mercoledì 31 agosto 2011

Papini e il Beato Angelico



Nella stanza del “predicatore” del ritiro le suore che ci ospitano, qui a Camaldoli, hanno messo una serie di libri religiosi, come d’uopo. Tra Bibbie e Breviari scorgo anche Papini. Oggi chi legge più Papini! Prendo in mano il libro e lo scorro. Sono brevi appunti, riflessioni, piccole esperienze… Il caustico toscanaccio non si smentisce neppure in questi scritti stesi poco prima di morire. Ce n’è per tutti, Leopardi, i frati della Verna… Trovo anche tanti piccoli gioielli, come quello sul Beato Angelico, di cui trascrivo uno stralcio:

Il Beato Angelico non si proponeva di raccontare, bensì di commuovere, non di commentare, bensì di convertire. Egli non ha mai pensato di creare opere d’arte per il piacere degli occhi altrui e per la propria gloria, ma si è servito del linguaggio pittorico come i suoi confratelli Giovanni Dominici o Antonino da Firenze o Giacomo Savonarola si servirono del linguaggio parlato nelle loro predicazioni. Il suo vero scopo era la cura e la trasformazione delle anime… Pitturava con la speranza di far piangere, di far pregare, di far soffrire, di far godere, di capovolgere e di rinnovare gli affetti dell’uomo interiore. L’Angelico non è un esteta, ma un apostolo, non è un pittore puro, ma un confessore della fede; non fa decorazioni, ma ardenti sermoni, Non vuole istruire o dilettare i cristiani, ma vuole riscaldarli, bruciarli, intenerirli, piegargli, farli inginocchiare e lagrimare… Nel suo amoroso cuore di vero domenicano dominavano due sentimenti: il dolore dinanzi allo strazio atroce del Dio crocifisso e la gioia pregustata della beatitudine eterna. Perciò egli non adopera nelle sue opere che due colori forti in mezzo alle tinte semplici e di umile tono: il vermiglio vivissimo del sangue che scorre giù dal costato di Cristo e l’aureo fulgore come sfondo naturale dei dolcissimi volti degli angeli e dei santi che affollano il Paradiso… Le sue prediche senza parole sono capolavori di grazie vasta e di gentilezza ariosa, miracoli di tener essa verginale e di estasi lucida, testi esemplari di quell’arte che Dante felicemente definì Il visibile parlare”.

martedì 30 agosto 2011

Solo per lui

Perché una settimana a Camaldoli? Per cogliere in maniera nuova l’ispirazione iniziale degli Oblati, la linfa vitale che permette alla Congregazione di essere se stessa e di continuare a vivere in modo creativo l’esperienza carismatica degli inizi e la sua missione nell’oggi della Chiesa.
Sto guidando gli esercizi spirituali al Consiglio generale dei Missionari Oblati di Maria Immacolata! Spero proprio di guidare il Consiglio nella direzione giusta, alla riscoperta di cinque fondamentali esperienze fatte agli inizi da sant’Eugenio e dal primo gruppo di compagni, che costituiscono la grande esperienza fondativa.
Oggi siamo tornati al 14 marzo 1814, quando sant’Eugenio ricevette gli ultimi sacramenti. Stava morendo. I suoi giovani andarono davanti alla statua della Madonna delle grazie e ottennero la grazie della guarigione. Ma Maria aveva in serbo un’altra grazia, quella della seconda conversione, che porterà alla fondazione degli Oblati.
Quante cose belle faceva sant’Eugenio, ma dopo quella malattia, che definì “un colpo tra capo e collo” infertogli da Dio, si rese conto che dietro tutto il suo gran daffare c’erano motivazione non proprio soprannaturali. Fu un cammino di mesi, che lo portò alla decisione: “Dio mio, ora voglio agire soltanto per te, solo per amore tuo”. Dio poteva ormai usare di lui per compiere un’opera nuova nella Chiesa.
Non potrebbe essere così anche per noi?

lunedì 29 agosto 2011

Nel Casentino, dritti al cielo!

Dopo La Verna eccomi ancora una volta nel Casentino, a Camaldoli, nel parco nazionale, in mezzo alla foresta che i monaci hanno iniziato a piantare e coltivare già 1000 anni fa.
L’obiettivo del monachesimo, qui come altrove, non era la civilizzazione, ma la necessità del lavoro per vivere, l’obbedienza a Dio che ha affidato la terra all’uomo, la «cura del lavoro ben fatto» come imposto dalla Regola benedettina. Il frutto però è stato indubbiamente quello di aver bonificato terreni incolti e paludosi, favorito nuove colture e insegnato a popolazioni intere le tecniche agronomiche e il senso del lavoro.
Oggi quassù possiamo godere del lavoro paziente e amoroso dei Camaldolesi e immergersi nel verde, quasi tratti su in alto come gli abeti che puntano dritti al cielo.

domenica 28 agosto 2011

Rapimento


“È la forza del destino che incombe su di me…
È un incarico che mi è stato affidato”
(1 Cor 9, 16-17)

Mi guida un Ideale.
Irresistibile forza.
Sospinge e mi trascina.
Con Giacobbe ho combattuto,
mi sono schermito con Geremia,
con Giona sono fuggito,
invano,
con Pietro gli ho gridato che stesse
lungi da me.

Impossibile sottrarmi.
Sono senza scampo.
Travolto e sequestrato.
Non ho l’iniziativa.
Scelto,
la vita e la persona,
più non m’appartengo.

