passo a un altro: amare.
È stato tra di noi un parlare veramente nell’amore. Mi sentivo come l’anima trasparente e anche quella di p. Santino mi sembrava tale.
Ogni sera vedo che sono tante le cose di cui devo chiedere perdono a Dio, rivedo ad una ad una tutte le azioni sbagliate, eppure a dispetto di questo, a dispetto della mia estrema miseria, mi sembra che Cristo in me sia cresciuto, tanto poco ma cresciuto: come non gioire con Cristo?


giovedì 26 settembre 2019

Vivere o scrivere?


“Nulla dies sine linea”, nessun giorno senza una linea, è una frase attribuita al pittore Apelle che non lasciava passar giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea.
È venuta ad indicare la necessità dell'esercizio quotidiano per raggiungere la perfezione e per progredire nel bene.
“Nessun giorno senza una riga” è anche il titolo di un libro di Jurij Oleša, e qui la riga è proprio quella della penna che scrive…
Padre Fernand Jetté diceva: “Una pagina al giorno”.
“Scrivo per comprendere” (me stesso o il mondo che mi circonda) l’hanno detto in tanti…
O più semplicemente: "Scrivo per comunicare", perché non si può vivere senza comunicare.
Sarà per questi motivi che scrivo il blog ogni giorno?

Ma c’è anche Jean-Paul Sartre che afferma: “Vivere o scrivere, bisogna scegliere”.
Mi trovo nel dilemma…

mercoledì 25 settembre 2019

Sempre sulla bellezza



La storia, o semplicemente leggenda, del principe slavo Volodymyr è nota. Quando con il suo popolo decise di abbandonare il paganesimo, inviò messi per il mondo in cerca della religione più adatta. Dopo aver scartato per molteplici motivi ebrei musulmani e cristiani latini, la scelta cadde decisamente sui bizantini: il canto, gli ornamenti, gli ori, gli incensi, le icone presentavano una fede dall'insuperabile suggestione estetica. Furono conquistati dalla bellezza.

Inizierò così la conferenza ad Assisi su “La bellezza di essere cristiani”. Alla luce di questa storia racconterò poi di alcuni dei miei viaggi.

Innanzitutto la visita al “Tempio del Monte del Drago”, il più famoso tempio di Taipei, armonioso come conviene ad un edificio cinese, dove tutto deve essere rigorosamente simmetrico, in perfetto equilibrio. Finissime le lavorazioni in pietra e in legno. Intensi e accesi i colori, netti, senza sfumature. Il cortile d’ingresso è arioso, con ai lati un laghetto ed una cascata.
Quando vi entrai, 20 anni fa, fui colpito dalla bellezza e dall’afflusso continuo di persone con fiori, bastoncini d’incenso, corone per la preghiera. Nei luoghi sperduti o in mezzo al caotico traffico cittadino tutta Taiwan è punteggiata da templi piccoli e grandi, da edicole e altarini con buddhi, dèi ed antenati. La pietà popolare si è sbizzarrita nelle forme architettoniche più armoniose, nelle sculture più fini e nelle decorazioni più colorite. Ovunque profusione d’incenso, di offerte, segni di pietà. Ogni luogo sacro è un po’ come la casa del popolo ed ogni casa è come un luogo sacro.
Seduto in un angolo del cortile del “Tempio del Monte del Drago” mi venne spontaneo il confronto con le chiese cattoliche che avevo visto nell’isola, brutte da morire, disadorne, figlie di una certa cultura post-conciliare occidentale che ha fatto piazza pulita di statue e di devozioni per concentrarsi, giustamente, sull’essenziale della celebrazione eucaristica.
Se i messi del principe Volodymyr fossero giunti a Taiwan sarebbero stati attratti, come i cinesi di oggi, dal tempio buddista, così vivo, così colorito, così arioso, così spontaneo, così bello e avrebbero scelto il buddismo… Soltanto pochi intellettuali possono apprezzare la nostra chiesa con il suo stile asciutto ed austero, tutto interiorità.


Da Taiwan a Barcellona. Racconterà di questa estate, di un giorno e mezzo passato alla Sagrata Familia, ammirando portici e guglie. Ripeterò quel che ho già raccontato sul blog. A differenza delle chiese di Taipei qui la bellezza attirerebbe anche il principe Volodymyr.

