mercoledì 31 gennaio 2018

Pregare per le vocazioni, una verifica per chi ce l’ha già / 1


Rispondendo a una richiesta del Capitolo Generale, il Superiore Generale, p. Louis Lougen, ha annunciato un "Anno delle Vocazioni Oblate" dall'8 dicembre 2017 al 25 gennaio 2019
È bello pregare e riflettere sulle vocazioni alla vita Oblata. Ci fa bene parlare delle vocazioni alla vita oblata. Non soltanto perché si stanno diradando e quindi ci è richiesto un rinnovato impegno perché la nostra Famiglia religiosa continui a vivere e a svilupparsi sempre più per il bene della Chiesa. Ma anche perché parlare delle “vocazioni” ci aiuta a riflettere sulla nostra stessa vocazione. E questo vale per tutti, non soltanto per gli Oblati.
Lasciamo che siano le Regole a parlarcene.


La Costituzione 52 ci ricorda che Dio continua a chiamare oggi come sempre (e questo ci dà sicurezza e pace) e che chiama attraverso di noi (e questo ci dà senso di re­ pensabilità e timore di Dio). Dio chiama, continua la Regola, con la mediazione 1) della qualità di vita, 2) dell’annuncio profetico, 3) della preghiera.
In queste tre mediazioni è riassunto il pensiero di sant’Eugenio de Mazenod riguardo alle vocazioni e insieme il suo appello ad una continua revisione di vita per quanti, come noi, hanno già ricevuto la vocazione oblata e vi hanno risposto (ma ogni giorno dobbiamo rispondere in maniera nuova).


1.        “Dobbiamo essere consapevoli che, dalla gioia e dalla generosità delle nostre vite, altri sono invitati a rispondere a questa chiamata”.

Gioia e generosità sono dunque le caratteristiche dell’Oblato. La prima dice la qualità del nostro rapporto con Gesù e della vita fraterna, la seconda la qualità della nostra missione. È questo che si dovrebbe vedere in noi: gioia e generosità.  Persone che sanno per chi vivono e per cosa vivono; persone contente, che si dedicano al proprio ideale di vita con convezione, senza risparmiarsi.
Sant’Eugenio sperava che i seminaristi presso i quali lavoravano gli Oblati fossero attratti alla nostra vita dal loro “buon esempio”, dalla “regolarità” e dalla “sublimità del ministero” a cui si erano consacrati (Testi scelti = Ts 411). Bisogna che si convincano, diceva ancora, che da noi troveranno “uomini di Dio” (Ts 416). Ai missionari in Canada scriveva: “bisogna sperare che il buon odore delle vostre virtù attiri qualcuno” (Ts 417). “Il mezzo più efficace per ottenerli (gli operai per la messe) e quello di essere sempre ciò che dobbiamo essere” (Ts 414).

Ciò che attira, oggi come allora, è una vita bella, vera, piena di senso, interamente donata, che faccia dire: “vale la pena vivere così”. Ciò che attira è una comunità che ha il sapore della famiglia, dove ci si vuole bene sul serio e si è veramente fratelli; una missione che si pone autenticamente al servizio del Vangelo per l’edificazione di una umanità nuova.


Quando era ancora bambino fui colpito dalla diversità di P. Carlo Irebicella rispetto agli altri preti di Prato, la mia città natale. Il suo rapporto con la gente così semplice, immediato e profondo e la sua intraprendenza apostolica mi hanno segnato. Quando poi, per la prima volta, misi piede nella comunità oblata di Firenze fui affascinato dall’atmosfera di famiglia che vi regnava, mai sperimentata nel seminario diocesano dal quale provenivo, che pure amavo tantissimo. Furono queste testimonianze di vita che mi fecero capire che questa era la mia strada.
Ci vogliono “uomini di Dio” (dovremmo essere tali) e “sublimità di ministero” (tale dovrebbe essere l’ambito e la modalità del nostro lavoro). Ci vogliono tutte e due le cose.

Oggi nella nostra società l’immagine, il design, il look, il logo hanno un’importanza fondamentale. Non è il caso nostro. Qui non basta la facciata, l’apparenza. Può andare bene per una pubblicità di superficie, che incanta per qualche tempo. Non certo per far decidere di una vita.
Non dobbiamo preoccuparci di dare testimonianza. Siamo chiamati semplicemente a vivere con coerenza. Se pochi condividono la nostra vita e la nostra missione dobbiamo domandarci - tutti - se la nostra vita è vera, pienamente vissuta, coerente, e quindi credibile.


martedì 30 gennaio 2018

Una Regola per la pienezza dell'amore


Ho terminato al Claretianum il corso su “Vangelo, Carisma, Regola”… Più di settanta alunni per un corso opzionale, così chiudo in bellezza la mia carriera e divento “professore emerito!

La Regola indirizza i primi passi verso una lettura evangelica e un cammino spirituale dagli orizzonti infiniti. La Regola allena, affina il cuore, accompagna, sostiene. In questo senso ha un valore “minimale”, indicativo, non chiude, ma piuttosto apre ad una esperienza sempre più sempre più ampia, sotto la guida dello Spirito.
Lo Spirito Santo, origine del carisma, resta la guida ultima, così lo è stato per Gesù, per ogni cristiano, per i fondatori e le fondatrici.
La Regola è soltanto una traccia, una mediazione, in vista della guida interiore dello Spirito santo.