Rassegnata sottomissione?
Schiavizzato dall’Amore.

sabato 27 agosto 2011

Viaggio in Argentina - Le luci della notte

Dal freddo inverno argentino sono tornato alla calda estate romana.
Il cielo, la breve notte, mi ha regalato una pura luna nascente, una Algeri punteggiata di luce, un’aurora ricca di colori.
Mi è sembrata una parabola: Solo la notte può farci scoprire luci che altrimenti non si vedrebbero.
Per una sintesi del dialogo ebaico-cristiano che avviamo vissuto in Argentina, vedi http://www.focolare.org/it/news/2011/08/27/concluso-iv-simposio-ebraico-cristiano/
Molto intenso il racconto di Roberto Catalano:

venerdì 26 agosto 2011

Viaggio in Argentina - Finezza d'anima

L'ingresso del ministero degli affari religiosi
Il simposio si è concluso nella sede del ministero degli affari religiosi, all’interno del ministero degli esteri, nel cuore di Buenos Aires. Presenti personalità ebraiche e cristiani, civili e religiose. Un momento di alta rappresentatività. Interessante vedere come lo stato si fa promotore delle identità religiose e di come asseconda il dialogo tra le religioni.

Mi rendo sempre più conto che non si può improvvisare il dialogo interreligioso; occorrono preparazione e finezza d’anima.
È partecipare a quell’opera di mediazione operata da Gesù quando è entrato nella divisione tra Cielo e terra e tra le divisioni degli esseri umani. Per colmare ogni divario e portare l’unità si è fatto quel “nulla” d’amore e per amore che ha consentito l’incontro e il ricongiungimento senza che vi sia più alcun diaframma.
Anche noi siamo chiamati a compiere opera di mediazione tra tendenze, posizioni ed esperienze a volte contrastanti tra di loro. La via è quella di assumere le tensioni, di porsi dentro le spaccature, di amare le parti in contrasto, sapendo che Dio stesso è già sceso in queste tensioni e spaccature e le ha fatte sue. La via è quella di entrare ed essere soltanto una presenza d’amore, senza pretese né giudizi, in servizio, fino a diventare quel “nulla d’amore” che permetterà l’incontro.

giovedì 25 agosto 2011

Viaggio in Argentina - La stoltezza della Croce


Se la notte è silenziosa, con le stelle che brillano mute, il giorno è un canto di mille uccelli. La natura sembra partecipare alla festa che c’è tra noi in questo simposio ebraico-cristiano. Si avverte un crescendo rispetto agli altri tre precedenti incontri: una più profonda conoscenza, più fiducia, un amore più sincero. Sembra un sogno. Dove sono i “perfidi giudei” di antica memoria?
Nei momenti liberi (ma il programma è così intenso!) visitiamo la Mariapoli con le sue aziendine, le case, i centri di incontro… È un incanto incontrare i giovani che vi lavorano, così pieni di entusiasmo; e gli adulti che da tanti anni vivono qui con fedeltà e fede. Veramente è una nuova umanità, una profezia della città nuova.
Oggi, accanto alle abituali conferenze, gli incontri di dialogo per differenti ambiti: il mondo della giustizia, della comunicazione, dell’educazione…

Dovrei parlare del Crocifisso icona dell’identità. Parlare del Crocifisso agli ebrei? Come? Proprio oggi, festa di san Bartolomeo, la liturgia ci fa leggere le parole di Paolo: “Parlo di Cristo, Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani…”. Credo che anche oggi la croce continui ad essere scandalo e follia. Per parlare di Gesù Crocifisso dovrei essere Lui. Mi piacerebbe condividere con semplicità la convinzione che Gesù acquista la sua identità quando la perde, che diventa Signore della vita attraverso la morte.

Nel suo grido - “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” - Gesù mostra di essere giunto allo svuotamento estremo di sé, a quella kenosis di cui parlare Paolo: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-7).
Per compiere la riconciliazione tra gli uomini e con Dio si sente estromesso dal suo popolo (è crocifisso fuori della città santa) e dal Padre suo (dal quale si vede abbandonato). Gesù perde, se così si può dire, la sua identità di Figlio di Dio. Come ebreo è maledetto dalla legge perché pende dalla croce, come figlio di Dio è abbandonato dal Padre fino ad apparire soltanto uomo. Avrebbe potuto rifiutare questa via e affermare se stesso, in tutta l’identità di figlio di Dio, rispondendo alla sfida: “Se sei figlio di Dio, scendi dalla croce”.
Ma è proprio qui, nell’accettazione da parte di Gesù di farsi maledizione con i maledetti, peccato con i peccatori, anatema con chi è anatema, senza Dio con i senza Dio, che egli manifesta il paradosso dell’amore che rende benedetti e maledetti, innocenti i peccatori, accoglie in casa gli esclusi, rende Dio agli atei.
A sera continuano i momenti ricreativi e artistici
Perché “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, la sua identità religiosa, potremmo dire, “Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”, gli reso la propria identità.
Il centurione romano, che lo aveva crocifisso e aveva inferto con la lancia il colpo di grazia, riconosce la sua identità proprio in questa apparente perdita di identità: “Questi era veramente il figlio di Dio” (Mc 15, 39).
Qui sta l’essenza dell’amore che in quanto dono totale non è, non esiste per sé, e perciò è: è amore! Gesù proprio nel momento in cui è espropriato da sé dall’amore e perde la propria identità per amore, allora è pienamente se stesso e manifesta la sua identità più profonda – il suo essere amore.
Si intravedono le applicazioni nel dialogo interreligioso.
L’affermazione forte della propria identità può generare lo scontro tra le differenti identità. Soltanto il reciproco “non essere” davanti all’altro, come espressione dell’amore, fa “essere” l’altro e fa ritrovare pienamente sé stessi nella più profonda identità religiosa: l’essere amore.

mercoledì 24 agosto 2011

Viaggio in Argentina – Il Crocifisso modello del dialogo


Con alcuni “colleghi” rabbini
Un’altra giornata intensa. Sembra quasi superfluo parlare di dialogo tra di noi, tanto profonda è l’unità raggiunta. Quando i rabbini parlano si sente tutta la sapienza di secoli.
José Damian mi ha scritto dalla Spagna: “Santa Teresa era ebrea di razza, per questo, tra l'altro, amava tanto la Sacra Scrittura. Anche Edith Stein, che lo fu pure di religione fino alla sua conversione. Conoscendo Gesù non è che abbia rinunciato alla sua tradizione, e ha cominciato a andare con la mamma alla sinagoga. Soltanto che voleva che tutti i suoi conoscessero pure Gesù, e per questo offrì la propria vita. In questo fu un po' come Paolo, e anche come Gesù stesso”. Poi continua: “La GMG è finita. Noi abbiamo avuto per tre giorni le reliquie di santa Teresa di Lisieux. I giovani lasciavano dei piccoli messaggi. Quasi 4000 al giorno”.

