giovedì 28 febbraio 2013

L’ultimo saluto al Papa



Eravamo tutti sulla nostra terrazza, alla casa generalizia, quando l’elicottero si è alzato. Nel suo ampio giro su Roma è passato anche sopra casa nostra, la più alta della città, e tutti abbiamo salutato il Papa che ci salutava…
Ora il silenzio e un amore nuovo per questo “semplice pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio sulla terra”.

“In questo nostro mondo in cui tanti che non hanno il potere cercano spasmodicamente di impossessarsene, e tanti che lo hanno cercano a qualunque costo di non perderlo, la voce mite del Primate della Chiesa cristiana più numerosa al mondo, che dice di rinunciare liberamente all’esercizio dell’autorità a causa dell’indebolimento fisico e per il bene della Chiesa, si pone in netto contrasto con la mentalità corrente. Ancora una volta Papa Benedetto XVI si è mostrato coerente con la propria linea di integrità morale e non-compromesso”. (Hilarion, Metropolita di Volokolamsk, Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca)

mercoledì 27 febbraio 2013

L'abbraccio di Piazza san Pietro al Papa

“Perché vieni all’udienza?” chiedo all’amico indiano con il quale sto scendendo a Piazza San Pietro. “Per aiutarlo a salire sul monte!”  Domenica, all’Angelus, papa Benedetto aveva detto che si era sentito chiamare a “salire sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione”. 
Mi sembra una felice coincidenza che la prima lettura dell’Ufficio di oggi riporti il racconto di Mosè che, durante la battaglia con gli Amaleciti, sale sul monte e prega per il suo popolo; poiché non si stanca di tenere le braccia alzare, Aronne da una parte e Core dall’altra gliele sostengono…
Arriviamo due ore prima dell’udienza del mercoledì: sarà l’ultima di questo papa. La piazza è già piena, ma troviamo facilmente posto. Poco dopo si siede accanto a me una ragazza che si presenta. Viene dalla Svezia. “Sei a Roma in vacanza?” le domando. “No, sono arrivata ieri per partecipare all’udienza. Domani riparto. Mi ero proposta di venire a Roma quando il papa sarebbe morto, ma questo papa non muore, allora sono venuta a salutarlo per l’ultima volta”. Durante l’udienza la vedo piangere; non è la sola.
La piazza si colora, si anima. Sventolano bandiere di tutti i Paesi, si innalzano striscioni di parrocchie e associazioni o con parole rivolte al papa, i vari gruppi improvvisano canti, dal “Salve Regina” a “Volare”, i giovani, numerosissimi, si fanno sentire con i loro slogan. È una grande festa, a dimostrazione di quello che il Papa dirà nel suo discorso: “Il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui… Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, non un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti”.
Piazza san Pietro e via della Conciliazione questa mattina sono una espressione di questo corpo vivo, di questa fraternità sincera: un unico abbraccio al Papa che non abbandona la croce - come ha proclamato al mondo intero -, ma resta in modo nuovo presso il Signore Crocifisso.

martedì 26 febbraio 2013

Ci ha fatto conoscere il suo nome


È da alcuni giorni che ho trascurato di trascrivere la comprensione che apa Pafnunzio ebbe nella lettura della cosiddetta “preghiera sacerdotale” con la quale Gesù si rivolse al Padre al termine dell’ultima sua cena con i discepoli.

“Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo”, ripeté apa Pafnunzio.
Il pensiero andò subito a Mosé quando, con il gregge di Ietro suo suocero, si era avventurato oltre il deserto, arrivando al monte Oreb. Lassù, nel roveto ardente, aveva udito la voce di Dio che lo inviava a liberare il suo popolo. “Ma il popolo mi chiederà: Come si chiama questo Dio che ti manda?”, gli rispose Mosé. E Dio: “Io sono colui che sono!”. Mosè aveva fatto conoscere il nome inconoscibile di Dio.
Ora il Figlio stesso di Dio era venuto sulla terra per rivelare in pienezza il nome di Dio: “Padre”. Una rivelazione che era insieme una consegna. Gesù ci introduceva nella comunione che egli stesso aveva con il suo Padre. Dandocene il nome, ci autorizzava a chiamarlo, come faceva lui, “Padre”: “Quando pregate dite, Padre…”. Ci dava il Padre.
Continuando nella ripetizione della preghiera di Gesù, al suo termine apa Pafnunzio trovò di nuovo la medesima affermazione, che faceva intendere appieno il senso di quella rivelazione: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.
Gesù, pensò l’apa, ci fa conoscere il Padre perché questa conoscenza non è soltanto intellettuale, ma è una comunione che giunge alla partecipazione stessa della vita del Padre.
Apa Pafnunzio ne fu rapito ed esclamò: “Allora era proprio vero: la rivelazione del nome di Dio e la possibilità che mi è data di rivolgermi a lui come Padre, porta in me la sua vita, mi rende autentico figlio di Dio, di natura divina; mi dà lo stesso amore con il quale il Padre genera il Figlio. L’amore con il quale il Padre ama il Figlio è in me e quindi il Figlio stesso è in me: sono generato figlio dal Padre, sono Gesù...”
A tanto era arrivato l’amor di Dio? Che preghiera generosa e potente quella rivolta da Gesù al Padre. Nessuna gelosia, piuttosto condivisione piena.

