venerdì 26 aprile 2024

Un posto in cielo

Nel Vangelo di oggi Gesù ci ha detto che nella casa del Padre ci sono molte dimore. Saranno come le casette a schiera o le celle dei certosini, tutte uguali?

Ho letto in una lettera di santa Caterina da Siena che anche se tutte le virtù sono espressione della medesima della carità, “ognuno ne ha una che prevale sulle altre. Da ciò le diversità di vita”. I santi hanno vissuto tutti la carità, ma in modi diversi: “non ce n'è uno che assomigli all'altro. C'è la stessa diversità fra gli angeli, che non sono tutti uguali”. E conclude che “una delle gioie dell'anima nella vita eterna è anche vedere la grandezza di Dio nella varietà della ricompensa che dà ai suoi santi”.

Così passeremo l’eternità ad andare a trovare le anime sante e resteremo meravigliati della diversità di ogni loro abitazione, una più bella dell’altra…

Chissà come sarà la mia. Intanto so che Gesù è andato a prepararla e che si è fatto Via perché possa arrivare a dimorare in essa.

 

giovedì 25 aprile 2024

Una famiglia carismatica

 

Nel 2014 venne a trovarmi p. Isidoro Murciego, Trinitario, con il quale anni prima avevo lavorato per l’Associazione dell’Unione dei Membri delle Curie Generalizie. Da poco era stato nominato responsabile dell’associazione dei laici e degli Istituti religiosi legati ai Trinitari. “Perché, mi disse, non raduniamo alcuni quelli che nelle Curie generalizie sono incaricati di seguire i laici? Potremo così scambiarci le esperienze, i progetti…” Io, gli risposi: “Sono alla casa generalizia, ma non sono un membro del consiglio generale e da noi non c’è un consigliere incaricato espressamente dei laici”. “Ma tu, mi disse, sei un focolarino e quindi sai costruire unità tra persone tanto diverse. Bontà sua!”

Cominciarono così, nella nostra casa generalizia, gli incontri con alcuni di questi incaricati dei laici. Prima una ventina, poi una trentina… E perché non chiamare anche le suore che hanno esperienze analoghe? Dopo due anni eravamo così tanti che non c’era più posto a casa nostra. Andammo dai Fratelli delle Scuola Cristiane e alla prima riunione eravamo già 200. E perché non chiamare anche i laici interessati?

P. Isidoro Murciego insisteva nel chiamare “Famiglia spirituale” le diverse “galassie” attorno al carisma. Io dicevo: Meglio parlare di “Famiglia carismatica”. Di lì a poco esce la lettera del Papa per l’Anno della Vita consacrata e parla di “Famiglie carismatiche”. Chissà chi ha suggerito al Papa questa parola…

Pensare a una famiglia carismatica oblata ci permette di pensare in grande, senza steccati, senza gerarchie. Anche nel mondo oblato ci sono tanti gruppi di laici, altri laici che non sono associati attraverso strutture organizzative e che pure si sentono parte della famiglia. Dovremmo permettere a tutti di sentirsi a casa. Non possiamo poi dimenticare che fanno parte della famiglia anche membri di Istituti di vita consacrata, come le COMI, le OMMI… Dobbiamo avere un respiro largo.

Le modalità di vivere e condividere il carisma devono rimanere ampie, aperte, altrimenti direbbe Papa Francesco, riprendendo le sue parole di Evangelii gaudium, nasce «un gruppo esclusivo, un gruppo di élite».

Questa apertura non è soltanto all’interno della famiglia carismatica, ma è molto più ampia, tra le diverse famiglie carismatiche, un’autentica comunione tra carismi diversi e quindi, tra l’altro, tra gruppi laicali diversi, ispirare da carismi diversi.

Mi sembra importante quello che il Papa raccomanda al riguardo, sempre nella Lettera d’indizione per l’anno della vita consacrata: «Mi aspetto che cresca la comunione tra i membri dei diversi Istituti. Non potrebbe essere quest’Anno l’occasione per uscire con maggior coraggio dai confini del proprio Istituto per elaborare insieme, a livello locale e globale, progetti comuni di formazione, di evangelizzazione, di interventi sociali? In questo modo potrà essere offerta più efficacemente una reale testimonianza profetica. La comunione e l’incontro fra differenti carismi e vocazioni è un cammino di speranza. Nessuno costruisce il futuro isolandosi, né solo con le proprie forze, ma riconoscendosi nella verità di una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla malattia dell’autoreferenzialità».