Domani dovrò parlare di Gesù come modello del dialogo. Lo farò da credente, consapevole che mi rivolgerò a ebrei. Con semplicità parlerò di lui come Figlio di Dio…. Non per imporre un credo, ma per onestà personale. So bene che il nostro non è l’unico modo per comprendere la persona di Gesù, e quanto può aiutare noi cristiani la lettura ebraica di Gesù, come già hanno fatto in questi ultimi decenni Samuel Sandmel, David Flusser, Geza Vermes, Harvey Falk, Jacod Neusner e tanti altri autori ebrei.
Vale anche per la comprensione di Gesù quello che Alan F. Segal afferma in generale del cristianesimo e del giudaismo: “non possono essere compresi pienamente in isolamento l'uno dall'altro. La testimonianza dell'uno è necessaria per dimostrare la verità dell'altro e viceversa”. Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani.

Non mancano
i momenti artistici
Egli aveva una missione da compiere, riportare l’umanità al suo disegno originario di comunione e di unità. Disegno compromesso dal peccato che ha frantumato ogni tipo di rapporto: tra il genere umano e Dio, tra l'uomo e la donna, tra fratello e fratello, tra i popoli, tra l'umanità e il creato…
Per compiere questa sua missione ha scelto una strada impervia: la stoltezza e lo scandalo della croce. Con la sua morte sul legno ha riconciliato cielo e terra e ha distrutto il muro di separazione tra giudei e gentili – simbolo di ogni separazione –, riconciliando tutti nell'unità (cfr. Ef 2, 14-16). L’angelo dell’Apocalisse può adesso segnare con il sigillo di Dio, che è ormai il Tau del Crocifisso, le dodici tribù di Israele e la “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9). Non più divisioni, ma unità nella ricchezza della molteplicità.
Non a caso il Crocifisso è diventato l’emblema del cristianesimo, anche se nei primi secoli non si osava rappresentarlo, tanto era traumatico questo tremendo supplizio inflitto dai Romani. Più ancora era sconvolgente pensare che il Messia si fosse addossato la maledizione lanciata dal Deuteronomio contro chi pende dalla croce (Deut 21, 23; Gal 3, 13).

Il primo punto del mio discorso sarà: Il Crocifisso icona dell’amore estremo.
L’amore più grande, ha detto Gesù, è quello che arriva a dare la vita per gli amici (Gv 15, 13).
Grazie a questo amore estremo ogni persona gli diventa amica. Chiama amico anche Giuda che lo tradisce. Dà la vita anche per coloro che gli sono nemici, i crocifissori, per i quali chiede il perdono scusandoli, “perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).
È lo sguardo nuovo chiesto a chiunque è chiamato a costruire la fratellanza universale: vedere in tutti dei fratelli e delle sorelle per i quali essere pronto a dare la vita, trasformare ogni persona con la quale si entra in contatto in un amico, in un’amica.
Uno dei momenti più belli:
l’esperienza di giovani ebrei e cristiani.
Credono nell’unità. C’è speranza!!!
Chiara Lubich ha tradotto questo amore estremo di Gesù con un’espressione semplice ed esigente: “farsi uno” con l’altro, ossia capire l’altro fino in fondo, entrare nel suo mondo, condividere i suoi sentimenti, fino a “vivere l’altro”. È la premessa per ogni dialogo.
Il suo amore lo porta ad assumere tutto della nostra umanità, e così a dar senso a tutto, a tutto redimere.
La stessa via d’amore è chiesta a chi vuole costruire l’unità.
“Occorre essere assolutamente poveri di mente – ci ha insegnato Chiara –, di cuore, di volontà, occorre essere ‘nulla’ come Gesù abbandonato per poter farci uno con gli altri, per poter ‘vivere gli altri’, sì da non essere noi a vivere, ma essere amore”.
In maniera concreta e pedagogica continua: “Siamo incapaci di farci uno perché il nostro cuore è già occupato dalle nostre preoccupazioni, dai nostri dolori, dalle nostre cose, dai nostri programmi. Come possiamo allora farci uno, e come le preoccupazioni, i dolori, le ansie del fratello possono entrare in noi? È proprio necessario tagliare o posporre tutto quanto riempie la nostra mente e il nostro cuore per farci uno con gli altri”.
Chiara ha applicato questo suo insegnamento nel campo del dialogo interreligioso, ponendosi in atteggiamento di ascolto dei membri delle differenti religioni, così da comprenderli dal di dentro della loro cultura.

martedì 23 agosto 2011

Viaggio in Argentina - Identità e dialogo

Nella notte fredda il cielo nero è carico di stelle; sono tantissime e grandissime. Da lasciare incantati. La via lattea in alcuni punti è una densa nube bianca. Che bella corona ha preparato il cielo per la sua Regina!
Abbiamo terminato la prima giornata del simposio ebraico-cristiano. Una ottantina i partecipanti dagli Stati Uniti, vari Paesi del Sud America, Europa, Israele. Il clima è molto alto, dal primo momento, con ascolto reciproco, rapporti di amicizia… Mi piace vederli pregare insieme, con le cantilene tipiche, i movimenti ondulanti… Con tanti di loro ci siamo incontrati già nei precedenti simposi, soprattutto in quello di Gerusalemme.
Il tema è quello della identità e del dialogo, due realtà che si compenetrano: l’identità è frutto del rapporto. Ci sono stati interventi molto profondi con lettura del tema da punto di vista filosofico, antropologico, psicologico, con nomi che ritornano: Martin Buber, Emmanuel Lévinas, Viktor Frankl, Paul Ricour…
Ma ciò che più mi ha convinto che l’identità nasce dal rapporto è la foto che mi è arrivata dall’ultimo nato in famiglia, Niccolò. Questa foto vale più di mille conferenze. L’identità di Niccolò non sarà frutto dei rapporto con gli altri tre? E ognuno dei tre non ridefinisce la propria identità nel rapporto con Niccolò?