Piena docilità e disponibilità all’azione dello Spirito, questa è la maturità cristiana.
Non si tratta di abdicare alla propria volontà, quanto piuttosto di porre interamente forze, cuore, mente, tutte le proprie capacità a completa disposizione dell’azione creativa dello Spirito.
Assoggettato allo Spirito il cristiano è libero, è ormai mosso dalla sua voce. Avendo in sé lo Spirito, ha dentro di sé il principio stesso dell’azione.
S. Tommaso d’Aquino, che si intendeva di queste cose, così parlava di quanto lo Spirito opera: «La sua grazia è come un abito interiore infuso, che ci inclina a operare bene: ci fa fare con perfezione ciò che conviene alla grazia e ci fa evitare ciò che le ripugna. Per questo motivo la legge nuova si chiama: legge di libertà... perché ci fa osservare liberamente i precetti di Gesù in quanto, per un interiore istinto dello Spirito, adempimento dei divini precetti».

Seguire una Regola non rende schiavi di una legge, ma lascia in balia dello Spirito. La Regola indica la direzione di un cammino che ognuno deve percorrere nella libertà-docilità dello Spirito. Rimane ancella della Parola di Dio, aiuta ad attuarla in pienezza, la fa crescere con colui che la legge (il famoso “Scriptura crescit com legente”, di Gregorio Magno), portandola al suo cuore, la carità.
Seguire una Regola conduce alla Regola unica e fondamentale della sequela di Cristo come è insegnato dal Vangelo, conduce alla pienezza dell’amore.


lunedì 29 gennaio 2018

Per una "Parola di Vita"... viva!


Una domenica pomeriggio con le famiglie per parlare insieme sulla Parola di Vita.

Ho ricordato gli inizi della “Parola di Vita”, quando ancora non c’erano i commenti scritti, ma solo orali, che passavano di bocca in bocca, e ogni volta che si trasmetteva la Parola di Vita ad altre persone, la si raccontava con parole proprie, arricchita da nuove esperienza. Non soltanto la Parola era viva, ma era vivo anche il commento, non fissato su carta, ma scritto sui cuori e quindi ripetuto adattandolo alle circostanze, alle persone…

Ognuno era abilitato a ripetere l’annuncio evangelico, con la libertà dello Spirito, ascoltando quella “voce dentro” e si sarebbero lasciati guidare da essa. Così, di bocca in bocca, la Parola di Dio cresceva grazie alla crescita della vita, arricchendosi di nuove esperienze. Ognuno si sentiva investito della dimensione profetica di cui ogni battezzato è investito.


Vi era già in germe il principio della inculturazione della Parola, che si adattava in maniera rispondente a ogni circostanza e a ogni persona.
La trasmissione della Parola di Vita era poi condizionata dall’ambiente che si creava quando veniva annunciata: bisognava creare il “clima” adeguato, lo stesso che si creava attorno a Gesù quando parlava ai discepoli e alle folle.


Penso occorra ritrovare quella freschezza e audacia che caratterizzava il modo di vivere e di trasmettere il Vangelo, evitando il rischio, sempre in agguato, di fissarsi troppo sul commento scritto che ci arriva mese per mese, con pigra ripetitività, pensando che tutto si esaurisca nel leggerlo. Sarebbe la fossilizzazione della Parola di Vita. Essa domanda di essere fatta propria, personalizzata, adattata, tradotta, interpretata, con la creatività e la libertà dello Spirito, così che sprigioni davvero, secondo la sua natura, la “Vita”.

domenica 28 gennaio 2018

“Sai dove siamo?” – Viaggiando il Paradiso /2


 Appena lo vide uscire dal convento, lo invitò a seguirla lungo il breve sentiero che porta al torrente Fersina. Si fermò sulla panchina rossa lungo l’argine e gli fece cenno di sedersi accanto a lei. «Sai dove siamo?», gli chiese. Igino Giordani avrebbe potuto risponderle che erano a Tonadico, sulle Dolomiti, seduti su una panchina rossa al sole del primo mattino, ma intuì che lei stava per raccontargli qualcosa di importante. Doveva essere accaduto qualcosa durante la messa alla quale poco prima avevano partecipato nella chiesa di Sant’Antonio, lì a due passi.
Appena il giorno precedente, lui le aveva confidato il desiderio che lentamente aveva maturato da quando, la prima volta, l’aveva vista arrivare nel suo ufficio a Montecitorio e aveva ascoltato l’esperienza evangelica di lei e del gruppo natole attorno a Trento.

Fino ad allora Giordani aveva invidiato la “allegra brigata”, cioè gli uomini e le donne d’ogni condizione che nel 1300 avevano seguito Caterina da Siena.
Avrebbe voluto essere nato in quel tempo ed essere uno di loro. Ora, proprio lì in Parlamento, si era trovato finalmente davanti la persona che da tanto tempo attendeva. Fu così che dopo solo pochi mesi da quel primo incontro, il 15 luglio 1949, le chiese di “legarsi stretto”, come facevano i seguaci di santa Caterina, proponendo di farle voto di obbedienza perché lo guidasse nella via della perfezione. Chiara Lubich invece gli aveva risposto di lasciare a Dio l’iniziativa di un legame come lui intendeva. Che fosse Gesù Eucarestia, ricevuto insieme alla messa dell’indomani, a stipulare tra loro un “patto d’unità”. Gesù, venendo in lei come in un calice vuoto, avrebbe patteggiato con Gesù in lui, che doveva porsi nello stesso atteggiamento di totale apertura e disponibilità. Così era avvenuto: su lei “nulla”, fattasi “vuoto d’amore” per accogliere Gesù- l’Amore, e su lui, “nulla” come lei, era rimasto soltanto Gesù. I due erano diventati un unico
Gesù. L’Eucaristia aveva operato in pienezza ciò per cui è stata istituita.
 