Infine un salto indietro di 1200 anni, per andare nella piccola isola di Iona dove i monaci seguaci di san Colombano crearono un autentico capolavoro, il Book of Kells.
Per ottenere i fogli del libro con pelli di prima qualità dovettero uccidere 185 vitelli di latte. L’evangeliario è scritto con un inchiostro tratto da comune solfato di ferro, ma per i colori delle decorazioni e delle pitture miniate gli artisti usarono pigmenti organici e minerali provenienti dalle lontane regioni del Mediterraneo. Tra i colori più costosi il marrone e il rosso e soprattutto il blu dei lapislazzuli, che venivano dall’unica miniera conosciuta nel Medioevo, che si trovava nientemeno che in Afganistan. Insomma, per questo libro i monaci investirono un capitale. Ma anche tempo: certe pagine per essere scritte e decorate richiedevano fino a un intero mese di lavoro. Quanto ci sarà voluto per scrivere i 340 fogli dell’evangeliario?
Gerardo Cambrense, nel 1200, lo definiva “opera non di uomini, ma di angeli”, mentre per Umberto Eco è “il prodotto di un’allucinazione a sangue freddo”.
Più semplicemente è l’espressione di un popolo di cui racchiude la cultura. Tutta l’Irlanda, tutto il popolo celtico è espresso in questi fogli, nelle sue miniature, nelle decorazioni, nel volo degli angeli e degli uccelli, nel muoversi dei pesci, dei serpenti e dei leoni, nella solennità di Cristo, di Maria, degli evangelisti. L’intero simbolismo di una nazione è qui codificato in un canone estetico di inestimabile ricchezza e bellezza.
Mentre ammiro il volume esposto al Trinity College di Dublino, penso ai monaci che hanno investito tutto nel Vangelo: beni e talenti. Hanno saputo cogliere in unità Vangelo, cultura e bellezza. Hanno qualcosa da dire anche per l’evangelizzazione di oggi.


martedì 24 settembre 2019

La morte come compimento


Ieri abbiamo dato l’ultimo addio a sr. Evanice, nostra vicina di casa.
Come prima lettura ho scelto quella che la Chiesa ci aveva offerta alle lodi del mattino:
“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1).

Dicendo “i vostri corpi”, Paolo è come dicesse “offrite voi stessi”. “I vostri corpi” è un semitismo che indica la persona. Il riferimento al corpo è tuttavia appropriato, indica la concretezza e l’interezza della persona, con le relazioni, i rapporti, i contatti.
Quello che Paolo chiede a ogni cristiano è il dono integrale di sé e di tutto il proprio mondo interiore ed esteriore.

Mi è venuto da pensare alla nostra “oblazione”, la consacrazione che è all’origine della vita di ogni Oblato, ma anche di sr. Evanise.
Non avevo mai pensato, prima d’ora, che la morte è proprio il compimento dell’oblazione, l’offerta radicale e ultima del proprio corpo, come offerta vivente, santa e gradita a Dio, come il vero culto spirituale. È la possibilità di dire, con Gesù che muore, “Tutto è compiuto”.
Bella la morte come ultimo atto d’offerta, che invera tutta la vita portandola alla sua completezza.

lunedì 23 settembre 2019

Oggi è iniziato il Sinodo sull’Amazzonia


  

Due gli Oblati nominati come padri sinodali per il prossimo Sinodo sull’Amazzonia. Vivo in comunità con uno di loro, Roberto! È stato missionario in Amazzonia, in una parrocchia che si estendeva per 450 chilometri. Per essersi messo dalla parte degli indigeni che difendevano il loro territorio, ha dovuto lasciare la missione: ne andava della sua vita.
Adesso coordina le numerose attività che si svolgeranno a Roma in occasione del Sinodo. Un Sinodo che, per noi Oblati di Via Aurelia, è cominciato questa mattina quando Roberto ci ha fatto entrare in questo vastissimo mondo.
Ha mostrato la bellezza di questa regione che copre metà del Sud America e si estende in otto nazioni; la bellezza della sua gente, composta di popolazioni molto diverse tra di loro; le minacce di distruzioni che incombono in questa parte del mondo e le implicanze per l’intero pianeta.
L’Amazzonia diventa un banco di prova per pensare un nuovo modo di essere Chiesa, capace di farsi carico della salvezza integrale della persona umana e della cultura dei popoli indigeni; per proporre un nuovo tipo sviluppo e un modo nuovo di costruire la società, un nuovo stile di vita. È un appello che va ben al di là dell’Amazzonia; parte da essa perché il punto della terra più vulnerabile, ma è un tema che ci riguarda tutti. 