lunedì 22 agosto 2011

Viaggio in Argentina – L’ebreo che non si sposò per sposare la Bibbia



Abbiamo dovuto aspettare che comparissero tre stelle in cielo, il segno che il Sabato era terminato. Soltanto allora siamo potuti partire. L’appuntamento era davanti ad un grande albergo del centro di Buenos Aires dove erano alloggiato alcuni dei ostri amici ebrei venuti dagli Stati Uniti, Europa, Israele. Abbiamo dovuto aspettare la fine del Sabato perché prima non si poteva viaggiare. Il pullman è finalmente partito e dopo tre ore di viaggio siamo arrivati alla Mariapoli Lia, in piena notte.
Sono venuto qui tanti anni fa, una trentina? La cittadella è molto cresciuta: nuove casette, la chiesa, i saloni, nuove strade, il polo industriale… Tutto ben distribuito sui vasti spazi erbosi di questa sterminata campagna. Sembra impossibile che attorno ad una donnetta piccola e minuta come Lia sia sorta una così grande Mariapoli. È perché lei era così trasparente che faceva passare solo Dio? Ha fatto tante cose, ha detto tante cose… eppure il ricordo più bello di lei è quando, a Roma, mi ha regalato il più buon castagnaccio che abbia mai mangiato in vita mia. Perché di una persona rimangono gesti d’amore così semplici?
Abbiamo celebrato la giornata della pace che qui in Mariapoli si tiene da quindici anni tra cristiani ed ebrei. Tante testimonianze, tra cui spiccavano quelle di tre ragazze venuta da Israele. Il momento culmine quando in cerchio (eravamo 300 persone) attorno a un ulivo portato da Gerusalemme e piantato qui 15 anni fa, abbiamo pregato e cantato ondeggiando allo stile ebraico, tenendoci abbracciati.
Contemporaneamente 180 giovani hanno svolto a parte la loro giornata della pace, lavorando in gruppi di interessi.
Attorno all’ulivo pensavo che noi cristiani siamo innestati sul ceppo di Israele, su quell’ulivo, come ci ricorda san Paolo. Continuiamo a vivere d’Israele e non possiamo fare a meno d’Israele se non vogliamo seccare.
Quante cose ci insegnano questi nostri fratelli! Prima di tutto la passione per la Sacra Scrittura. Ricordo di aver letto l’aneddoto di Rabbi Jochanan (+ 279) che andò da Tiberiade a Seffori appoggiandosi alla spalla di Rabbi Chijja bar Abba. Giunsero a un campo. Disse: Questo è stato mio e io l’ho venduto per potermi occupare della Torah. Giunsero a un oliveto. Disse: Questo era mio, e io l’ho venduto per potermi occupare della Torah. Rabbi Chijja bar Abba cominciò a piangere e disse: Io piango perché tu non ti sei riservato nulla per la tua vecchiaia. Rispose: Chijja, figlio mio, Chijja, figlio mio, è poca cosa ai tuoi occhi che io abbia venduto qualcosa di ciò che è stato creato in sei giorni, per acquistare con questo qualcosa di ciò che è stato dato in quaranta giorni e quaranta notti?.
Ben Azzai per lo studio della Torah aveva rinunciato a sposarsi e si giustificava dicendo: «Che cosa devo fare? La mia anima è attaccata alla Torah e il mondo può continuare per opera di altri».

domenica 21 agosto 2011

Viaggio in Argentina – Alla Mariapoli Lia

Viaggio in Argentina – Mariapoli Lia
Sono a O’Higgins, un paesino sperduto nella pampas argentina, questa immensa distesa di terra, con un cielo limpido, un freddo pungente…
È iniziata la straordinaria avventura ebraica, di cui racconterò…

sabato 20 agosto 2011

Viaggio in Argentina – Identificazione con Maria Immacolata

La chiesa della Madre di Dio

Ancora un giorno chiuso nella casa degli Oblati a lavorare sulle molte carte che devo preparare. Niente visita a Buenos Aires… sarà per un’altra volta.
Sono comunque nella casa de “La Madre de Dios”! Ti pare poco? Accanto a lei ho scritto un testo su di lei, che dovrò comunicare a Camaldoli fra una settimana. Lei mi ha aiutato a capire meglio “il nostro nome di famiglia”, Oblati di Maria Immacolata.
Nella Chiesa – scriveva sant’Eugenio quando gli Oblati furono approvati dal Papa – è nato un “nuovo corpo apostolico”, costituito da Maria, scelto da Lei, che “cammina sotto le sue insegne, sotto la sua bandiera”. È un’immagine costante che torna nelle sue lettere: siamo “il corpo che ha Maria per Madre e che lotta contro l’impero del demonio e per il regno di Cristo”, siamo “la troupe d’élite di Maria”. Lei si è scelto un pugno di uomini perché ha bisogno di un gruppo all’avanguardia, specializzato, di “ministri di misericordia di Maria verso il popolo”.
Padre Pietro Centurioni
Se Maria ci ha costituiti tali, siamo davvero “la diletta famiglia della Santissima Vergine”, davvero “dobbiamo considerarla sempre come Madre”. La Vergine Immacolata, la Santa Madre di Dio, la nostra più in particolare.
Siamo Oblati di Maria Immacolata. Offerti come lei, sul modello di lei, uniti nella medesima adesione all’offerta di Cristo. Lei ci insegna come vivere la morte di Gesù, come unirci al suo mistero pasquale, come si diventa suoi cooperatori.
Non possiamo vivere la nostra missione senza di lei, che sant’Eugenio contempla “Madre della missione”, “Madre di misericordia”, “Scala di misericordia”, “Nuova Eva”, “Corredentrice”, “Madre delle anime”, “Madre spirituale di una moltitudine innumerevole di figli di Dio”, “la grande nemica dell’impero del demonio”, “Dispensatrice di grazie”…
Forse per questo motivo uno dei grandi superiori generali, p. Léo Deschâtelets, diceva che per noi Oblati “non si tratta – se vogliamo comprendere la nostra vocazione – d’avere per Maria Immacolata una devozione ordinaria. Si tratta di una specie di identificazione con Maria Immacolata”.