lunedì 25 febbraio 2013

Storie vere della Lituania / 4: La nipote del Kazakistan


Quando tornai in Lituania nel 2005 la mia autista era sr. Asta, ex alunna romana. La sua storia… comincia con la storia dell’ultimo zar di Russia che dalla Germania fece arrivare in Ucraina famiglie di tecnici e agronomi con macchine e tecniche nuove per incrementare l’agricoltura di quella regione. La rivoluzione bolscevica portò drammatiche conseguenze anche alle famiglie tedesche, che furono deportate in Kazakistan. Isolati nella repubblica asiatica, le nuove generazioni di tedeschi, rimaste legate alla fede cattolica, rivolsero un appello alla Chiesa lituana: “Nonostante la religione sia bandita, voi che avete ancora preti e suore, perché non mandate qualcuno a sostenerci nella nostra fede cattolica?”
Si innesta qui l’avventura di Asta che negli anni d’università segretamente era diventata suora. Neppure i genitori sapevano perché la figlia avesse deciso di non sposarsi. Meno ancora capivano perché volesse trasferirsi a 5000 chilometri da casa, in una di quelle lontane e misteriose repubbliche asiatiche dell’impero sovietico. Asta aveva infatti deciso di rispondere all’appello che giungeva dal Kazakistan.
Con altre tre compagne si presentò all’ufficio immigrazione. Le due donne più giovani si dichiararono nipoti delle due più anziane, qualificate rispettivamente come la nonna e la zia. Queste ultime, così dicevano, avevano bisogno di un clima più caldo e le nipote erano disposte ad andate a vivere con loro in Kazakistan. “Ma dai documenti non risultavate parenti”, obietto a sr. Asta che mi racconta la storia. “I russi hanno sempre fatto difficoltà a capire i nostri nomi…”.
Ecco sr. Asta nella città di Almata. Trovò lavoro alla biblioteca nazionale mentre l’altra “nipote” faceva l’infermiera. Nelle case delle famiglie tedesche insegnavano il catechismo ai bambini, guidavano la preghiera degli adulti, accompagnavano i malati e aprivano il cielo ai morenti. Così per 10 anni, fin quando l’Unione sovietica si sfaldò. I tedeschi poterono tornare in Germania e Asta in Lituania. Nel frattempo è divenuta superiora generale della sua congregazione e presidente dell’unione delle superiore maggiori della Lituania.
In questi giorni mi ha tradotto durante il ritiro che ho dato ai vescovi della conferenze episcopale lituana.

Mi arriva un commento ai racconti lituani: “Li ho letti tutti di un fiato: che fascino queste storie! Anche noi abbiamo storie bellissime che raccontano l'eroicità dell'andare contro corrente in questa società corrotta e probabilmente saremo chiamati a esserlo ancora di più negli anni avvenire.” 