“È indispensabile – ha detto pochi giorni fa Papa Francesco – prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. È triste vedere le terre dei popoli indigeni espropriate e le loro culture calpestate da un atteggiamento predatorio, da nuove forme di colonialismo, alimentate dalla cultura dello spreco e dal consumismo. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma 
Può essere l’inizio di un nuovo cammino più responsabile, condiviso, alla scoperta della grande varietà di doni. Un cammino nuovo per l’evangelizzazione.


domenica 22 settembre 2019

Musica per Nino



Mite, Aldo, il vecchio coro della parrocchia... musicisti, compositore e cantati, tutti mobilitati per la festa di Nino, oggi ufficialmente costituito parroco della parrocchia del SS Crocifisso a Roma.
Parroco nella chiesa dove ha svolto il suo servizio da seminarista, dove è stato ordinato sacerdote.
Poi via per il mondo, cominciando dal Congo, Lourdes, Firenze...
Una carriera di tutto rispetto, sempre in prima linea, tra i giovani, come cappellano dell'università, nel mondo della comunicazione, della musica...
Ed eccolo tornato al punto di partenza. Secondo l'antico detto: parroco in urbe, vescovo nell'orbe.
Auguri, Nino!

sabato 21 settembre 2019

Lasciar vivere Cristo


Una parabola inquietante questa domenica: un amministratore disonesto additato come modello. Proprio come succede oggi!
Gesù però non lo pone ad esempio perché disonesto ma perché furbo.
Proprio come succede oggi!
Il punto però è l’invito a farsi amici con l’iniqua ricchezza.
Proprio come succede oggi!
Allora? Gesù condivide davvero la corruzione di oggi come di sempre?
La parabola porta in tutta un’altra direzione, in una direzione contraria a quella verso la quale va la corruzione: non accumulare denaro, ma disfarsi del denaro in favore di chi è bisognoso.

Perché Gesù ce l’ha tanto contro la ricchezza, al punto da dire: “Non potete servire Dio e il denaro”? Forse perché la ricchezza inorgoglisce, rende arroganti, porta a disprezzare gli altri, a sentirsi superiori…
Il motivo è forse un altro: non vuole che ci siano i poveri, per questo chiede che la ricchezza sia distribuita.
Vorrebbe una fratellanza vera tra tutte le sue creature, la reciprocità nell’amore: chi ha dona si fa l’altro amico e questi accoglie nelle “dimore eterne” colui da cui ha ricevuto il dono. Una mano lava l’altra.
Ideali troppo alti, difficili da attuare.
Devo proprio fare spazio a Gesù in me, in modo che sia lui in me a vivere, ad amare e a farmi guardare gli altri con i suoi stessi occhi, come lui li vede. Solo allora le cose funzionano.
Il cristianesimo è tutto qui, lasciar vivere Cristo.
Essere Gesù. E Gesù è tutto dono. La sua Parola è dono. L’Eucaristia è dono. La sua vita e la sua morte sono dono.
Essere Gesù per essere dono.

venerdì 20 settembre 2019

Il flauto di Krishna


Un’altra pagina del mio futuro libro, datata giugno 2002. Segna l’inizio dell’amicizia con il professor Upadhyàya e la moglie Koikyla.

Una ventina d’anni fa una piccola statua del Dio Krishna, venerata da due generazioni in una famiglia indiana, espresse un desiderio: “Mi piacerebbe essere trasferita in casa del professor Upadhyàya perché lui e sua moglie mi sono fedeli devoti”. Così l’11 novembre 1986 il bambino Krishna entrò in casa del professor Upadhyàya, direttore degli studi di ricerca post-laurea in Sanscrito e Cultura indiana antica all’Università di Bombay.
Incontro il professor, durante un simposio Indù-Cristiano. La barba bianchissima e folta gli arriva fino alla cintola. I capelli sono raccolti in una lunga treccia arrotolata dietro la nuca. La sua conferenza verte sul Bhàkti, l’amore puro che gli indù sono chiamati a vivere, in totale abbandono e fedele donazione a Dio. La sua non è una lezione teorica. Racconta semplicemente come, assieme alla moglie, vive il rapporto con il bambino-Krishna. “La statuina che è giunta a casa nostra, ci spiega, non è una semplice icona o statua o fotografia del dio Krishna: è proprio lui, è nostro figlio, un bambino vero!”.