Ho accanto la foto di p. Pietro Centurioni, che è stato qui nel 1935, quando divenne il primo provinciale degli Oblati in Argentina… Mi sembra che sia d’accordo!

venerdì 19 agosto 2011

Viaggio in Argentina – La “Madre de Dios”

La casa e la chiesa "Madre de Dios" 

Dopo 13 ore di volo sono ripiombato nell’inverno, riscaldato dalla calorosa accoglienza degli Oblati di Buenos Aires.
Sono partito ieri sera con un Boing 777, 300 passeggeri a bordo. La lunga notte non mi ha consentito di vedere il paesaggio, ma il monitor di bordo segnava la rotta: Marocco, Sahara, Senegal, la grande traversata dell’Atlantico fino a Salvador in Brasile e giù giù fino all’Argentina.
L'affresco nell'abside: La Madre di Dio
Gli Oblati arrivarono qui dall’Uruguay proprio grazie a un italiano, p. Centurioni. Nell’ottobre del 1934, in occasione del 32° Congresso eucaristico internazionale, avvenuto a Buenos Aires, furono presenti anche alcuni Oblati,  incoraggiati a stabilirsi nella città. Il 7 luglio 1935 iniziò la presenza stabile nel barrio di Los Matederos e Bajos de Flores, che divenne la culla povera nei missionari, con una cappella di legno, due stanze senza acqua corrente, senza cucina e senza bagno. Nasque la parrocchia “Madre de Dios”.
Sono tornato qui dopo una trentina d’anni. Non trovo più le baracche di allora, ma un grande quartiere un po’ sgangherato. Appena in tempo per vedere gli Oblati nella loro “cattedrale” dell’Argentina, da dove partivano per le missioni al popolo: fra poche settimana lasceranno tutto in mano al clero diocesano. Nel frattempo hanno aperto un’altra parrocchia in una periferia della città  malandata come lo era questa settant’anni fa. Sempre avanti i missionari, sempre nuove frontiere!

giovedì 18 agosto 2011

L’unità tra Marta e Maria fa casa a Gesù





L’esperienza della Verna mi ha portato ad incontrare anche un altro grande frate, Eugenio Barelli, che dal 1985 vive la vita contemplativa nel romitorio delle stimmate, situato lungo il corridoio coperto che conduce al luogo delle stimmate. Mi ricorda il senso di questa esperienza vissuta da una minuscola comunità, tre frati, all’interno della grande comunità della Verna, il valore della contemplazione per la vita francescana e per quella di ogni fedele.
Rilegge la citazione che Francesco fa, nella Lettera ai fedeli, della preghiera di Gesù: “E per loro io santifico me stesso. Non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che crederanno in me per la loro parola, perché siano santificati nell’unità, come lo siamo anche noi”. Ma qui Francesco, nel riportare il passo evangelico, sembra essersi sbagliato: cambia il termine usato da Gesù: verità (siano santificati nella verità) con la parola unità, mettendo insieme il versetto 19 e 20 del capitolo 17. A Francesco sta a cuore evidenziare che il cammino del frate minore (soltanto il suo?) è orientato all’unità, che occorre vivere per poter entrare nella gloria del Padre.
Padre Eugenio mi parla poi di Marta e Maria simbolo l’una dell’amore del prossimo e l’altra dell’amore di Dio, un unico indivisibile amore, che Gesù ha racchiuso nel grande comandamento. “Solo vivendo insieme il primo e il secondo comandamento – conclude padre Eugenio – si può avere Gesù in casa. In questa comunione, dove due o più sono uniti nell’agàpe, è accolto lui e pertanto lì è il tutto”.

mercoledì 17 agosto 2011

Francesco, Domenico e io, inondati dal sangue di Cristo


La cappella del Crocifisso, in Santa Maria Maggiore, sarebbe già di per sé una grande bellissima chiesa. Solo che, inserita nella basilica, quasi scompare. Lineare e sobria nell’architettura, è interamente rivestita di marmi pregiati. Sull’altare spicca il bel Crocifisso.
Vi sono stato questa mattina, per celebrare la messa. Ero solo. Ho scelto la messa del preziosissimo Sangue ed ho potuto rimanere lì a lungo, in silenzio, a contemplare questo straordinario mistero.
Come non ripensare a Francesco alla Verna, raffigurato da Andrea della Robbia in adorazione del Crocifisso? Come si fa a disgiungere Francesco dal Crocifisso? Eppure anche il suo contemporaneo, Domenico, non doveva essere da meno. E pensavo al convento di san Marco dove il beato Angelo, quasi in ogni cella ha dipinto il santo ai piedi del Crocifisso, inondato dal suo sangue redentore. “Desiderava di essere flagellato, fatto a pezzi e morire per la fede di Cristo”, si diceva di lui.
Che scenda ancora quel Sangue redentore e lavi i peccati del mondo e ci inebri del divino e ci avvolga come una veste da difesa del male.

