Riempire
d’acqua le taniche e le bacinelle prende tempo, anche se i rubinetti sono tre, ma
il tempo in Africa non manca. L’attesa è per chiacchierare e giocare. Sono soprattutto
i ragazzi incaricati di prendere l’acqua. Si rincorrono, si portano a turno su
una carriola, stanno seduti con pazienza attendendo il loro turno. Una volta riempiti
i recipienti se li caricano sulla testa e ripartono lentamente verso casa
sparendo per le viuzze motose.
La
fontanella è proprio fuori casa nostra. Mi fermo sul cancello a guardare il
piccolo mondo che converge e si disperde. Per il resto passo la giornata con i nostri
giovani, senza avere tempo per altre cose. Mi regalo ugualmente un momento per
pregare con il rosario lungo le stradine d’argilla rossa. Piccole puntate, di
qua e di là.
Ma ho sentito anche
una parola dura, offensiva: “bianco”.
Quasi ti fa vergognare d’essere bianco, ti
fa sentire diverso, un intruso, fuori posto. Deve fare lo stesso effetto ai neri che da noi si sentono apostrofare: “negro”. Interessante, una volta tanto,
essere dall’altra parte.
Una discriminazione
davvero superficiale, a fior di pelle. Non per questa meno dolorosa.
Eppure,
sotto la pelle, c’è un cuore. Se lo scoprissimo…
Oggi
è venuto a parlarmi Colbert, uno dei miei “watussi” (ma è dell’estremo nord del
Camerun, ai confini con il Ciad), per ringraziarmi di quello che sto donando loro
e per raccontarmi di sé e della sua famiglia.
Non
ha fatto caso al colore della mia pelle, né io alla sua.
Ci
si può scoprire davvero fratelli, perché lo siamo.
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