Ogni mattina lui e la moglie vanno a porgere ossequi al loro Dio. Gli tolgono la coperta dal letto, gli cantano una dolce melodia, gli porgono davanti una piccola giara d’acqua pregandolo di volersi lavare da sé. Altre volte preferiscono lavargli loro stessi denti e viso. Prendono quindi il tè e lo servono anche a lui in una tazzina che gli sistemano su un piccolo vassoio. Gli mettono sempre accanto anche dei dolci. Puliscono con cura il pavimento della stanza del bambino Krishna, e rimettono al loro posto sedili, cuscini, ventagli, tendine e il bastoncino da passeggio. Quindi gli fanno il bagno, lo massaggiano con acqua aromatizzata, tiepida d’inverno e fresca d’estate. Infine lo posano su un apposito tavolo dove lo vestono e lo adornano con fogge diverse a seconda delle stagioni, per poi adagiarlo sul suo trono. E questo è soltanto l’inizio della giornata. Ci sono i pasti, il riposo pomeridiano, le visite degli amici, le feste, il riposo serale… Il tutto accompagnato da inni, nenie e dolci conversazioni (Krishna abitualmente parla loro nel sonno). L’intera giornata ruota attorno al bambino Krishna. “Parliamo con lui – racconta il professore -, scherziamo con lui. A volte ci fa perdere la pazienza, allora cerchiamo anche di intimorirlo: Se non ti lasci vestire in fretta oggi non ti diamo i dolci. Oppure: Se non ti metti presto a letto viene il ladro di bambini e ti porta via nella grande borsa dove mette i bambini disobbedienti. Altre volte lo coccoliamo, gli diamo anche qualche puffetto. Insomma io e mia moglie viviamo spontaneamente senza fatica insieme con lui ogni momento della nostra giornata. Dio è il centro della nostra vita, tutte le nostre attività sono rapportate a lui”.

Mi ha incantato la semplicità di questo grande professore, così come la sua grande fede e la profonda devozione. Mi ha ricordato quello che anch’io come cristiano sono chiamato a vivere: stare sempre alla presenza di Dio, agire costantemente in lui e per lui.
Ho quindi pensato di andare a visitarlo nella stanza d’albergo dov’è ospitato. O meglio, ho voluto andare a vedere il suo “bambino” (naturalmente se l’è portato con sé a Roma). Mi tolgo le scarpe in segno di rispetto ed entro nella stanza. Sono accolto con profonda cordialità e vengo invitato a sedermi per terra, sul tappeto, davanti al piccolo Krishna. Con mia sorpresa mi accorgo che sono due gemelli, grandi appena cinque centimetri. La signora mi mostra l’intero guardaroba del Dio. Presto dovrà preparargli un vestito nuovo perché ad agosto celebra il compleanno. Noto che il piccolo Krishna (in verità i due gemelli) ha in mano un minuscolo flauto e mi interesso anche a questo strumento.

Nel pomeriggio, prima di riprendere i lavori del dialogo Indù-Cristiano, il professor Upadhyàya mi viene incontro eccitato: “Durante la siesta mi è apparso il piccolo Krishna e di ha detto: Sono stato contento che il tuo ospite sia venuto a farmi visita. Hai visto come si è interessato del mio flauto? Ho un messaggio per lui: Digli di essere vuoto come un flauto, in modo che attraverso di lui possa far risuonare le mie melodie”.


giovedì 19 settembre 2019

Il libro


Quasi quasi preparo uno dei miei soliti libretti a tiratura 10-20 copie per gli amici stretti. Mi sono infatti capitati tra mano i racconti di incontri fatti una ventina d’anni fa con tante persone in tante parti del mondo. Li ho riletti con gioia, ricordando tutti e ognuno come fosse adesso. Tra gli atri c’è addirittura… l’incontro con un libro!