lunedì 15 agosto 2011

La perfetta letizia di Padre Valentino


Mentre ero alla Verna ho incontrato tanti frati minori. Sono passati anche cappuccini, conventuali… In particolare mi sono incontrato con un cappuccino con il quale ho vissuto assieme per un anno intero a Castelgandolfo, ma che avevo conosciuto da studente: p. Valentino Vadagnini. Ne ho letto la sua biografia e me lo sono sentito accanto come tanti anni fa. Mi hanno colpito soprattutto due cose: l’entusiasmo e la radicalità con cui si viveva l’unità agli inizi; la sua nuova comprensione del carisma francescano grazie alla luce dell’Ideale. Leggo dal suo diario: “E questa sera ho sentito per la prima volta, dal di dentro… che Gesù vuol farmi santo; che mi ha messo nell’anima il desiderio della santità. E mi pareva di scoprire in modo nuovo il mio rapporto con san Francesco… Mi sono scoperto più “fratello” che “figlio” di san Francesco: non generato da lui, ma ambedue generati dalla stessa madre… Non so come dire. Una scintilla di fronte al sole, certo, ma la stessa anima. Ho constatato cioè che è stato l’Ideale a mettermi nell’anima quella stessa realtà che era in san Francesco. Per cui ritrovo in me la realtà di Francesco… Sì, ma nello stesso tempo mi trovo tanto distinto da lui, e quindi anche tanto libero di seguire la mia via, non legato ad una imitazione esterna, figlio della libertà come lui”.

domenica 14 agosto 2011

L'Assunta dona il suo cingolo a Tommaso... e a Prato


Una nube condusse tutti i discepoli del Signore davanti alla porta della camera della beata Maria, ad eccezione di Tomaso, detto Didimo…
La beata Maria domandò allora ai suoi fratelli: "Che cosa c'è che siete venuti tutti a Gerusalemme?"… tutti dissero dove si trovavano in quel giorno e tutti erano stupiti di trovarsi là…
La beata Maria disse loro: "Prima che sostenesse la passione, pregai mio figlio affinché alla mia morte foste presenti sia lui che voi; ed egli mi concesse questo favore. Sappiate dunque che domani avrà luogo il mio transito...
All'ora terza della domenica… discese Cristo con una moltitudine di angeli e prese l'anima della sua diletta madre: vi fu un grande chiarore ed un profumo soavissimo mentre gli angeli cantavano il Cantico dei cantici, là ove il Signore dice: "Come un giglio tra le spine, così l'amica mia tra le figlie".
Gli apostoli… s'alzarono salmodiando e iniziarono il trasporto del corpo santo dal monte Sion alla valle di Giosafat… deposero il corpo nella tomba con grande onore, piangendo e cantando pieni di amore e di dolcezza. Poi un'improvvisa luce celeste li circondò e caddero a terra, mentre il corpo santo fu assunto in cielo dagli angeli.
Il Vescovo di Prato mostra alla folla la cintura di Maria
Allora il beatissimo Tomaso fu condotto improvvisamente al monte degli Ulivi, vide il beatissimo corpo che se ne andava in cielo e prese a gridare: "O madre santa, madre benedetta, madre immacolata, se ho trovato grazia, andando tu in cielo, rallegra il tuo servo per mezzo della tua misericordia". Ed ecco che dal cielo fu gettato al beato Tomaso il cordone con il quale gli apostoli avevano legato il corpo santissimo. Egli lo prese, lo baciò, rese grazie a Dio e se ne ritornò nella valle di Giosafat.
Qui trovò tutti gli apostoli e un'altra grande folla che si batteva il petto a causa dello splendore visto… Poi il beato Tomaso disse: "Dove avete messo il suo corpo?". Essi gli additarono la tomba. Ma lui rispose: "Là non c'è il corpo che è detto santissimo"… Allora, quasi stizziti, andarono alla tomba che era nuova e scavata nella roccia, e tolsero la pietra. Ma il corpo non lo trovarono, e non sapevano che dire, vinti com'erano dalle parole di Tomaso.
… La nube che li aveva trasportati, fu la stessa che riportò ognuno al suo posto.

Questo il racconto dell’Assunzione di Maria al cielo, secondo uno degli apocrifi. Alla Verna Andrea della Robbia ha immortalato l’atto nel quale l’Assunta consegna a Tommaso la sua cintura. Cintura che è gelosamente conservata nella cattedrale di Prato!

sabato 13 agosto 2011

La Verna, il precipizio dei "Fioretti"

Stretto corridoio che gira allo scoperto sul fianco dei roccioni.
Il demonio cercò di precipitare s. Francesco dal'alto di questa scogliera, ma il sasso al quale Egli si accostò, si cavò secondo le forma del corpo e lo ricevette in sé...

giovedì 11 agosto 2011

La Verna: il monte più santo

Il luogo delel Stigmate
“Altro monte più santo la terra non ha”. Non il Sinai, non l’Athos, ma la Verna. Ogni po-meriggio, dopo aver cantato l’ora nona in ricordo della morte del Signore, i frati partono in processione, seguiti dalla numerosa gente. Lungo il portico affrescato con le scene della vi-ta di san Francesco cantano al Cristo crocifisso, fino al luogo dove il santo di Assisi ricevette le stigmate.