domenica 24 febbraio 2013

Il giudizio universale


Lo conosceva a memoria come tutto il resto del Vangelo di Matteo. Lo aveva ruminato a lungo, molte volte, spesso senza prestare peso alle singole parole; gli bastava gustarne il succo, proprio quanto si mangia e si parla di altro. Il racconto scorreva solenne come solenne era la scena che esso raccontava, del Figlio dell’uomo che, assiso sul trono, alla fine dei tempi si accingeva a giudicare la storia: le pecore da una parte, le capre dall’altra.
Apa Pafnunzio stava seduto, appoggiato alla roccia della cella, con le mani intente a intrecciare corde, la mente applicata allo scorrere del racconto, il cuore fisso in Dio. “Maledetti… ero carcerato e non siete venuti e trovarmi”. Quella maledizione, più volte ascoltata, gli balenò davanti improvvisa come una saetta e l’abbagliò. La corda gli cadde di mano. Aveva mai visitato un carcere?
Il vecchio apa riprese a ripetere, ora a voce alta e non più nella ruminazione della mente, le maledizioni del giudice che lo stava condannando al fuoco eterno. Già si sentiva ardere le carni. Aveva visitato gli ammalati. Si ricordava bene a quanti solitari era stato vicino nell’ultima malattia, con quanto amore li aveva accompagnati fin sulla soglia dell’incontro con Dio. Ma aveva mai dato da mangiare agli affamati, vestito gli ignudi?
Viveva lontano da città e villaggi. Era stato chiamato ad una vita di preghiera e di penitenza, a una vita di solitudine. Come poteva prendersi cura di poveri e di carcerati?
Fu colto da terrore. Come avrebbe potuto presentarsi davanti al giudice? Lo avrebbe posto alla sua sinistra, lo avrebbe dichiarato maledetto, l’avrebbe allontanato nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli.
Gli tornò alla mente Cirillo, un vecchio amico dei tempi andati, mercante facoltoso, che continuava a dedicare ai poveri il frutto del suo commercio. Gli tornò alla mente amma Tecla, che tesseva tuniche per vestire gli ignudi, la vedova Macrina che nella grande città di Alessandria ogni giorno si recava a portare il cibo ai prigionieri senza famiglia. Come sarebbe stato dolce per loro il giudizio finale, quando si sarebbero sentiti dire: “Venite benedetti…”. Loro benedetti, lui maledetto.
Soltanto raramente poteva godere della visita di questi suoi antichi amici, eppure si sentiva legato a loro da profonda comunione. Ogni volta lo ringraziavano perché aveva dedicato la vita a quella semplice umile opera di misericordia, pregare per i vivi e per i morti. Sì, soltanto questo sapeva egli fare. Sentiva un tale amore per l’umanità intera che avrebbe voluto essere maledetto lui stesso dal Cristo al posto dei fratelli peccatori, come l’apostolo Paolo avrebbe voluto essere anatema al posto loro. Quante volte si era trovato a ripetere: Rimetti loro il peccato, altrimenti cancellami dal libro che hai scritto.
Ora scopriva con terrore che davvero sarebbe stato cancellato dal libro della vita, ma non per l’atto eroico di dare la vita per i fratelli, ma per quello esecrabile di non aver dato loro da mangiare, di non averli visitati nella loro prigionia.
Invece Cirillo, amma Tecla, la vedova Macrina…
Apa Pafnunzio entrò nella cella, accese il lume davanti alla Madre della Misericordia e stette a contemplarla. Con passare delle ore tornò nel cuore la pace e perdette ogni preoccupazione per il giudizio finale.
Fu allora che, in compagnia della Madre, fiorirono alla memoria le parole del santo padre Basilio: “Nessuno basta a ricevere tutti i carismi spirituali. Nella vita comunitaria il carisma proprio di ciascuno diviene comune a tutti quelli che vivono con lui, l’energia dello Spirito che è in uno passa a tutti, si fruisce del proprio dono e lo si moltiplica col farne parte, si gode del frutto dei doni altrui come del proprio”. Egli non viveva in comunità, ma la sua comunione abbracciava Cirillo, amma Tecla, la vedova Macrina e tanti altri che conosceva e che non conosceva, con i quali si sentiva un corpo solo, nella comunione dei santi. Il piccolo povero dono che possedeva, la preghiera per tutti, lo condivideva con loro ed erano suoi i loro carismi di servizio ai poveri, ai carcerati…
Fu così che apa Pafnunzio decise in cuor suo che si sarebbe presentato al giudice abbracciato a Cirillo, ad amma Tecla, alla vedova Macrina: nella condivisione dell’amore sarebbe stato arricchito dei loro doni e la parola di benedizione rivolta a loro sarebbe stata anche la sua benedizione.