Era rimasto sullo scaffale per vent’anni esatti. Sicuramente l’aveva comprato p. Giovanni, o forse glielo aveva regalato l’autore (lui, p. Giovanni, ne conosce di biblisti! è un po’ il papà di tutti i biblisti italiani).
Un libro senza tante pretese, in quanto a grafica, ma di contenuto semplice e profondo. Appena era arrivato nella grande biblioteca si era sentito onorato: qualcuno gli riconosceva il valore di cui era consapevole. Pregustava il calore delle palme che lo avrebbero accolto e la carezza delle dita che voltano i fogli. Si aspettava che qualcuno lo prendesse subito in mano, sfogliasse con calma le sue pagine, leggesse con attenzione i caratteri che gli erano stati stampati sopra. Sentiva già lo sguardo che lo avrebbe scrutato, riga per riga. Era sicuro che dopo un po’ il lettore lo avrebbe socchiuso, tenendogli dentro l’indice per segno, e lo avrebbe adagiato con cura sulle ginocchia. Quindi, trascorso un adeguato tempo di meditazione, sarebbe stato nuovamente aperto e ancora sfogliato.
Ma per quanto fosse lì in bella mostra, nessuno si accorgeva di lui.
All’inizio ne fu irritato. Si ricordò tuttavia che una delle qualità del libro è la pazienza. Non è mica come un programma televisivo che si consuma in un attimo. No no, il libro deve stare lì, disponibile, per essere letto a tempo opportuno. Non c’è fretta per un libro.
Intanto passavano gli anni e nessuno lo degnava di uno sguardo. Il libro si scoraggiò, infine si rassegnò: poteva tranquillamente lasciarsi scivolare in letargo. Nessuno avrebbe più pensato a lui. Ci sarebbero state ulteriori edizioni, nuovi studi e lui certamente sarebbe andato fuori moda. (Eppure una vocina dentro gli diceva: può mai un libro andare fuori moda? un libro serio come sei tu?).
Quando qualcuno, raramente, gli passava davanti, si svegliava appena appena dal letargo, senza agitarsi troppo. Allora si rendeva conto, con pacata tristezza, che in lui non rimaneva più traccia delle velleità giovanili. C’era soltanto il lento passare degli anni, il buio della biblioteca, la polvere che lenta e inesorabile lo andava ricoprendo, l’incuria del bibliotecario. Ormai ne era certo, non si sarebbe più mosso da lì (e difatti era quasi incollato con i due libri che da anni gli si erano pressati contro).
  
Era un libro che cercavo da tempo. L’ho visto per caso un giorno che sono passato da quelle parti. L’ho preso senza dire niente a nessuno. Sai come si fa con i libri, si prendono in prestito…
Il vecchio libro deve essere rimasto sorpreso, meravigliato che qualcuno pensasse ancora a lui. Anzi, a dire il vero lì per lì c’è rimasto anche male. Era contento di rimanersene pigramente sullo scaffale. Zitto zitto, buono buono, si era proprio adagiato; in fondo ci stava bene in quella rassegnazione triste. Non gli interessava più la vita, gli bastava non morire, che non lo mandassero al macero (era sicuro che mai gli sarebbe capitata una fine così miserevole: era entrato in una biblioteca seria, dove cose del genere non si fanno!).
Quando si sentì strappare dallo scaffale, sul quale era sicuro di rimanere per l’eternità, ebbe un sussulto. Un fremito di paura gli percosse il dorso da cima a fondo e ravvivò i colori già un po’ sbiaditi con il nome dell’autore e il titolo dell’opera. Ora, pensò, metteranno all’aria le mia pagine… Soffiai su per togliere la polvere e lui gemette: Non sono abituato a respirare a pieni polmoni.
Era ben rilegato, ma quando lo aprivo emetteva lievi lamenti. Il dorso non si era mai mosso prima di allora e scricchiolava penosamente. Dopo tanto tempo passato nella penombra della biblioteca gli costava stare alla luce. In fondo in fondo però si sentiva che era contento di essere tenuto tra le mani. Non era nato per essere letto?