Al termine della messa entrambi erano usciti di chiesa, Chiara per andare a casa, Giordani nel convento dei frati per una conferenza. Ma lei si era sentita spinta a ritornare in chiesa.
Ancora una volta avrebbe voluto rivolgersi a Gesù chiamandolo per nome, ma non le era possibile pronunciare quella parola. Si ripeteva per lei l’esperienza dell’apostolo Paolo: «Non vivo più io, vive in me Cristo» (Galati 2, 20). Era lei Gesù, immedesimata con lui, e Gesù non può chiamare se stesso. Così, dalla bocca di Chiara era uscita la parola con la quale Gesù pregava: «Abbà, Padre». Non era soltanto una parola, era una realtà. Era stato lo Spirito a metterle sulle labbra quel nome (Romani 8, 15). Così si era trovata come in un’altra dimensione, nel “seno del Padre”, come diceva lei: «Ero, dunque, entrata nel Seno del Padre, che appariva agli occhi dell’anima (ma è come l’avessi vista con gli occhi fisici) come una voragine immensa, cosmica. Ed era tutto oro e fiamma sopra, sotto, a destra e a sinistra. (…) Era infinito, ma mi trovavo a casa».

Sulla panchina rossa Chiara, prima di narrare a Igino Giordani lo straordinario fatto accaduto, gli rivolge la domanda: «Sai dove siamo?». Forse un altro avrebbe detto: «Sai dove sono?» e avrebbe parlato della propria personale percezione di essere nel seno del Padre. Chiara invece usa il plurale, “sai dove siamo?”, perché quell’evento era avvenuto dopo il patto d’unità con Giordani. Le due anime loro erano diventate un’anima sola, quella di Cristo, ed era quest’unica anima a essere entrata nel seno del Padre.
Lei, per una grazia d’ordine carismatico, ora “sa” dove essi si trovano; lui ancora non lo sa. Ma Chiara, proprio lì su quella panchina, lo rende consapevole.

Il giorno seguente coinvolge nello stesso patto d’unità le sue compagne, e comunica loro, come prima a Giordani, le nuove contemplazioni. Annota lei stessa: «Descrivevo così perfettamente ogni cosa alle focolarine che anche esse “vedevano” nella stessa maniera», rese partecipi delle realtà del Cielo che si andavano svelando giorno dopo giorno.
L’esperienza mistica che sta avvenendo non è soltanto di una persona, come avveniva nel passato per figure come Angela di Foligno e Teresa d’Avila, ma di un gruppo. Come racconta Chiara: «Ho avuto l’impressione di vedere nel Seno del Padre un piccolo drappello: eravamo noi».

Quel 16 luglio 1949, a Tonadico, il “noi” era costituito da un piccolissimo gruppo di persone. Anche oggi ognuno può entrare a far parte di quel “noi”. Quel modo particolare di “vedere” e di “sapere” la vita di Paradiso è stato dato a Chiara, per una grazia mistica, per introdurre tanti altri in quella medesima realtà, rendendoli consapevoli di “dove siamo”. (continua / 2)

Gustare il Paradiso ’49

«E noi non eravamo più noi, ma Lui in noi: Egli Fuoco divino che consumava le nostre anime diversissime in una terza anima: la sua: tutta Fuoco».

È il prodigio che opera l’Eucaristia anche oggi, quando entra in persone disposte a vivere tra loro il comandamento dell’amore reciproco. Ognuno fa spazio all’altro, nel dono totale di sé – come Gesù nel suo abbandono in croce –, e in questo spazio prende posto Gesù che, col suo amore – il Fuoco –, trasforma tutti in sé, un unico Gesù: egli vive la nostra vita e opera in noi.

La prima puntata:


sabato 27 gennaio 2018

Un insegnamento nuovo che fa nuovi

«Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si dif­fuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea (Mc 1, 21-28).
Un insegnamento nuovo che fa nuovi
Insegni cose nuove, mai udite prima d’ora.
Non ripeti parole consuete; parli con la forza e l’autorità di chi crea il pensiero e la realtà.
Marco, almeno per adesso, non ci trasmette il contenu­to del tuo insegnamento. Gli interessa soltanto la tua persona, invitandoci a volgere lo sguardo verso di te. Non ci fa sapere quanto hai detto quel giorno nella sinagoga, ma ce ne mostra gli effetti riflessi sul volto dei presenti, stupiti, presi da timore, tanto maestoso e potente ti ergevi davanti a loro.
Il tuo parlare palesa la tua identità, svela chi tu sei: il Santo di Dio, vivente nel mistero della sua santità. La forza della tua paro­la manifesta la tua potenza. Come nell’atto creativo, dici e tutto è fatto: «Esci da lui», e il diavolo esce. La tua è parola che opera.

Anch’io, quest’oggi, seguendo l’invito di Marco, mi fermo a guardarti per lasciarmi avvolgere e trasformare dal tuo mistero. Anch’io mi interrogo e ti interrogo: «Chi sei, Gesù?».
Tu parli così perché sei la Parola, sei il “Tu” del Padre, con il quale intrattieni l’incessante e ineffabile dialogo dell’amore. Ve­ro Dio, tu sei vero uomo, l’Uomo nuovo, il sogno di Dio realiz­zato, l’umanità di tutti noi pura, libera, coinvolta nel tuo stesso dialogo d’amore con il Padre. Il tuo insegnamento nuovo, la novità di ciò che sei e dici, crea in noi la tua stessa novità e ci rende uomini nuovi, noi stessi parola detta dal Padre e abilitati a parlare con il Padre.