sabato 23 febbraio 2013

Storie vere di cristiani in Lituania / 3

Il convento di Padre Severinas

Incoraggiato dai commenti al blog, continuo con le storie vere di cristiani in Lituania
I mattoni di padre Severino
A Kaunas la massiccia fortezza di Vytautas è in mattoni, come la chiesa accanto e il convento dei frati. Un Paese appena ondulato, senza pietre, la cui più alta montagna è di 220 metri, costruisce col mattone. Padre Severino venne qui subito dopo l’indipendenza per restaurare l’antico convento, ridotto in rovina dalla incuria del precedente regime. La chiesa era stata adibita a deposito di medicinali. Tolse con pazienza l’intonaco, riportò alla luce marroni e archi e finestre gotiche. Ma un convento non è tale senza i frati. L’opera sua più grande non è stata il restauro del convento, ma la rinascita dei Francescani.
La chiesa dei Francescani a Kaunas
Tutti pensavano che cinquant’anni di comunismo sovietico avessero estirpato per sempre la vita religiosa. Frati e suore erano stati dispersi, imprigionati, deportati. Proibiti nuovi ingressi. Monasteri, conventi, case religiose erano stati distrutti, confiscati, lasciati andare in rovina o trasformati in centri psichiatrici, depositi di materiali più vari. I pochi religiosi rimasti erano ancora visibili, ma si erano trasformati in clero diocesano, strettamente legato a una parrocchia. Impensabile che le religiose esistessero ancora. Ma, come il grano germina sotto la neve, nella clandestinità, sotto la crosta della repressione atea, erano nate e cresciute nuove vocazioni. E’ bastata la primavera della libertà per veder spuntare da ogni parte religiosi e religiose.
Anche questa volta ritrovo p. Severino al suo posto, fedele trasmettitore di un antico patrimonio di sapienza. Adesso i Francescani sono il gruppo più numeroso dei religiosi lituani.

venerdì 22 febbraio 2013

Nella succursale della sede di Pietro e Storie lituane / 2

La nunziatura di Vilnius

Oggi, festa della cattedra di Pietro, termino il mio viaggio lituano in nunziatura, la rappresentanza del Papa in questa terra, una specie di succursale della sede romana di Pietro.

Al mio arrivo, più di una settimana fa, la porta della nunziatura si è aperta e ad accogliermi (e non è un’accoglienza formale, “diplomazia”, anche se questa è una sede diplomatica) c’erano tutti i suoi membri, quella che si chiama, la “famiglia” della nunziatura. È proprio la parola appropriata, una famiglia, con il nunzio, il segretario, le suore, le impiegate, l’uomo tutto fare, l’autista…
Con il nunzio
Al momento della partenza sono di nuovo tutti lì, sulla porta, per salutarmi. Tutti carinissimi, mi hanno introdotto nella loro “famiglia”. A cominciare dal nunzio, l’arcivescovo Luigi Bonazzi, incontrato ad Haiti, a Cuba… e domani chissà in quale altra parte del mondo. Perché Pietro sta saldo a Roma (è o non è la “roccia”?), ma i suoi rappresentanti sono mobili, autentici missionari, per rendere Pietro presente ovunque: la Chiesa una e universale. È la bellezza della nostra Chiesa.

Ma ora è tempo per un’altra storia lituana, dal titolo: Alla ricerca di un abito per ricominciare

Liucija fece la prima comunione a sette anni, dopo essere stata preparata in segreto, erano tempo di clandestinità per la Chiesa lituana. Per lei quello fu un momento di luce intenso. Appena un anno dopo, grazie all’indottrinamento della scuola, Liucija diventò atea convinta e combattiva. A 13 anni la conversione, altrettanto profonda e sincera. Poco più tardi, per circostanze che costituiscono un autentico romanzo, la conoscenza di don Bosco e il racconto dell’esistenza delle suore Salesiane. “Mi piacerebbe seguire don Bosco – si dice Liucija – e diventare suora Salesiana! Ma nella Lituania comunista ci saranno ancora le Salesiane come prima della guerra?”
Con suor Liucija
Con i metodi imparati dal KGB inizia una ricerca metodica e intelligente che la porta a scoprire l’esistenza delle due uniche suore Salesiane ancora vive in Lituania, due vecchie contadine disperse in due diversi villaggi. Lucia ha soltanto 16 anni, ma la decisione è presa: sarà come loro. Tutto è pronto per la vestizione, che dovrebbe avvenire in una chiesetta nel bosco, a porte chiuse. Ma come fare per la vestizione religiosa senza abito religioso? In quegli anni indossare l’abito religioso, anche se solo per il tempo della celebrazione, sembrava un elemento essenziale per una consacrazione religiosa. Nessuno però ricorda più com’era il vestito delle Salesiane. Ad una delle due vecchie religiose sopravvissute viene in mente che molti anni prima aveva fatto venire dalla Cecoslovacchia un abito da Salesiana e l’aveva consegnato ad una amica dicendole: “Quando morirò mi vestirai con l’abito delle Salesiane. Almeno da morta voglio dire a tutti che sono una suora. A quel punto la polizia non potrà più farmi niente!” Ecco che quell’abito salta fuori misteriosamente, lo si aggiusta alla meglio per Lucia che alta e magra, e avviene la consacrazione della giovinetta che segretamente – neppure la famiglia deve saperlo perché groppo pericoloso – diventa sr. Lucia. Terminata la celebrazione sr. Lucia esce dalla chiesa con il suo vestito normale, ma intanto, quell’abito religioso che avrebbe dovuto segnare l’estinzione delle Salesiane in Lituania diventa il segno della loro rinascita.
Da quando sono venuto in Lituania dodici anni fa, fino ad oggi, sr. Liucija è sempre stata la mia traduttrice ufficiale per gli incontri con le religiose.