Il marchio oblato è identitario, ma non escludente. Pensiamo alla felice esperienza che abbiamo ormai da moltissimi anni, delle missioni al popolo organizzare dagli Oblati e capaci di coinvolgere attivamente persone di altri carismi. Oppure pensiamo al rapporto importate c’è stato e che c’è con i laici del Movimento dei Focolari. Tutto questo non ha mortificato, ma potenziato la nostra esperienza e la nostra identità, così come i membri degli altri gruppi.

Ci sono persone del laicato oblato che hanno lavorato e lavorano con altre espressioni carismatiche, dall’Azione cattolica alla San Vincenzo, dai gruppi di preghiera di Padre Pio al Rinnovamento nello Spirito. Io spero che non si pongano degli aut aut, ma dei et et, per giungere – come afferma il Papa – a “una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla malattia dell’autoreferenzialità”. In una società così frazionata e con problemi giganteschi, cosa facciamo da soli? Perché invece di tanti partitini gelosi e fazioni, non potenziamo il fronte comune?

Alcuni pensieri che vorrei comunicare sabato al Congresso dei laici Oblati iniziato questa sera a Sassone.

mercoledì 24 aprile 2024

San Marco a Roma

 

La basilica di san Marco? Quella di Venezia fu costruita soltanto nell’828. La basilica di san Marco è quella di Roma! costruita da Papa Marco nel 336. A Roma non ci lasciamo mancare niente...

Nei sotterranei si trovano ancora i muri perimetrali dell'originaria basilica paleocristiana sorta probabilmente sopra una preesistente casa romana. Dell’antico romanico rimangono i mosaici dell’abside di Gregorio IV (827-844) raffiguranti Cristo con S. Marco papa, Marco evangelista e Gregorio IV (col nimbo quadrato dei personaggi viventi) che offre il modello della chiesa e naturalmente il campanile del 1154.

Sembra fosse il luogo dove san Marco ha dimorato a Roma… Comunque a Roma c’è stato avvero. Era Marco per il mondo greco-romano, mentre i suoi connazionali lo chiamavano Giovanni, in ebraico. La prima e l’unica apparizione nei vangeli sembra essere quella sul monte degli ulivi, dove Giovanni Marco era andato con Gesù dopo l’ultima cena e dove si era addormentato nella casetta del piccolo podere. Svegliato dal trambusto delle guardie venute a catturare Gesù, si buttò addosso il lenzuolo e andò a vedere. Un soldato lo agguantò, “ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo”. O forse, come ci ha insegnato Giacomo Perego, quel giovinetto è il simbolo dello spogliamento totale richiesto al discepolo per poter seguire
Gesù? La mamma, Maria, aveva messo la casa in Gerusalemme a disposizione della prima comunità di Gerusalemme e ne divenne la chiesa domestica.

Discepolo e segretario di Pietro, che svolgeva la sua attività tra gli ebrei (erano circa 45.000), Marco gli faceva da interprete, perché Pietro non parla il greco o non lo sapeva molto bene. Clemente Alessandrino, attorno al 200, precisa che Marco compone il suo vangelo a Roma, annotando i racconti di Pietro. Così anche Papia, ma nel Vangelo di Marco si avverte anche una grande presenza di Paolo.

25 aprile. Come al solito sarà polemica politica. Intanto Marco è qui e fa dire a un pagano, un romano, il centurione, la professione di fede conclusiva del suo Vangelo: “Questi era davvero il figlio di Dio…”.

 

martedì 23 aprile 2024

Siamo nelle mano di Dio

“In che mani mi sono messo…” - Esclamazione di quando ci accorgiamo che ci siamo fidati delle persone sbagliate.

“Sono in buone mani” - Esclamazione di quando ci sentiamo con persone sicure.

“Siamo nelle mani di Dio” - Espressione che di solito indica che non c’è più niente da fare e che si potrebbe tradurre con: “Purtroppo non si può fare diversamente, allora ci rassegniamo”. Potremmo invece dire: “Che fortuna che siamo nelle mani di Dio, dove meglio si può stare?”.