Anche il diavolo sa chi sei. Sa che sei il Santo di Dio e che, nel­la tua potenza senza limiti, sei venuto per distruggere il male e creare una nuova umanità. Non per questo egli cessa d’essere angelo di male. Anche la folla di Cafarnao vede e intuisce. Ma cosa è cambiato in essa, oltre al senso di meraviglia e di timore?
Non basta ascoltare ed essere compresi della novità della tua parola. Non basta vederti all’opera nella tua potenza. Domandi di aprirci alla tua parola e alla tua azione, di lasciarti entrare nel­la nostra vita per operare la novità di cui sei portatore.

venerdì 26 gennaio 2018

A Trinità dei Monti: Qualsiasi cosa vi dica, fatela


Sabato 27 gennaio, ore 16.00: a Trinità dei Monti secondo appuntamento – tutti invitati!
Ci troveremo nuovamente nella grande sala dipinta da Andrea Pozzo e questa volta avremo un grande critico d’arte, Mario Dal Bello, che si illustrerò il grande affresco delle nozze di Cana che attorniano completamente la sala.
Poi sarà la volta di Maria Magnolfi, biblista, che ci parlerà proprio delle nozze di Cana, o meglio, delle parole che Maria rivolge ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela!”.
“Fatela”: Questo verbo, ποιεω = fare, è imperativo aoristo e nella sua forma verbale sottolinea un’azione puntuale, che non si trascina nel tempo non resta nel vago di una intenzionalità; indica un concreto metter in opera, come fa l’artigiano o chiunque produce. Non c’è tanto da stare lì a discernere, interpretare, cercare di capire… Poche storie, bisogna fare quello che dice Gesù.
Maria Magnolfi metterà poi in rilievo il plurale: “fate”. Siamo in un contesto pluralistico di socializzazione – festa, famiglia, nozze, invitati, sposi. Un insieme di persone che si muovono in un preciso intreccio di relazioni secondo i loro ruoli, diversi e differenziati, ma tutti interconnessi.
Questo ambito comunitario è importante?

Vedremo come ogni volta che Gesù manifesta se stesso – e quella di Cana è solo la prima delle tante manifestazioni che Gesù fa di sé nel Vangelo di Giovanni – lo fa sempre in un contesto comunitario: i discepoli, le folle… perché la rivelazione del Verbo fatto carne trae origine ed ha come modello la sua unità col Padre e in tale unità trinitaria vuole trascinare l’umanità, tutti e ciascuno “rinati dall’alto” – come detto a Nicodemo.

Ma non vado oltre. Sarà Maria Magnolfi a portarci dentro questo mistero.



giovedì 25 gennaio 2018

La Parola di Vita al TG 5



Al telegiornale di Canale 5 breve presentazione del libro di Chiara Lubich, Parole di Vita:


Tra i molti messaggi che mi sono arrivati mi è piaciuto soprattutto quello che scrive una sola parola: “efficace”. In effetti sono poco più di 2 minuti, ma mi sembra che sia stata resa l’idea del valore del libro.

mercoledì 24 gennaio 2018

Gli Oblati, un'ispirazione di Dio

25 gennaio, festa della conversione dell’apostolo Paolo. Per gli Oblati è anche la festa della loro nascita. La prima comunità dei Missionari di Provenza, poi Oblati di Maria Immacolata, ebbe inizio in questo giorno, nel desiderio di continuare l’opera missionaria dell’apostolo delle genti, con la sua stessa passione per Cristo.
Il 16 dicembre 1819, a un mese dell’insediamento del nuovo vescovo di Aix, luogo di nascita della prima comunità missionaria, sant’Eugenio si presentò narrandogli le origini della propria Opera.

Nel corso dell’anno 1815, M. l’abbé de Janson e M. l’abbé Rauzan, s’erano consultati per rispondere alle mire del Santo Padre che desiderava la predicazione di missioni in Francia. Costoro, supponendo la mia disponibilità, si rivolsero a me per invitarmi a unirmi ad essi in questa santa opera. Le loro insistenze furono tali e i motivi addotti così ragionevoli, che mi pareva impossibile non aderire alla proposta.
Non era però senza un gran dispiacere ch’io mi sentivo come forzato a lasciare la diocesi, perché fin dal primo istante che entrai nello stato clericale, m’ero consacrato intenzionalmente al suo servizio. […]
Mi trovavo in questo stato di perplessità quando il Signore mi ispirò il progetto di costituire ad Aix una società di missionari destinati ad evangelizzare preferibilmente i poveri delle campagne fino agli ultimi borghi della Provenza. Feci presenti le mie intenzioni ai vicari generali i quali l’approvarono; e immediatamente misi il progetto in esecuzione, gettando le fondamenta di quella piccola società che da cinque anni lavora ininterrottamente alla conversione delle anime con un successo che è dovuto unicamente a Dio e che può essere considerato un miracolo. […]
Essi l’approvarono e passammo subito all’esecuzione.

Non so cosa rispose il vescovo di allora. So quello che ha risposto Christophe Dufour, l’attuale Arcivescovo di Aix, 200 anni dopo:

S. Eugenio de Mazenod è un vero maestro di questa evangelizzazione. […] Figlio di un ricco, amante del denaro e del lusso – si era ripromesso di sposare una donna che avesse soldi! – come ha potuto dare alla sua vita questo orientamento fondamentale: andare a portare il Vangelo ai poveri? Così rispondeva: “Perché Cristo stesso mi ha chiamato”. Cristo l’ha chiamato, un po’ come l’apostolo Paolo, quando fissò gli occhi sulla Croce, il Venerdì santo 1807, nella Chiesa della Madeleine. Sant’Eugenio, sotto una cert’aria di superiorità, il desiderio di piacere agli occhi del mondo, nascondeva una povertà, una ferita. Essendo povero, ha potuto accogliere il Vangelo e vivere un vero incontro con Cristo. Perché era povero, Cristo è andato a lui. […] Davanti alla croce, ha riconosciuto la sua povertà e Cristo l’ha sedotto.


martedì 23 gennaio 2018

Gis, la vita per un Ideale


Non erano le poche parole che diceva, pur così essenziali e piena di sapienza, ma quello sguardo intenso e dritto a penetrare con la forza di una passione.
È stato così anche l’ultima volta, sabato 9 dicembre. Poi lo spegnersi lento che l’ha portata in cielo il giorno del compleanno di Chiara.
Gis e Chiara, due vite in una.