giovedì 21 febbraio 2013

Ho vissuto tre giorni con gli Apostoli

La cappella dell'apparizione
14 i vescovi ai quali ho guidato il ritiro in questi giorni. 12 vescovi della Lituania (mancava il cardinale e un vescovo emerito), più il nunzio e l’arcivescovo di Riga. Sono stati tre giorni intensi di preghiera, raccoglimento, silenzio, condivisione, comunione, sotto lo sguardo della Madonna di Šiluva. La conferenza episcopale lituana annovera tra i suoi membri il più giovane vescovo del mondo, che nel 2006 ho conosciuto alla Collina delle Croci dove era semplice frate e dove ricordo che mi imbandì un pranzo solenne; e il terzo dei vescovi più giovani del mondo, che oggi mi ha fatto una lunga intervista per la radio cattolica del Paese. Un Paese piccolo, la Lituania, appena 3 milioni di abitanti, con 7 diocesi e circa 800 sacerdoti, compresi i 130 religiosi. Una Chiesa viva che in questi giorni ho visto riassunta nei suoi pastori. Al termine del ritiro mi hanno regalato l’icona della Madonna di Šiluva con tutte le loro firme e con scritto: “In questi giorni durante il ritiro a Šiluva abbiamo visto, sentito e toccato di nuovo il vivo Gesù che ci porta dalla comunione fraterna alla comunione con la Santissima Trinità”.
Ho terminato il ritiro ai vescovi con le stesse ultime parole Gesù rivolse ai loro predecessori, glli Apostoli: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni… Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Il santuario
Padre Linas nel 2006,
oggi il più giovane vescovo del mondo

Non appoggiarci sulle alleanze con il potere – ho detto loro – ricordando la logica diversa proposta da Gesù, quella del “tra voi non sia così”, quella del “piccolo gregge”. Ritrovare la semplicità evangelica delle colombe, dei bambini del Regno dei cieli, degli agnelli mandati in mezzo ai lupi, senza temere nulla, sapendo che perfino i capelli del nostro capo sono contati. Senza ricercare il prestigio, né riporre la fiducia su strumenti o sicurezze umane; senza bramare le ricchezze, fidandoci di più della provvidenza di un Padre che ha cura di tutti i suoi figli...
Non cercare sicurezza in un ritorno al passato, ma avere il coraggio di andare avanti nell’apertura dialogica con gli uomini e le donne di ogni cultura e tendenza, senza ripiegamenti o inutili nostalgie, credendo in quanto di buono e di bello Dio ha seminato ovunque. La Chiesa non sarà mai pienamente se stessa se perde la capacità di rinnovarsi, se smette di spalancarsi sul mondo e se non tiene accesa la fiamma della missione.
La certezza e la forza ci viene da quella promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”

mercoledì 20 febbraio 2013

Storie vere di cristiani in Lituania / 1

Gintaras, primo a sinistra,
con i vescovi quando non era
ancora vescovo
Venni in Lituania per la prima volta nel luglio 2001. Oggi ritrovo alcune delle persone incontrate allora. Ognuna ha una storia sorprendente da raccontare.