Al termine della sua vita, due anni prima della morte, la contemplazione e l’assimilazione di Francesco a Cristo crocifisso raggiunsero il momento più alto: qui divenne proprio come lui, in tutto simile a lui, trasformato in lui, un altro Cristo.
Qui alla Verna siamo posti davanti all’amore più grande, quello vissuto da Gesù, quello vissuto da Francesco, quello a cui anche noi siamo chiamati.
Mi trovo in questo santuario da alcuni giorni. Sono preso dalla bellezza della natura che ci circonda, dall’architettura sobria ed austera, dall’arte luminosa di Andrea Della Robbia. Mi piace vedere la gente che riempie la basilica vivendo con intensa partecipazione i numerosi solennissimi e coinvolgenti momenti liturgici.
Tra la gente tante giovani suore francescane, fioritura perenne di Chiara, pianticella di Francesco. Oggi che abbiamo celebrato gli 800 anni da quanto Chiara lasciò la sua casa per seguire Francesco si sentono riecheggiare in loro le parole di lei alla richiesta di Francesco: “Cosa vuoi?” “Dio”.
Mi colpiscono soprattutto i frati: parlano con la stessa presenza; e dicono parole sostanzio-se, di Vangelo. Li vedi e vedi Francesco, vedi Francesco e vedi Gesù.
Qui Francescane e Francescani mostrano vivo il carisma del Santo.


martedì 9 agosto 2011

Vescovo: Una visione d’alto



Al mio professore di ecclesiologia non piaceva che il nuovo papa facesse tanti viaggi in gi-ro per il mondo. Gli sembrava lo distogliessero dal compito di governo, col rischio di “non mettere le mitre sulle teste giuste”. Era anche dispiaciuto del fatto che un grande vescovo come Agostino fosse rimasto confinato a Ippona, una città di periferia, senza venir “pro-mosso” ad una cattedra degna di lui, come se la grandezza di un vescovo si misurasse dal prestigio della sua città.
Giovanni Paolo II e Agostino erano due grandi vescovi perché avevano una visione d’insieme, secondo il significato etimologico della parola “vescovo” = epì-skopos, uno che guarda dall’alto, che veglia e sor-veglia. È lo stesso compito che san Francesco affidava al superiore della sua comunità chiamandolo “guardiano”. Non con l’intento poliziesco di sorvegliare perché non si commetta il crimine o per reprimerlo e punirlo appena lo si scor-ge grazie alla “visione dall’alto”, ma con quello amoroso di chi si prende cura dell’altro.
Il recente conferimento del pallio a 40 arcivescovi metropoliti, così come lo spostamento di alcuni vescovi italiani, a cominciare da Scola a Milano, è l’occasione per riflettere sul loro ruolo. Benedetto XVI, imponendo il pallio e ricordando i suoi sessanta anni di sacerdozio, ha giustamente dato rilievo soprattutto alla dimensione spirituale, all’amicizia personale con Cristo, espressa nella “comunione del pensare e del volere”, e al compito di “introdurre altri nell’amicizia con Cristo”. Nessuno può tuttavia misconoscere l’incidenza sociale e po-litica che hanno avuto ed hanno i vescovi, a cominciare dai due appena ricordati, Agostino e Giovanni Paolo II – al di là di come essa possa essere giudicata: dovuta, opportuna oppu-re “indebita ingerenza”…
La loro missione mi sembra vada compresa proprio a partire dal nome di “vescovo”. In una società dalla visione parziale e parcellizzata, dominata dagli interessi di parte e sempre più faziosa, sentiamo il bisogno di uno sguardo ampio, di quella “visione dall’alto” che rende capaci di cogliere le esigenze contrastanti, di porsi in ascolto delle diverse voci, di portare al dialogo i molteplici soggetti, di coinvolgere e armonizzare le forze (e le debolezze) e gli attori nell’ambito ecclesiale e civile. Più ancora abbiamo bisogno di una “visione dell’alto”, che sappia contemplare e tradurre il disegno di Dio sull’umanità in un progetto globale di senso. È così che vediamo i nostri vescovi.

domenica 7 agosto 2011

Alzare lo sguardo

I discepoli erano in brutte acque, letteralmente.
Il lago in tempesta.
Gesù non li lasciò soli. Andò loro incontro, camminando sulle acque.
Camminare sulle acque.
Lui poteva permetterselo, era il Figlio di Dio.
Ma noi? Possiamo noi camminare sulle acque, affrontare con altrettanta sicurezza i momenti duri, le prove?
Era l’estate del 1955, quando imparai ad andare in bicicletta. Ad ottobre sarei dovuto andare a scuola in bicicletta. Fu facile imparare. Bastò che invece di guardare la ruota della bicicletta guardassi in avanti.
Pietro invece, preoccupato, guardava dove metteva i piedi. Guardava le onde minacciose invece di guardare Gesù che lo chiamava a sé.
E affondava.
Non posso guardare le difficoltà piccole o grandi che si sollevano come onde di tempesta. E neppure me. Mi verrebbe da scoraggiarmi e colerei a picco.
È consentito un grido soltanto, lo stesso che si permise Pietro: “Signore, salvami!”. Ma per dire quelle parole dovette alzare lo sguardo e fissare Gesù: era già salvo! 

sabato 6 agosto 2011

Trasfigurazione: la luce nella notte

Nei musei vaticani alla trasfigurazione di Raffaello è dedicata una grande sala buia nella quale il quadro splende in tutta la sua luminosità. Questo contrasto mi ha sempre richiamato la notte della trasfigurazione nella quale Gesù splendette in tutta la sua gloria
Era notte o era giorno quando, in preghiera sul monte, si trasfigurò? Il Vangelo non ce lo dice. Se era giorno il suo splendore offuscò la luce del sole. Se era notte la sua luce dissipò le tenebre.
Doveva essere notte, perché di notte Gesù era solito ritirati a pregare, quando i suoi discepoli, come più tardi nell’orto degli olivi, venivano sopraffatti dal sonno.
È notte. Le tenebre ricoprono la terra. Le stesse tenebre che in pieno giorno, quando fu innalzato sulla croce, avvolsero tutta la terra. Ed è proprio di quel giorno che diverrà notte, che Gesù discorre con Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti. L’intera Scrittura parlava di lui e annunciava l’esodo doloroso che lo avrebbe condotto alla morte per condurre noi dalla morte alla vita. Quell’esodo avverrà in una tenebra capace di oscurare la presenza di Dio, di far smarrire la strada, di metter paura, una “paura da morire”, che lo farà sudare sangue, “con forti grida e lacrime”.
Ma proprio mentre ne parla con Mosè ed Elia, e percepisca il buio, s’accendi di luce e fa splendere la notte: la sua notte non ha più oscurità, annuncio di risurrezione, di esodo compiuto.