Una vita, quella di Gis e di Chiara, spesa interamente per un ideale grande come Dio, l’unico per il quale vale davvero spendere la vita intera.
La persona, nella sua individualità e pretese, sembra scomparire, ed è la sua piena realizzazione, il compimento di una missione che fa grande una vita.
  

lunedì 22 gennaio 2018

Il bacio: Dio che si fa toccare / 2

“Un abbraccio vale più di mille parole”.
L’ho visto scritto nello studio del dentista…
È proprio così.
Ne “Il Sole 24 ore” di domenica scorsa ho letto una bellissima intervista a Enzo Bianchi nella quale tra l’altro dice: «Il vero incontro con un malato terminale non è quando gli parli ma quando gli fai una carezza. L’amore fraterno, umano, deve essere vissuto nella carne, nel corpo. Non può essere un sentimento astratto».
Abbraccio, carezza… abbiamo bisogno di toccare.
Questo, continuando quanto ho scritto giorni fa, vale anche nel rapporto con Dio.
Abbraccio, carezza… bacio.
Il bacio è la più intima espressione d’amore.
Gesù è contento quando la donna peccatrice gli bacia i piedi e rimprovera Simone per non averlo baciato quando è entrato in casa sua (Lc 7, 38).
Il padre, quando il figlio perduto torna a casa, gli si getta al collo e lo bacia (Lc 15, 20).

Il Cantico dei Cantici si apre con un bacio: «Mi baci coi baci della tua bocca» (1,2).
L’iniziativa è dello Sposo, ma lei, la sposa, sta al gioco e lo bacia a sua volta (8, 1).
È la trasmissione dello stesso respiro, della stessa vita.
Il bacio significa amore, comunica amore, tende a suscitare amore alla pari.
I mistici sono “andati a nozze” col primo versetto del Cantico dei Cantici, interpretato religiosamente.
S. Giovanni della Croce scrive: «Mi baci con il bacio. della sua bocca [...], affinché con la bocca della mia anima ti baci [...]. Questo avviene quando 1’anima gode di quei beni divini (le verità divine) con gustosa e intima pace e con grande libertà di spirito, senza che la parte sensitiva o il demonio, per mezzo di questa, valgano ad impedirlo».
Anche Teresa d’Avila chiede: «Signor mio, l’unica cosa che chiedo in questa vita è che tu mi baci con il bacio della tua bocca, poiché il bacio è segno di pace e d’amicizia».
Può essere un tocco sostanziale di Dio che introduce e fa sperimentare il più alto grado di comunione, una condizione stabile di pace e di rapporto amoroso che rende la persona estranea ai turbamenti esterni, felice di stare in Dio. Può essere anche una grazia momentanea, che lascia nel desiderio di sperimentarlo ancora.

Un tale bacio non è puro sentimento. L’amore per lo Sposo espresso nel bacio deve essere concreto, chiede di accogliere e vivere le parole che escono dalla sua bocca, quasi aspirarle con la nostra bocca – il bacio! «La Chiesa con tutto il suo ardore cerca nelle Scritture Colui che ama», scrive Onorio di Autun. E un altro in un autore medievale, Otlone di sant’Emmerano: «Quando si apre la Scrittura, Egli ci ammette nella sua intimità».

È l’esperienza di Chiara Lubich nel Paradiso’49, di cui ho scritto più volte. Basterà che ricordi un mio vecchio articolo: L’unione con Dio come esperienza sponsale, “Nuova Umanità”, 22 (2000) n. 2, p. 157-186.
«Lo Sposo è la Parola di vita», scrive Chiara con immediatezza. E subito aggiunge che c’è un modo sicuro per essere sposa del Verbo ed attrarlo a sé: «vivendo la Parola l’avrei amato come Sposa e Lui sarebbe stato me... Vivendo ogni attimo la Parola». Nel rapporto d’amore dell’unione sponsale vivere la Parola è come dare un bacio allo Sposo - spiega ancora citando esplicitamente il primo versetto del Cantico dei Cantici - perché «da Bocca a bocca passa la Parola; Egli comunica Sé (che è Parola) all’Anima mia. Ed io sono una con Lui! E nasce Cristo in me». Allora «ogni attimo che vivo la Parola è un bacio sulla Bocca di Gesù, quella Bocca che disse soltanto Parole di vita». La Parola non indica soltanto ciò che bisogna credere o fare. Essa crea un rapporto personale con il Verbo presente in essa. Vivere la Parola è dunque aprirsi alla comunione con Cristo che si dona. È la fonte permanente della mistica cristiana.
«Per vivere la realtà dello sposalizio della mia Anima col Verbo: “Amore”... – continua Chiara – devo esser solo Parola di Dio». La Parola di vita diventa «la veste, l’abito nuziale della nostra anima sposa di Cristo». Per amare lo Sposo occorre quindi essere la Parola, abbracciare la Parola. Ben lontani da un misticismo tutto languori, siamo davanti a una grande concretezza di vita.

domenica 21 gennaio 2018

Continua a chiamare



Il Vangelo di questa domenica ci ha raccontato di Gesù che passa sulle rive del lago e chiama, e di uomini che lo seguono con decisione abbandonando tutto.
Oggi si ripete ancora il miracolo. Oggi a Frascati Andriy Havlichha promesso solennemente di seguire per sempre Gesù che l’ha chiamato.