L’ho letto tutto, con calma, proprio come lui si era sognato quando era uscito dalla tipografia, fresco di stampa. E quando lo tenevo socchiuso, con il dito tra le pagine, e lo dimenticavo per lasciarmi condurre là dove lui voleva, lo sentivo gongolare.
Però gli ho fatto fare una vitaccia e questo lui non se l’aspettava. L’ho portato con me in giro per il mondo e lo tiravo fuori nei momenti e nei luoghi meno adatti. Così si è sgualcito e anche un po’ sporcato. E guarda caso, più smetteva di essere un libro nuovo di zecca più era contento. Alla fine gli piaceva più diventare un libro usato e bistrattato che starsene bello tranquillo in biblioteca come aveva fatto per tanti anni.
Ora che ho finito di leggerlo l’ho rimesso su uno scaffale. Non quello antico dove l’avevo trovato, ma quello della mia stanza, più arioso e luminoso (non chiedermelo indietro, p. Giovanni, per favore…). Vedo che ogni tanto si appisola, ha ritrovato la sua quiete, ma non è più il libro di prima: finalmente si sente realizzato! Si è dato.
Quando casualmente lo sfioro con la mano, alla ricerca di altri libri di Sacra Scrittura, ha un sussulto di gioia. C’è un segreto sguardo d’intesa.


mercoledì 18 settembre 2019

Ricevo molto, molto più di quello che do!


Appena una carissima amica canadese ha letto il mio blog di ieri su bellezza e bruttezza, mi ha subito scritto la sua esperienza:

Jean Vanier disse che saranno i portatori di handicap a unire il mondo! Quando andai a Lourdes con il pellegrinaggio di “Fede e Luce” (negli anni '90), vidi gruppi di portatori di handicap da tutto il mondo!
Fu una sensazione molto forte scendere insieme dalle colline alla grotta, con i nostri vari popoli e le bandiere dei nostri Paesi! Erano tutti in armonia a causa delle attenzioni e degli aiuti da fare ai portatori di handicap. Non importava la lingua o la cultura, eravamo tutti lì per aiutarci a vicenda. C'era un vero senso di gioia tra tutti ed era quasi travolgente! La nostra comunità del Canada occidentale acquistò una sedia a rotelle per una madre dal Messico perché doveva portare ovunque in braccio suo figlio. Fu così riconoscente che scoppiò in lacrime! Questa esperienza mi resta sempre nella mente.
Inoltre, ogni volta che lavoro con persone con disabilità, sono colpita dal fatto che anche se non possono parlare o comunicare in modo efficace, possiamo entrare in comunione con l’anima. È intuitivo e semplice, davvero il dono della presenza (è l'amore di Dio). Quando devo stare da loro durante la notte, mi comunicano un gran senso di pace. Sono come dei neonati, che dipendono totalmente dai genitori: dipendono da me! Penso che sia questo il modo in cui Dio desidera che viviamo, dipendenti da lui. Che benedizione è tutto questo per me negli oltre quarant'anni che vivo con loro. Ricevo molto, molto più di quello che do!
Se mai mi sentissi giù di morale a causa di disturbi fisici, emotivi, mentali o spirituali, penso ai miei amici con disabilità e mi rendo conto di non avere nulla di cui lamentarmi.
Sento spesso che siamo interdipendenti e che non potrei vivere pienamente senza di loro, proprio come loro non potrebbero senza di me. È un grande mistero, vero?

martedì 17 settembre 2019

Bellezza o bruttezza?



In un suo scritto sulla bellezza il card. Ratzinger metteva a confronto due frasi della Scrittura:
- “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra e diffusa la grazia”
- “Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore”.
Com’è dunque Gesù, bello o brutto?
La bellezza si mostra anche nella bruttezza?
Ed ecco la conclusione di Ratzinger: «Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine - la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza: la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo».

Mi torna alla mente uno scritto di Michel Pochet, che ha capovolto la famosa frase di Dostoevskij affermando: “Il brutto salverà il mondo”. «Quando si parla di bellezza, grande è il pericolo di confonderla con l’armonia in un senso limitativo. Così compresa, la bellezza sembra esclusa radicalmente dall’esperienza dell’arte del nostro secolo. Infatti l’arte del nostro secolo ha turbato e talvolta scandalizzato i credenti, come se avesse tradito la sua vocazione. Se l’oggetto dell’arte non è la bellezza, quale ragione ha di essere? Se non ci mostra la traccia del Creatore nella creazione, se non è porta regale del paradiso che senso ha?... Se si pensa in questo modo si dimentica che quel Figlio, Splendore del Padre, è anche il verme della terra, e perciò che la bellezza può anche apparire come il brutto, e può morire. Mi si dirà che il Figlio è, sì, morto, ma che dopo tre giorni è risorto. Allora invocherò la bellezza al di là della morte della bellezza».