Ci ho ripensato questa mattina quando nel vangelo ho sentito Gesù che diceva delle sue pecore: “Nessuno le strapperà dalla mia mano… nessuno può strapparle dalla mano del Padre". Che bello stare nelle mani di Dio, dove stare più sicuri?

 

lunedì 22 aprile 2024

Con san Domenico a San Sisto Vecchio

 

San Sisto era una basilica del V secolo, sorta su una villa romana, fuori delle Mura Serviane, in prossimità della Porta Capena da cui partivano le vie Latina e Appia. Abbandonata, fu ripristinata da Innocenzo III. Onorio III il 4 dicembre 1219 ne fa dono a Domenico, con lo scopo di fondarvi un monastero per la riforma delle monache di Roma. Domenico e i suoi frati ne prendono possesso il 27 dicembre.

È la quarta tappa del nostro pellegrinaggio per “fondatori a Roma”…

La creazione del monastero femminile fu possibile soprattutto grazie al trasferimento, il 28 febbraio 1221, di una quarantina di Suore provenienti dal vicino monastero di S. Maria in Tempulo alle quali Domenico consentí di portare nella nuova sede l’icona  della Madonna acheropita (in seguito denominata “Madonna di S. Sisto”), alla quale le suore tributavano una grande venerazione.

E dov’era questo monastero di S. Maria in Tempulo? Ne rimane un casolare a lato della Passeggiata Archeologica, oggi usato dal comune di Roma per celebrare i matrimoni civili. Così abbiamo ripercorso il breve cammino di Domenico e delle monache spendendo mezza mattinata, tante sono le “distrazioni” di questi luoghi antichi ricchi di storia.

Al convento di San Sisto abbiamo riletto alcuni ricordi che ci ha lasciato suor Cecilia, che al tempo di Domenico aveva 16 anni.

«Il padre Domenico — racconta la suora — consacrava il giorno a conquistare le anime predicando e ascoltando le confessioni o dedicandosi a qualche altra opera di misericordia. Ma la se­ra si portava dalle sue suore e, alla presenza dei frati, teneva loro un’istruzione o un sermone per ammaestrarle sulla na­tura dell’Ordine; perché esse non avevano altri che le potesse formare alla vita dell’Ordine».

Un aneddoto – sempre narrato da sr. Cecilia – illustra il rapporto che s’era stabilito. «Giunse una sera più tardi del solito; per cui le suore, pensando che ormai non sarebbe più arri­vato, avevano smesso di pregare e si erano recate in dormito­rio. Ma ecco che improvvisamente i frati suonano la campa­nella che serviva per adunare le suore quando giungeva il beato padre. A quel richiamo tutte le suore ritornarono prontamente in chiesa, si aprì la grata, e lo trovarono già seduto con i suoi frati ad attenderle... Egli fece allora una lunga istruzione mostrandosi molto consolato. Dopo questa conversazione disse: Sarebbe bene, figlioli, prendere qualche cosa di fresco. E chiamato fra Ruggero, il cellerario, gli ordinò di portare del vino e un boccale. Il frate portò quanto gli era stato richiesto e il beato Domenico gli ordinò di riem­pire il boccale fino all’orlo. Poi lo benedisse, ne bevve per primo e dopo lui tutti i frati presenti... Quando i frati ebbero bevuto, il beato Domenico disse: Voglio che anche tutte le mie figlie bevano. E chiamata suor Nubia soggiunse: Va’ anche tu, prendi il boccale e dà da bere a tutte le sorelle. Quella andò insieme a un’altra suora e riportò il boccale colmo fino ai bordi. E benché fosse così pieno non se ne versò nemmeno una goccia. Tutte le suore bevvero dunque, a cominciare dalla priora, poi via via le altre quanto ne vol­lero. E il beato padre ripeteva loro spesso: Bevete a vostro piacimento, figliole!».

Suor Cecilia ha lasciato anche la famosa, unica, descrizione dell’aspetto fisico di S. Domenico: «Il Beato Domenico aveva questo aspetto: era di media statura ed esile di corpo; aveva un bel viso e la carnagione un tantino rosea; i capelli e la barba tendevano al rosso; gli occhi erano belli.


 Dalla sua fronte e di fra le ciglia irradiava un cer­to splendore che a tutti ispirava rispetto e simpatia. Rimane­va sempre sereno e sorridente, tranne quando era addolorato per qualche angustia del prossimo. Aveva lunghe e belle ma­ni ed una voce forte ed armoniosa. Non fu mai calvo, ma aveva la corona della rasura tutta intera, cosparsa di qualche capello bianco».