Una storia bella quella di Andriy. In Ucraina, dove la pratica religiosa era proibita e perseguitata, sente parlare per la prima volta di Dio quando, ancora ragazzo, nel 1980, la mamma e la zia lo portano con loro a pregare da una suora.
Poi l’espatrio in cerca di lavoro, prima in Italia, a Napoli, poi Spagna, a Madrid. È qui che conosce gli Oblati e sente la chiamata.
Come nel Vangelo: "E subito, lasciate le reti, lo seguirono".

Così san Girolamo commentava questo passo del Vangelo:

La vera fede non conosce indugio; appena hanno sentito, loro hanno creduto, l'hanno seguito e sono divenuti pescatori.
Ci rendiamo conto che, secondo ogni evidenza, qualcosa di divino emanava dallo sguardo di Gesù, dall'espressione del suo viso, che induceva quanti guardavano Gesù a voltarsi verso di lui... Perché dico questo? Per mostrarvi che la parola del Signore operava, e che attraverso anche la minima delle sue parole, egli lavorava alla sua opera: "Egli disse e furono creati" (Sal 148,5); con la stessa semplicità, lui ha chiamato e loro hanno seguito...: 


sabato 20 gennaio 2018

Seguirlo, la nostra conversione


«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo».
«Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». (Mc 1, 14-20)

Seguirlo, la nostra conversione
Il tempo è compiuto! Il tempo aveva il compito di portare la storia a incontrarsi con il Verbo fatto carne.
Il cielo e la terra sono stati creati per es­sere il luogo di comunione fra creato e increato, fra Dio e noi. Ed ecco, il momento è venuto, la storia ha raggiunto il suo culmi­ne, il tempo ha adempiuto la sua missione.
Dio si incontra con noi, inizio di una comunione che non avrà più fine. È il tempo della pienezza, del compimento: la storia è terminata, o forse è appe­na al suo vero principio.

Per entrare in questa pienezza, nel nuovo inizio della nuova sto­ria che ci porterà a essere con Dio per sempre, nel regno fatto vicino, Gesù pone delle condizioni: «convertitevi e credete nel van­gelo». Due parole di cui non termineremo mai di scoprire la densità e le esigenze.
Conversione, ossia cambiare il nostro modo di pensare per en­trare nel suo. Credere nel vangelo, ossia cambiare il nostro modo di pensare per entrare nel suo. Sì, sono la stessa cosa. Conversio­ne vuol dire accogliere e vivere ogni sua parola, e il vangelo cambierà il nostro cuore e la nostra mente, ci orienterà sulla via dritta, ci insegnerà il modo di vedere, di pensare, di agire di Dio, così diverso da quello a cui siamo abituati. “Convertitevi cre­dendo nel Vangelo, cambierete vita se crederete nel vangelo”.

Perché questo non rimanga un invito astratto, Gesù indica subito il modo per attuarlo. Passa lungo il mare di Galilea, incontra per­sone concrete, con un nome, un volto, un mestiere, e le chiama a seguirlo. Andavano tranquille per la propria strada ed egli cambia loro direzione. Non seguiranno più le correnti del lago e dei pesci, o i loro pensieri e desideri: seguiranno Gesù. Non avranno più le loro cose e la loro casa, avranno lui. Non eserciteranno più il loro mestiere, serviranno lui e il suo vangelo in una nuova missione.
Forse è proprio questa, nella sua realtà più profonda, la conversione e la fede nel vangelo. Lasciar cadere dalle nostre mani ciò a cui siamo morbosamente legati, per protenderle verso Dio. Alzarci da dove siamo a riparare le nostre reti, per seguire Gesù. Lasciarci guardare da lui ed entrare nel suo mondo. La sua vita, la nostra vita; i suoi sogni, i nostri sogni; la sua preghiera, la no­stra preghiera; la sua missione, la nostra missione.

Lungo il vangelo troveremo i discepoli che ancora armeg­giano con barche e reti, ma non è più quello il loro mondo. Tornano alle cose di prima, ma tutto è diverso. Non sono più gli stessi e tutto attorno a loro è cambiato. Lui l’unico pensiero, l’unico interesse, l’unico amore. La sua passione per l’umanità, l’unica loro passione: pescatori di uomini.

venerdì 19 gennaio 2018

Papa Francesco con gli Oblati in Cile

  
p. Sergio Serrano, supereriore degli Oblati
Il 17 dicembre 1948 il vescovo Pedro Aguilera tenne un solenne discorso di benvenuto agli Oblati che finalmente, dopo tre anni di insistenti richieste – aveva scritto la prima lettera agli Oblati del Canada il 15 agosto 1945 – erano giunti nella sua diocesi di Iquiqué. Erano Roberto Voyer, Mauricio Veillette, e René Ferragne, tutti e tre provenienti dal Canada.
L’8 dicembre di quell’anno il superiore generale, p. Deschâtelet, aveva firmato il decreto di fondazione della nuova missione. «È un grande auspicio – fece notare il vescovo – che la data di nascita della vostra Congregazione tra noi sia la stessa di quella nella quale la Chiesa celebra la nascita di Maria». Era come se Maria si rendesse nuovamente presente in quelle terre per continuare a donare Gesù. «Vogliamo da voi – disse ancora il vescovo – che siate perfetti Oblati Missionari di Maria Immacolata, sapendo quali sono le tue caratteristiche: l'amore per il distacco e il sacrificio, la devozione alla Beata Vergine e al Santo Padre, l'adozione dei mezzi di apostolato moderni per generare un cristianesimo all’avanguardia nel mondo di oggi. Siamo certi che realizzando queste caratteristiche della vostra vita sacerdotale e missionaria, farete tra noi tutto il bene possibile».