Pensando alla conferenza che devo fare ad Assisi, su “La bellezza di essere cristiani”, mi tornano alla mente i quattro anni passati al Cottolengo di Torino, in mezzo a tante bruttezze umane. Eppure l’amore paziente e generoso di chi aveva scelto di vivere con loro le rendeva belle.
Come non ricordare gli ospedali, che sono stati inventati dal cristianesimo? La cura dei poveri, degli emarginati, degli orfani, delle minoranze, degli scarti dell’umanità?
Che impressione bella mi ha fatto entrare per la prima volta in una delle case famiglie a cui ha dato vita Jean Vanier e trovare persone che si dedicano ai malati mentali rendendosi familiari di chi non ha più famiglia…
In mezzo a tanta bruttezza risplende la bellezza dell’essere cristiani, capace di trasformare il brutto in bello.

lunedì 16 settembre 2019

Che bello!



“Che bello!” Quante volte lo dico! Me l’ha fatto notare anche una delle mie compagne di viaggio in Spagna.
“Che buono!” si dice soltanto davanti a un piatto o a un gelato. “Che vero!” quasi mai.
Invece “Che bello”… Chissà perché.
Presto ad Assisi dovrà tenere una conferenza dal titolo: “La bellezza di essere cristiani”. Sto pensando a quello che dovrò dire.
Forse la prima cosa sarà quella di scoprire la bellezza di Dio, che si riflette sulle sue creature.
Dio stesso, al termine della creazione, disse: “Che bello!”.
Anche il sole, al dire della Bibbia, la mattina quando sale su in cielo e guarda in basso esclama: «Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo» (Sir 43, 2).
Che belli i tramonti in Camerun, che bello il lago silenzioso attorniato dal verde…
L’uomo e la donna, culmine del creato, sono più belli ancora. Dopo averli plasmati Dio vide che non solo erano «belli e buoni» come le altre cose, ma «molto belli e buoni». «Come sei bella, amica mia», canta lo sposo della sposa (Cant, 1, 15; 4, 1). «Tu sei il più bello tra gli uomini», le risponde la sposa (Sal 45, 3)....


Cos’è che fa belle le cose e le persone?
La bellezza è una luce che è dentro di loro, che sprigiona da loro e che, nello stesso tempo, è più grande di loro.
Quell’ordine e quell’armonia che tiene in rapporto d’amore tutte le cose, quella luce che da esse si sprigiona e le fa apparire belle, è il sigillo di Dio, che è Bellezza.

Anche Gesù è bello. Sul monte Tabor Pietro Giacomo e Giovanni videro splendere il suo volto e ne furono talmente rapiti che venne loro spontaneo esclamare: «Che bello!» (Mt 17, 4). Non dissero “è bene”, dissero proprio “è bello!”
È una bellezza che rimbalza dentro e investe e trasforma. San Paolo l’ha espresso con una frase densissima, nella quale fa vedere come il raggio della bellezza di Dio prima risplende nella creazione, poi si riflette sul volto di Cristo e infine penetra dentro di noi: «E Dio che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6).

Siamo fatti per il bello!
«Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini...», ha detto il Concilio rivolgendosi agli artisti.
Non ci sentiamo tutti un po’ artisti?
Mostrare la bellezza è allora la missione del cristiano.

domenica 15 settembre 2019

Con i Cosacchi della vecchia Russia



In Francia ha ricevuto il premio “Libro di spiritualità 2018”. È la testimonianza di un “giovane” ortodosso russo, Alexandre Siniakov, che dalle steppe del Caucaso si è trapiantato in Francia. Cresciuto in un kolchoz, cooperativa agricola sovietica, in una famiglia di Cosacchi, giunge gradualmente alla fede e decide di diventare monaco.
Attraverso la storia della sua gente, quella familiare e personale, Sinikon lascia traspare il mondo ortodosso nella grande varietà di forme e di tradizioni.