 


domenica 21 aprile 2024

Sono nudo

 

“Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.

Povero Adamo, si ritrova nudo, al pari di Eva. Segno di fragilità, povertà. Ha perso tutto, si ritrova a terra, con niente, ha bisogno di protezione, di difesa, di sostegno…

Quante volte anche noi ci ritroviamo in questo stato di prostrazione, di inadeguatezza, di debolezza, di bisogno… nudi.

“Il Signore Dio fece all'uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”.

Che gesto pieno di attenzione, di misericordia. Dio che si fa sarto per proteggere, riscaldare, sollevare dall’indigenza… per fare sentire la sua vicinanza.

Copre anche le nostre nudità…

sabato 20 aprile 2024

Nel nome di Gesù

 

Domenica scorsa mi sono sbagliato – normale – è ho anticipato il Vangelo di oggi, quello del buon Pastore:

https://fabiociardi.blogspot.com/2024/04/non-siamo-un-branco-di-pecore.html

Allora questa volta mi lascio conquistare da una parola della prima lettura. Pietro deve rispondere per spiegare come ha fatto a guarire il paralitico. Semplice: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno”.

Basta il suo nome: Gesù! Non è già una preghiera? Soltanto chiamarlo: Gesù!

Il nome di Dio, nel mondo ebraico, non poteva essere pronunciato. Ora poiché Dio è sceso sulla terra, s’è fatto uomo, lo si può chiamare per nome. Il nome dice la persona, la sua identità: Gesù è ciò che dice il suo nome: “Dio che salva”. Lo proclama l’apostolo Pietro in questo momento, subito dopo la resurrezione: «non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (Atti 4, 12).

Paolo nella Lettera ai Filippesi parla della Resurrezione di Gesù come della sua esaltazione da parte del Padre, espressa proprio dal dono del nome, «il nome che è al di sopra di ogni nome»: Gesù. Gesù, il Dio che salva, è la sua vera identità. Per questo «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (2, 9-10).

Nell’Oriente cristiano, fin dai primi secoli, è fiorita la tradizione della “preghiera del Nome”, la ripetizione costante del nome di Gesù. Anche in Occidente, a partire dal tardo Medioevo, si sviluppa la spiritualità del Nome di Gesù. San Bernardino sceglie le tre prime lettere greche del nome di Gesù, IHS, per disegnare le tavole con le quali parla di Gesù. L’ha messo su tutte le case.

Basta il suo nome: Gesù! Non è già una preghiera? Soltanto l’invocazione: Gesù!


venerdì 19 aprile 2024

P. Michel Coquelet, martire nel Laos

20 aprile del 1961. Due giorni dopo il martirio di p. Louis, ecco il martirio di p. Michel Coquelet, anche lui proclamato beato!

Era nato il 18 agosto 1931 nel nord della Francia. Nel 1945 entrò nel seminario minore di Solesmes e nel 1948 iniziò nel noviziato dei Missionari Oblati di Maria Immacolata. Ordinato sacerdote il 19 febbraio 1956, dopo il servizio militare ai confini del Sahara, il 25 febbraio 1957 ricevette il foglio di obbedienza per il Laos.

I quattro anni di vita missionaria di p. Michel nel Laos sono stati una dura prova. Per ammissione degli stessi superiori, il villaggio al quale fu assegnato era molto povero, composto da neofiti che non avevano potuto seguire le catechesi in modo regolare. Le sue riflessioni su questo argomento, annotate nel diario della missione, danno un’idea delle dimensioni delle sue sofferenze come missionario, ma anche del suo spirito di fede, colorato da un umorismo che era uno dei tratti accattivanti del suo carattere. Visse con la gente, semplicemente; facendosi tutto a tutti…

Il 20 aprile del 1961, mentre stava compiendo un viaggio a Ban Houay Nhèn, giunsero i soldati per arrestarlo, insieme al capo del villaggio cristiano e al suo segretario. Condotti sul sentiero verso Ban Sop Xieng furono uccisi sul bordo della strada.