Il vicario provinciale del Canad, p. Alberto Sanschagrin, era andato in avanscoperta mesi prima. Conosceva da tempo il Cile dove aveva vissuto due anni per organizzare l’azione cattolica operaia. Il giovane mons. Aguilera, da poco nominato vescovo, l’aveva convinto ad andare con lui visitare il territorio della diocesi di Iquiqué, nella regione di Antofagasta. Dopo un avventuroso volo di sette ore p. Sanschagrin si trovò immerso nella fascinosa pampa cilena.
«La pampa ha un duplice aspetto: il deserto puro e le distese di sale. Il primo non presenta alcuna ondulazione sul terreno se non le increspature sulla sabbia prodotte dal vento. Si hanno le stesse illusioni ottiche che dicono vi siano nel Sahara: i laghi che vediamo all'orizzonte sono miraggi causati dal riverbero di un sole tropicale sulla sabbia arida e i fili di fumo che salgono al cielo non sono altro che enormi vortici di sabbia modellati dal vento…
I deserti di sale invece hanno un aspetto diverso. Assomigliano più a un mare in tempesta che improvvisamente si gela. Questa conformazione del suolo indica la presenza, sotto una crosta di pochi piedi, di sali minerali di composizione molto varia».
Il racconto di p. Sanschagrin, pubblicato nel 1948 sulla rivista “Missions OMI”, continua per una trentina di pagine e si fa leggere come un romanzo.


Il santuario della Madonna di Lourdes
L’Oblato, naturalmente, fu impressionato dalla condizione degli operai delle miniere di salnitro, la grande ricchezza del Paese, dalla presa su di essi del comunismo, dalla mancanza di preti. «E tutti quei lavoratori che votano per il Partito Comunista sono cattolici - di nome, naturalmente. Ciò è dovuto al fatto che la diocesi di Iquique manca penosamente di sacerdoti e, di conseguenza, la gente vive nella più completa ignoranza religiosa. Le scuole governative non insegnano alcuna religione. L'operaio non può da solo rendersi conto della contraddizione che esiste tra cristianesimo e comunismo. È cattolico nella vita personale e comunista in quella sociale. Questa mancanza di sacerdoti rimane il grande problema del Vescovo di Iquique, 37 anni, il più giovane del Cile. Tutti i suoi sforzi sono indirizzati a risolverlo. In poco tempo, non può far sorgere tante vocazioni nella sua diocesi. Deve quindi guardare fuori. Ha appena il numero di sacerdoti sufficiente per mantenere le posizioni acquisite. Dall'estero, chi accetterà di venire?».
Ed ecco finalmente arrivare gli Oblati.


Sono passati 70 anni e il Papa viene a trovarli. P. Sergio Serrano, il superiore, assieme ai padri Claudio Brisson e P. Argimiro Aláez, sono rimasti sorpresi alla notizia che Papa Francesco avrebbe pregato nel loro piccolo santuario della Madonna di Lourdes, fondato nel 1923, e che si sarebbe fermato a pranzo con loro. «Molte persone chiedono perché il papa viene proprio nel nostro santuario – afferma il superiore –, e io rispondo che è un dono di Dio, niente di programmato».
Dopo pranzo Papa Francesco è partito per il Perù, dove altri Oblati lo aspettano…


giovedì 18 gennaio 2018

Un vestito su misura per movimenti e nuove comunità


La sala Riaria nel palazzo della Cancelleria, uno dei più bei palazzi rinascimentali di Roma, ha accolto i rappresentanti di 23 gruppi convenuti per un convegno di studio su “Carisma e istituzione nei movimenti e nelle nuove comunità”. Significativo che la giornata si sia tenuta all’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, tacito invito a crescere nella comunione tra gruppi e movimenti così diversi, espressione della bellezza della Chiesa di oggi.
Il carisma è ciò che dà senso a queste nuove forme di vita. L’istituzione lo contiene e lo sostiene, è tutta a sua servizio.
Si susseguono relatori di grido come Coda, Ghirlanda, Navarro, Hesse, seguiti dalle testimonianze delle comunità che mettono in luce le domande nuove che le nuove esperienze pongono al diritto, che fatica a stare al passo della creatività dello Spirito.
Tutti sono d’accordo che la grande varietà carismatica rappresentata da queste nuove forme di vita deve essere salvaguardata, senza convogliarla in facili omologazioni. Anche nel campo giuridico occorrono trovare le strade adatte ad ogni diversa esperienza, nel rispetto delle persone e delle istituzioni.


Di fatto le nuove realtà carismatiche non hanno uno statuto adeguato, dal punto di vista giuridico; l’assimilazione alle Associazioni di laici non è sufficiente.
Il Movimento dei Focolari, Nuovi Orizzonti, la Famiglia della Speranza, la Comunità Cattolica Shalom (parla il fondatore!), la Comunità dell’Emmanuele, la Comunità Papa Giovanni XXIII presentano le questioni aperte, tra cui l’incardinazione dei sacerdoti appartenenti ai movimenti, la comunione tra gli stati di vita all’interno delle comunità, la salvaguardia della specificità delle vocazioni…
Vi è un’esplosione di vita in tutto il mondo, che domanda di trovare dei vistiti su misura, tagliati su ciascuno.