Comme l’éclair parte de l’Orient (tradotto anche in italiano dalla San Paolo) introduce in ambienti paesaggistici, storici, spirituali inusuali e poco noti, che danno all’autore la possibilità di offrire spunti di riflessione sulla tradizione e la fede cristiana, sul dialogo ecumenico, la visione di Chiesa… un libro che interpella e fa pensare.
Mi ha accompagnato nel viaggio in Africa dilatandomi gli orizzonti.


sabato 14 settembre 2019

Rientrò in sé stesso e si alzò


“Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre…” (Lc 15, 1-32) 

Il Padre è sicuramente l’attore centrale della parabola.
- Per primo, da lontano, vede venire il figlio: l’ha sempre atteso e non ha mai cessato di amarlo;
- è sconvolto fino alle viscere: lo stesso verbo che il Vangelo riserva per Gesù quando si commuove davanti alle folle;
- si mette a correre: comportamento non dignitoso per la sua età e autorità;
- si getta al collo del figlio, e quindi impedisce a quest’ultimo di umiliarsi, come aveva progettato di fare, gettandosi ai suoi piedi;
- lo bacia in segno di perdono e di comunione.
Seguono tre gesti simbolici ad indicare la completa reintegrazione nella relazione filiale:
- il dono della veste lunga, di festa che serve a onorare l’ospite o a significare la sua dignità di figlio (un vestito prezioso costituiva spesso il regalo che un re faceva a un suo suddito che voleva onorare); l’ordine del padre è, letteralmente, “fare uscire di nuovo” dall’armadio o dal baule in cui la veste era conservata: non l’aveva data a nessun altro, l’asserbava per il ritorno del figlio!
- l’anello al dito, probabilmente con il sigillo, e quindi il ragazzo viene ristabilito nella dignità filiale con tutta l’autorità e poteri ad essa annessi;
- i sandali: sono il segno di un uomo libero (lo schiavo camminava a piedi nudi). Gli ospiti quando arrivavano si toglievano i calzari, il figlio è invece calzato.
Non manca naturalmente il banchetto e i festeggiamenti!
Così fa con noi il Padre celeste.

Del figlio scapestrato mi colpiscono due verbi che indicano azioni apparentemente contrarie: rientrare in se stessi e alzarsi.
Si vede che il figlio minore aveva ascoltato il vangelo di domenica scorsa! quando Gesù chiedeva di sedersi a pensare.
Fa proprio così. Davanti a una situazione tragica come quella nella quale si trova, la cosa più saggia è fermarsi, sedersi e pensare con calma: “Rientrò in sé stesso”.
Fino a quel momento era stato sempre fuori, dissipato, dis-tratto, attratto dalle tante cose belle che aveva attorno a sé. Preso dall’ebbrezza della libertà, dal potere dei soldi, figuriamoci se aveva tempo per pensare. La vita spesso non è nelle nostre mani, siamo pilotati dal di fuori, da altri e da altro.
Il grande cambiamento avviene quando finalmente decide di “entrare dentro di sé”, di cominciare a ragionare, a pensare con la propria testa, operazione oggi (come allora) sempre più difficile.
È una tappa fondamentale della conversione, del ritorno a Dio.
Sant’Eugenio de Mazenod diceva che dobbiamo aiutare a diventare prima ragionevoli, poi cristiani, infine santi. Il primo passo è proprio diventare ragionevoli, umani, “entrare in sé”.

Il secondo verbo è ripetuto due volte: prima la decisione “Mi alzerò”, poi l’attuazione “Si alzò”.
Non basta pensare, bisogna agire di conseguenza. Rientrare il sé non chiude in sé stessi, diventa anzi una molla che spinge fuori, all'azione.
Alzarsi. Il vangelo usa il verbo greco anistēmi, risorgere! È vero che nel Nuovo Testamento è attestato 73 volte nel senso di sollevare, alzarsi, levarsi, ma è anche vero che per 35 volte ha lo speciale significato di risuscitare o risorgere. A nessuno dei commentatori che ho consultato è venuto in mente che qui, nel caso del figlio minore, possa esservi un accenno di resurrezione. A me invece piace pensarlo: la risoluzione di alzarsi è già una risurrezione. Si può ricominciare. Anche se le motivazioni che invitano il ragazzo ad alzarsi non sono delle più pure, non importa, basta ricominciare.

Dunque tre tappe:
- fermarsi a pensare (siamo umani!)
- prendere la decisione di alzarsi e di ricominciare
- alzarsi per davvero!
Per il resto… nessun problema: entra in azione il personaggio principale della parabola che ci aspetta a braccia aperte!