Il 1° ottobre 1956 aveva scritto al Superiore generale:

Reverendo e amatissimo Padre,

“Alla fine degli studi, ogni Oblato si metterà a disposizione del Superiore generale”. Dopo aver letto e riletto su quest’articolo delle nostre Sante Regole prendo la penna per scrivervi non una “richiesta” di obbedienza secondo il mio estro, ma l’offerta di me stesso al servizio del Signore della Messe, nel campo che vorrete indicarmi.

Così, mi sarei limitato volentieri a ripetervi la vecchia formula: “Eccomi, manda me!”. Temo, però, che questa indifferenza possa sembrarvi una mancanza di entusiasmo per i diversi ministeri della Congregazione. D’altra parte, so anche che volete conoscere le aspirazioni messe dal Signore nel nostro cuore e, soprattutto, che inviate in Missione solo i volontari.

Allora vi dico semplicemente: sono volontario per la Missione, specialmente per quella del Laos! Nutro questo desiderio fin dal noviziato, dove mi ricordo di essere stato molto colpito da una conferenza di padre Morin, morto laggiù di tifo. Si sprigionava da questo padre un non so che di soprannaturale. Parlava, poi, della sua “povera missione”, proprio nella linea della Congregazione, con un tono tale che mi sono sentito pronto a seguirlo. Facile entusiasmo giovanile? Forse. Tuttavia, doveva esserci dell’altro, perché la cosa persiste dopo sette anni e questo pensiero mi ha aiutato nella mia vita di lavoro e di preghiera allo scolasticato.

Le affido questi pensieri con umiltà, felice di rimettermi alla vostra decisione, poiché sarebbe per me difficile – essendo ognuno cattivo giudice della sua causa – capire cosa viene dalla natura e cosa dalla Grazia. Ora chiedo al Signore nella preghiera la grazia di essere pronto ad accettare la vostra decisione, qualunque essa sia, conforme o no alle mie aspirazioni, per la sola ragione di obbedire al suo beneplacito.

giovedì 18 aprile 2024

P. Louis Leroy martire nel Laos

Oggi abbiamo ricordato l’anniversario del martirio di p. Louis Leroy (1923-1961). Primogenito di 4 figli, dopo la scuola elementare, lavorò in famiglia come contadino. Di ritorno dal servizio militare, all’età di 22 anni, si decise per gli Oblati di Maria Immacolata. Dopo un periodo di recupero scolastico a Pontmain, frequentò i sei anni di filosofia e teologia a Solignac.

Al termine scrisse al Superiore generale: “Prima di conoscere gli Oblati ero attratto dalle missioni in Asia. Per queste missioni volevo abbandonare il mio lavoro in campagna... Le difficoltà sperimentate dalla missione del Laos e quelle che forse sperimenterà ancora non hanno fatto che aumentare il mio desiderio per questo paese... Se giudicate opportuno inviarmi nel Laos, riceverò con grande gioia la mia obbedienza...”. Ad alcuni suoi compagni confidò la speranza di morire martire.

Fu missionario nel Laos per sei anni. Alla fine del 1957 raggiunse la sua destinazione definitiva a Ban Pha, sulle montagne. Infaticabile, visitava i villaggi a lui affidati a 2, 3 perfino 5 ore di cammino, con clima avverso e su piste impossibili. Così scrive: “[Il missionario] si rende presto conto che solo l’onnipotente grazia di Dio può convertire un’anima”. Nel giro di un anno percorrerà “almeno 3.000 chilometri a piedi con lo zaino sulle spalle. In alcuni giorni è dura, soprattutto quando la salute non è al massimo, ma sono felicissimo di dover lavorare in questo settore”.

Il 18 aprile 1961 padre Leroy stava pregando nella sua povera chiesa, quando sopraggiunse un distaccamento di soldati della guerriglia venuti a cercarlo. Secondo la gente del villaggio sapeva che si trattava della sua ultima partenza: chiese di poter indossare la sua veste, mise la croce, prese il breviario sotto il braccio e disse addio. Nella foresta alcuni colpi d’arma da fuoco: è la fine... Il sogno della sua gioventù, testimoniare Cristo fino al martirio, veniva esaudito.

Poco prima alle Carmelitane di Limoges aveva scritto:

[…] Avendo oggi un po’ di tempo libero a disposizione, cosa che non succede spesso, ne approfitto per darvi alcune notizie mie e del mio settore.