La vita precede sempre il diritto. Le sfide che movimenti e comunità sono chiamati ad affrontare mi sembrano le stessa della Chiesa, che deve gestire la grande varietà, la poliedricità, come direbbe papa Francesco, i rapporti tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra uomini e donne.
Mentre ero immerso tra tanta vita e tante domande, mi è venuta davanti agli occhi la Chiesa del cenacolo, con Maria e Pietro: il loro rapporto d’unità era fondamentale nella Chiesa nascente, così come quello tra gli apostoli, le donne e i 120 discepoli. Quanto molteplice e poliedrica nelle espressioni l’autorità, l’autorevolezza, il servizio, l’accoglienza, la guida. Rimane il modello per la Chiesa di sempre, la fonte d’ispirazione per ogni tipo di rapporto ecclesiale, anche di quello tra il presidente laico e il responsabile dei sacerdoti all'interno di una associazione come quella dei movimenti e nuova comunità.
Forse occorrerà un "atto di forza", quella che viene dalla testimonianza della credibilità e dalla serietà dell'impegno ecclesiale, un atto quindi di convincemento che viene dall'evidenza, perché il diritto accolga le novità ed abbia il coraggio di formule adeguate alla realtà del carisma.


mercoledì 17 gennaio 2018

Pontmain: Dio che si lascia toccare



Il granaio dell'apparizione con tutto il villaggio
17 gennaio 1871: dopo Lourdes e La Salette, la Madonna appare in un altro piccolo paese della Francia, a quattro ragazzi, Eugenio e Giuseppe Barbedette, Francesca Richer e Giovanna Maria Lebossé.
Due anni più tardi il vescovo di Laval chiama gli Oblati per prendersi cura dei pellegrinaggi e per costruire il santuario. La basilica è inaugurata nel 1877 e pochi anni dopo, il 2 agosto 1885, uno dei veggenti, Giuseppe Barbedette, divenuto Oblato, vi celebra la prima messa, assistito dal fratello Eugenio divenuto sacerdote. Francesca Richer farà da perpetua a don Eugenio e Giovanna Maria Lebossé è già diventata suora.

L’apparizione avvenne davanti al granaio di casa, durò tre ore, il tempo perché accorresse tutto il paese con il vecchio parroco in testa. In cielo, ai piedi di Maria, erano apparse tre scritte, una delle quali diceva: “Mio Figlio si lascia toccare”.

È soprattutto questa frase che oggi, anniversario dell’apparizione, mi è rimasta in cuore. 
Toccare. Il tatto è il primo e più sicuro dei sensi. Quando un bambino nasce non vede, non sente, ma subito si attacca al petto della mamma. Da allora, da quando siamo nati, abbiamo bisogno di toccare per avere certezze, sentirci sicuri.
Anche Gesù si è lasciato toccare: lo tocca la peccatrice che gli unge i piedi (Lc 7, 39), la donna che perde sangue (Mt 9, 21), i malati, che spesso si contentano di toccare il mantello (Mc 3, 10; Mt 14, 36), un cieco (Mc 8, 22), le folle (Lc 6, 19), le donne che ne ungono il corpo dopo la morte, Maria Maddalena che vuole trattenerlo dopo la risurrezione… Egli stesso chiede ai discepoli di toccarlo (Lc 24, 39). Giovanni ha toccato con le mani il Verbo della vita (1 Gv 1, 1). A sua volta Gesù tocca gli ammalati, i lebbrosi, i ciechi.
Il Vangelo è corposo… Da quando Dio si è fatto “carne” lo si può toccare: “Mio Figlio si lascia toccare”.
Che rivelazione bella quella di Pontmain, davvero evangelica.
Ne riparliamo nei prossimi giorni.


martedì 16 gennaio 2018

Domenico Albini un grande Oblato, un grande italiano


Dino Tessari ha pubblicato un agile profilo di uno dei primi compagni di sant’Eugenio, missionario intrepido, apostolo della Corsica, uomo di santità.
Professore di morale, formatore, cappellano degli italiani immigrati a Marsiglia...
Ho letto il libretto d’un soffio, una storia affascinante. Piccoli miracoli, vicinanza con la gente, cuore d’oro, misericordia senza fondo, un amore appassionato per Cristo, il desiderio di portare tutti a Dio.

Il suo programma è di una semplicità disarmante: “La vita attiva di Gesù è la regola della mia vita, sia per quanto riguarda il rapporto con Dio suo Padre … sia per quanto riguarda il suo rapporto con gli uomini per seguire la sua ardente carità nel fare ogni sorta di bene… Voglio diventare un altro Gesù, aprirgli la porta del mio cuore, lasciarlo entrare. È mio Maestro. Alla sua scuola si impara in ogni istante più che non in dieci anni di studio!”.

Cosa aspettiamo a farlo santo? Lo è già…



lunedì 15 gennaio 2018

Un bel respiro



Passo mille volte davanti a questo semaforo
ma non avevo mai pensato che lo slargo della strada
fosse considerato una piazzetta,
né tanto meno che avesse un nome.

Uno sguardo così,
nel caos della città,
un bel respiro,
e ti senti già meglio.
Basta poco per sentirsi meglio.



domenica 14 gennaio 2018

Ma cosa disse il Signore a Samuele?

In tutte le chiese del mondo oggi si è letto il racconto della vocazione di Samuele, che termina con quelle stupende parole: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”.
Chissà se qualcuno si è chiesto che cosa gli ha poi detto il Signore.
Le parole di Dio rivolte a Samuele sono sempre omesse perché sono terribili: annuncia che distruggerà la famiglia di Eli, proprio colui che ha insegnato a Samuele a rispondere al Signore con fiducia.

È pericoloso rendersi disponibili al Signore e seguire la sua vocazione, non si sa mai cosa il Signore ci chiederà e dove la vocazione ci porterà.
È una cosa seria.
Samuele seppe stare al gioco: “Non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole”.