venerdì 5 agosto 2011

Nevicata estiva su Roma

“Gloria in excelsis Deo…”. Al canto dell’inno angelico, alla messa delle 10, la neve scende sull’altare. Stessa nevicata a sera, al canto del Magnificat durante il vespro: si aprono i cassettoni del soffitto, dorati con le lamine del primo oro che era giunto dal Nuovo Mondo appena scoperto da Cristoforo Colombo, e da lì piovono petali bianchi, come al mattino: sembra proprio neve! Così ogni anno a Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche maggiori di Roma, il 5 agosto si ricorda la famosa nevicata dell’anno 352. Dopo cena invece, sulla piazza, lo spettacolo di “luci e suoi” ne rievoca la storia e allora non scendono più petali bianchi, ma viene diffusa la neve artificiale, proprio come sui campi di sci!
A papa Liberio e al rappresentante dell’imperatore di Costantinopoli la notte tra il 4 e il 5 agosto 352 era apparsa in sogno la Madonna chiedendo che si dedicasse a lei una chiesa sul colle dell’Aventino. La mattina i due si recarono sul colle e sulla cima del Cispio trovarono la neve, ma soltanto  sul luogo dove si sarebbe dovuta costruire la chiesa.
La tradizione vuole che quella prima chiesa della “Madonna della neve”, detta liberiana dal papa Liberio, sia l’attuale Santa Maria Maggiore. Ma questa fu costruita più tardi, da Sisto III, subito dopo il Concilio di Efeso del 431 e della primitiva chiesa non ne è più rimastra traccia.
Nel concilio di Efeso Maria era stata proclamata Madre di Dio e subito in Occidente si volle dedicarle una chiesa. In quel Concilio i 200 Padri presenti proclamarono la loro fede: “Noi confessiamo che il nostro signore Gesù figlio unigenito di Dio, è perfetto Dio e perfetto uomo…; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, nato, per noi e per la nostra salvezza, alla fine dei tempi dalla vergine Maria secondo l'umanità… Conforme a questo concetto di unione in confusa, noi confessiamo che la vergine santa è madre di Dio…”. Quella sera a Efeso il popolo era talmente contento che improvviso una grande fiaccolata inneggiando alla Madre di Dio. Da allora, dopo le parole dell’Angelo, nell’Ave Maria si prega: “Santa Maria, Madre di Dio…”.
Una visita alla basilica? Sì, ma non attraverso questo sito, è troppo bella! Bisogna proprio recarvisi di persona e lascarsi prendere dall’inconfondibile atmosfera mariana, contemplare i mosaici, l’immagine della Madonna… Qui potremmo tutt’al più raccontare le storie che sempre ti raccontano le guide.
La cappella con la mangiatoia dove
Maria depose  Gesù alla sua nascita
Sapete dell’esarca Olimpio che voleva uccidere papa Martino I? Quando il papa gli avrebbe dato la comunione il suo scudiero avrebbe dovuto pugnalarlo, ma lo scudiero diventò improvvisamente cieco e l’esarca si convertì… Ma raccontato così, in due parole, perde tutta la sua drammaticità teatrale. Dovrei raccontarvelo lì, sul posto, con dovizia di particolari. O quando il prefetto Cencio con una banda di armati salì sull’altere, prese Gregorio VII e lo trascinò prigioniero nella torre? Il popolo, sperato il primo momento di sbandamento e terrore liberò il suo vescovo che, uscito dalla torre, salvò il prefetto dal linciaggio e lo perdonò. Sapete perché una delle campane del campanile – il più alto di tutti i campanili di Roma – si chiama La sperduta? Perché i suoi rintocchi, di notte, aiutarono una pellegrina che si era perduta nella campagna circostante a ritrovare la strada. La donna lasciò una somma perché ogni notte, alle due, si suonassero dei rintocchi per chi si fosse eventualmente smarrito (ma oggi la campana non la trovate più a Santa Maria Maggiore, ma in Vaticano, dove l’ha portata Leone XIII). O la tomba del Nigrita che si trova nella Cappella Cesi? Era l’ambasciatore del re del Congo mandato a Roma nel 1604 per ottenere missionari per il suo paese. Tre anni di viaggio… e muore in giorno prima di essere ricevuto dal Papa…
Ma la storia più bella che non ci stancheremo mai di raccontare è proprio quella della Madre di Dio che dà alla luce il figlio Gesù. E dovremmo raccontarcela giù sotto l’altare della confessione dove c’è la mangiatoia di Betlemme! O nella Cappella delle Reliquie dove sono custodite alcune pietre della stalla, un po’ di fieno sul quale Maria depose Gesù, frammenti delle fasce nelle quali lo avvolse… O nella Cappella Sistina (non quella del Vaticano!), l’ultima della navata a destra, dove troviamo il più antico presepe romano (1290) scolpito da Arnolfo di Cambio… Ma di questo ne riparleremo a Natale!

giovedì 4 agosto 2011

Magico Castello di Duino

Di ritorno dalla Slovenia una breve sosta per visitare un gioiello: il Castello di Duino, del 1400, su uno sperone di roccia a precipizio sul mare, con una strabiliante veduta del golfo di Trieste. Come per magia torni in epoche lontane e rivive la calda ospitalità del Principe Carlo Alessandro di Torre Tasso e della sua famiglia. Passeggi in compagnia degli ospiti dl principe: Johann Strauss, Franz Liszt, Mark Twain, Paul Valéry, Gabriele D'Annunzio, Rainer Maria Rilke, Eugène Ionesco e Karl Popper… Con loro ti aggiri per il stanze e saloni ricchi di pregiate opere d'arte, nel parco con i viali romantici e le terrazze che si aprono sull'immensità del mare. Sul promontorio di fronte le vestigia del primo castello, inespugnabile fortezza…