L’ingegnere dell’IMB diventa vescovo
Alto, simpatico, con un bell’accento americano, Gintaras (= ambra) allora era appena tornato da Roma dove aveva conseguito il dottorato in diritto. Affascinante la storia della sua famiglia, una delle tante straordinarie storie che mi sentii raccontare in quei giorni.
La guerra separa i genitori: il papà è preso dai tedeschi e portato in Germania per i lavori forzati; la mamma e la sorella rimangono in Lituania. Finita la guerra il padre non può più tornare in Lituania ormai occupata dalla Russia. Pensa che moglie e figlia siano morte e lo stesso pensano di lui moglie e figlia. Come tanti altri lituani emigra negli Stati Uniti. Dopo 12 anni, attraverso gli amici degli amici degli amici, viene a sapere che moglie e figlia sono ancora vive. Devono passare altri quattro anni prima che possano incontrarsi, grazie al gesto di cortesia che la Russia fa in occasione della visita del Presidente degli USA, Nickson, permettendo la riunificazione di 200 famiglie, tra cui quella di Gintaras. La mamma e la sorella possono finalmente raggiungere il padre negli Stati Uniti. L’anno seguente nasce Gintaras.
Nel luglio del 2001, quando venni in Lituania, da due giorni
era rettore del seminario (dopo essere stato per cinque anni ingegnere della IBM). Oggi lo ritrovo vescovo e partecipa, assieme agli altri vescovi della conferenza episcopale lituana, al ritiro che sto loro guidando.

Dopo due giorni è cessato di nevicare. Si è alzato un vento gelido che solleva nuvoli di neve dai tetti delle case. Approfitto dei pochi momenti liberi per camminare, avvolto nel vecchio giaccone di piume portato dal Canada, tra le strade del paese di Šiluva, silenzioso e deserto; soltanto qualche spalatore di neve davanti casa e qualche ragazzo che torna da scuola. Mi piace sentire, ad ogni passo, lo scricchiolio della neve che tutto ammanta. Recito il salmo 147:
Fa scendere la neve come uccelli che si posano,
come cavallette che si posano è la sua discesa;
l’occhio ammira la bellezza del suo candore
e il cuore stupisce nel vederla fioccare.
Riversa sulla terra la brina come il sale,
che gelandosi forma come tante punte di spine.

Apa Pafnunzio continuava a ruminare la preghiera dell’ultima cena: “Glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”. Gesù aveva appena ricordato al Padre che lo aveva glorificato in terra compiendo la missione che gli aveva affidato: aveva dato la vita per noi. Ora, in contraccambio, chiede che anche per sé la gloria, ossia la “vita”, la realtà di Dio. Sì era “spogliato” della sua divinità per donarla a noi, ora sarà rivestito di quella stessa divinità che è da sempre la sua natura. Anche per Gesù valgono le parole che egli ha rivolto a noi: “Date e vi sarà dato”.

martedì 19 febbraio 2013

Lituania: la Madonna appare ai Calvinisti

La torre sorta sul luogo delle apparizioni
1608, la Madonna appare a Šiluva, paesino nel cuore della Lituania. È forse la più antica delle apparizioni mariane. La Lituania, ultimo Paese europeo a convertirsi al cattolicesimo (XIV secolo), è il primo ad essere visitato da Maria.
Prima i luterani, poi i calvinisti avevano tentato la conversione del popolo in modo forzato e la chiesa di Šiluva era stata distrutta. Il quadro miracoloso della Madonna aveva, che dal 1457 aveva attirato pellegrinaggi, fu salvato assieme ad altri documenti dall’ultimo sacerdote cattolico e nascosto in una cassa di quercia rivestita di metallo, sotterrata ai piedi di una grande roccia.
Nell'antico santuario
Nel 1608 quando alcuni giovani pastori pascolano il gregge nel luogo dell’antico tempio. Sopra una larga pietra – che più tardi un circo che riacquistò la vista indicò come quella dove era nascosta l’immagine della Vergine – appare loro una giovane dai lunghi capelli, con un bambino in braccio e che piange, triste. Uno dei bambini corre a chiamare le autorità religiose calviniste del paese che, arrivate sul posto, vedono la giovane e le domandano: «Giovane donna, perché piangi?». «Piango perché la gente era solita adorare mio Figlio in questo luogo, ma ora essi arano e seminano». Poi scompare. È la prima volta che la Madonna parla a dei non cattolici.
Il fatto determina la conversione della popolazione al cattolicesimo e Šiluva diviene un centro di pellegrinaggio dove accorrono folle a migliaia, ottenendo grazie e miracoli e, soprattutto, convertendosi a una vita cristiana più autentica.
Fra il 1760 e il 1773 è stato costruito un grande santuario e poco distante, all’inizio del Novecento, una cappella a forma di torre sulla pietra dell’apparizione. Durante l’occupazione comunista sovietica, dopo la Seconda guerra mondiale (preceduta da quella nazista), il governo ha fatto di tutto per impedire l’accesso al santuario: ha chiuso le strade, proibito i trasporti, diffuso voci di epidemie pericolose in quell’area e ha perfino mandato in Siberia e in prigione alcune persone per aver partecipato a processioni. Ma questo non ha trattenuto il popolo dall’andare a Šiluva.
Nel 1993 c’è stato – poteva non venire? – anche Giovanni Paolo II. Adesso è toccato a me…
Questa mattina è ripreso a nevicare: è la migliore accoglienza che potessi ricevere, un vero regalo. Visito la grande torre eretta sulla pietra dell’apparizione, il santuario del 1700 con l’originale quadro della Madonna, il villaggio ammantato di neve, uno spettacolo più bello dell’altro, segni della grandezza di Dio. 

lunedì 18 febbraio 2013

Con le Carmelitane di Paštuva: una giornata di “contemplazione”


Sr. Mary Joseph davanti al suo monastero
È nevicato tutto il santo giorno. Partiamo da Vilnius con un nevischio fine fine. La città è ammantata da una nebbiolina che sfuma i grattacieli lasciandoli indefiniti nella loro ascensione. Poi l’autostrada col nevischio che svolazza basso disegnando sull’asfalto giochi di fantasia. All’orizzonte  il biancore dei campi innevati si confonde imprecisato con quello del cielo.
Giungiamo a Paštuva, in aperta campagna. Gli alberi neri del bosco si sono fatti ancora più neri.
Il monastero delle Carmelitane si raggomitola su di sé per difendersi dal freddo e dalla neve. Passiamo la giornata con le monache, nella sala d’incontro, nella chiesa, nel refettorio e ovunque, dalle grandi finestre, irradia la luce e posso contemplare la neve che scende silente e calma: è come scendesse una pace profonda.
Sono stato qui sette anni fa. Allora una giovane in visita al monastero mi aveva chiesto cosa fare per scoprire la propria vocazione. Oggi me la ritrovo lì, in abito carmelitano, alla vigilia della sua professione perpetua. Mi dice che allora l’ho ben consigliata…
Dopo la rivoluzione del 1863 contro l’occupazione russa, lo Zar represse in Lituania ogni libertà, incamerando i beni della Chiesa che era stata a fianco dei rivoltosi. Anche il Carmelo fu soppresso. Negli anni Ottanta alcune donne espressero il desiderio di ristabilire un monastero carmelitano. La richiesta giunse anche in Scozia dove una monaca prese l’iniziativa di rispondere: la nonna era lituana e le aveva insegnato i rudimenti della lingua. Sr. Mary Joseph iniziò così il monastero di Paštova nel 1994 e nel 2000 fu inaugurata la nuova costruzione. Oggi le monache sono 14. Parlo loro, mi pongono domande, condividiamo esperienze… Passiamo una giornata di “contemplazione”, come si conviene in un monastero carmelitano.
A metà pomeriggio riprendiamo il viaggio per strade di campagna completamente innevate.
La neve continua a scendere e a sfumare gli orizzonti appena ondulati di boschi e campi. I rari villaggi che incontriamo sono case di legno dai colori vivaci, le più adatte per affrontare i freddi inverni. Ai crocicchi delle strade le grandi croci scolpite  nel legno con scene evangeliche o le alte steli con le statue della Madonna o dei santi, sempre in legno, testimoni di una fede antica. Visioni surreali.
Si è ormai fatto sera quando giungiamo a Šiluva.

domenica 17 febbraio 2013

Nella bella Kaunas


Ancora una giornata intera con le suore a Kaunas per andare in profondità nell’anno della fede. Sono ormai 200 le religiose presenti, un bel numero se si considera che in tutta la Lituania sono 750. Dalla gelida chiesa dei francescani oggi siamo passati alla freddissima cappella del seminario. Ma il “clima” dell’incontro è incandescente. E suore sono contentissime.
Questa volta non ho tempo di passeggiare per la bella cittadina di Kaunas, come ho potuto fare altre volte nel passato. Basta uno sguardo al vecchio castello e poi via, verso altre mete lituane…

Con le studenti del Claretianum
E apa Pafnunzio? Per tutta la giornata ha ruminato un’altra parola della preghiera che Gesù rivolse al Padre al termine dell’ultima cena con i suoi discepoli. “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare”. La gloria, come aveva meditato nei giorni precidenti, era la vita stessa che si comunicavano reciprocamente il Padre e il Figlio, era il loro reciproco amore. Ma l’amore per Dio non è semplice sentimento: è compiere la volontà di Dio. Gesù dà gloria al Padre attuando il suo piano d’amore, anche quando, pochi momenti dopo la preghiera, la volontà di Dio si manifesterà in tutta la sua drammaticità, al punto che chiederà: “Se puoi, allontana da me questo calice”, subito pronto a rimettersi al progetto del Padre: “Non però la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. In questa obbedienza ha vissuto il rapporto di comunione con il Padre, gli ha dato gloria. Per questa obbedienza siamo stati salvati.

sabato 16 febbraio 2013

I Racconti di Cafarnao approdano in Lituania

19 giovani studenti dell’accademia d’arte dell’università di Kaunas hanno rappresentato “I racconti di Cafarnao” sotto la direzione di due professoresse. Con loro un attore del teatro nazionale che ha interpretato Pietro. Gli studenti sono al primo anno d’arte drammatica, ma hanno lavorato benissimo, pienamente coinvolti nel testo. La cosa più bella è che durante le lezioni hanno dovuto familiarizzarsi con  i Vangeli e con la persona di Gesù, cosa che la maggior parte di loro non aveva mai fatto.
Lo spettacolo è stato interpretato davanti a più di 130 religiose radunate a Kaunas per due giorni di convegno che sono stato invitato a guidare. Abbiamo celebrato la messa nella chiesa dei Francescani, bella ma ancora tutta da restaurare, con squarci nelle pareti che mettono in diretta comunicazione interno ed esterno rendendola gelida da morire. Nel tempo del comunismo era adibita a deposito di medicinali.
Tante suore mi conoscono grazie ai precedenti incontri che ho tenuto qui in Lituana. Mi pare che questa sia la quinta volta che vengo in Lituania. Altre sono state mie alunne o le ho comunque conosciute a Roma… Offrono un bellissimo sguardo sulla Chiesa lituana, forse ne sono l’anima più pura.
Oggi è anche festa nazionale, a ricordo del 16 febbraio 1918, giorno dell’indipendenza dagli Stati Europea. Fino ad allora una parte della Lituania apparteneva alla Germania, una parte alla Russia, un’altra ancora alla Polonia… L’altra festa nazionale si celebra l’11 marzo, indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1990.

Intanto apa Pafnunzio continua la sua meditazione sulla preghiera sacerdotale. Gesù, dopo aver detto di voler dare la vita eterna a tutti quelli che il Padre gli ha affidato, spiega in cosa consiste questa vita: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Ad apa Pafnunzio sembrava strano che la vita conoscesse nella conoscenza. Il rapporto che egli aveva con il Padre – unico vero Dio – e con Gesù, era un rapporto di fiducia. Si affidava completamente a lui, sentiva di essere nelle sue mani, come un bambino nella braccia della madre, si sapeva amato. Abramo e Mosè erano detti “amici di Dio”, così come il santo padre Antonio del deserto. Non che apa Pafnunzio si volesse paragonare ad Abramo o Mosè, ma neppure ad Antonio. Eppure si sentiva amico di Dio. Poi c’era Gesù che aveva assicurato che non l’avrebbe più chiamato servo, ma amico. Si sapeva amato e desiderava ardentemente di riamarlo con tutto il cuore, l’anima, le forze. Questo rapporto era la vita di Pafnunzio. Forse “conoscere” Dio e “conoscere” Gesù voleva dire proprio tutto questo. Sì, doveva essere proprio così, la vita eterna sarebbe stata la pienezza della relazione d’amore e di amicizia di cui adesso sperimentava appena una briciola. Non era, quella di cui parlava Gesù, una conoscenza soltanto intellettuale, ma l’adesione di tutto se stesso alla chiamata di Dio, fino alla consumazione dell’amore.