Probabilmente, a mezzo di radio e giornali, avete sentito parlare degli avvenimenti in corso nel Laos. In questo momento, per quanto riusciamo a capire, la situazione è piuttosto calma: nel mio villaggio sono passati una volta circa settecento soldati; non hanno detto nulla né a me né alla popolazione. Per il futuro non sappiamo nulla e continuiamo a fare come per il passato, riponendo fiducia nel Signore.

Il morale è ottimo. Sono felicissimo della mia vita missionaria, dura ma splendida. I miei desideri di un tempo, di vita missionaria nella boscaglia, sono pienamente esauditi. Dal punto di vista dell’apostolato ho molto lavoro da compiere. Nel corso dell’anno passato, ho dato più di 4.000 comunioni, ascoltato più di 2.000 confessioni e amministrato 19 battesimi. Questo numero sarà molto superiore l’anno prossimo. Attualmente, infatti, faccio catechismo a 70 catecumeni e la maggior potrà essere battezzata nel periodo di Pasqua del 1960.

Questo vuol dire che tutto è perfetto? Certamente no. Recentemente una cristiana apostata ha lasciato morire senza battesimo il bimbo di 10 mesi. Un altro cristiano apostata viene iniziato all’arte della stregoneria. Un altro ancora, battezzato l’anno scorso, non ha praticamente mai rimesso piede in chiesa da quando è cristiano. In uno dei villaggi, in cui i cristiani sono una minoranza fra i pagani, gli stregoni si danno da fare e riescono a turbare l’uno o l’altro cristiano, facendogli credere, se è ammalato, che solo il ritorno al culto dei geni lo farà guarire. Per fortuna, questi consigli perfidi non sono sempre ascoltati.

Ammalati e feriti esigono molto tempo e obbligano a lunghi e faticosi spostamenti. Fra i malati che curo, un cristiano si è ustionato il volto, le mani e un ginocchio. Per lui mi sono messo in cammino tre volte: per l’andata ci vogliono tre ore e mezza di cammino in montagna. Feriti e malati di questo genere non sono poi così rari. I numerosi pagani attorno a me, che incontro ogni giorno e che vengono per farsi curare, non si sono per nulla decisi a diventare cristiani.

Ecco un piccolo squarcio del mio settore, che una volta di più raccomando caldamente alle vostre preghiere. Pregate anche per me, perché il Signore possa compiere attraverso di me tutto il bene che desidera fare.

 

mercoledì 17 aprile 2024

Ci vuole un altro!

 


- Voglio capire come sono fatto. Voglio disegnare i miei contorni!
Ma… da solo è impossibile!

- Dai a me la matita!
Visto? Ci vuole un altro!

Gibì e DoppiaW di Walter Kostner nuovamente in dialogo…

Questa mattina la segretaria, invece dei documenti, mi ha portato un foglio con questa vignetta: un sottile richiamo a fare le cose insieme…

martedì 16 aprile 2024

Perché non sono come Mosè?

 

Ieri al Ghetto mi hanno raccontato di un uomo di nome Sussia che un giorno andò dal suo Maestro e gli rivolse la domanda: “Rebbe, perché non sono come Mosè nostro profeta?”. Il suo Maestro, con voce calma e tranquilla priva di qualsiasi severità, gli rispose: “Figlio mio, quando arriverà il tuo ultimo giorno il Signore Dio, Benedetto Egli sia, non ti chiederà perché non sei stato Mosè, ma perché non sei stato Sussia”.

lunedì 15 aprile 2024

A Tor de' Specchi con Francesca Romana

Oggi lezione a Tor de’ Specchi. Una mattinata d’incanto in uno dei luoghi più belli, più ricchi di storia e più segreti di Roma. Con la guida eccezionale di Alessandra Bartolomei Romagnoli, la più grande conoscitrice di Francesca Roma, di cui ha pubblicato le fonti.

Gli anni di santa Francesca Romana sono quelli dello scisma d’Occidente (1378-1449). Dopo che il papa ha fatto ritorno a Roma, ad Avignone si installa un antipapa e poco dopo ne sorge un terzo. In questa situazione lo Stato pontificio e in modo speciale la città di Roma, sono politicamente ed economicamente allo sbando. L’Urbe, per ben tre volte occupata da Ladislao di Durazzo, re di Napoli, è messa a ferro e fuoco, ridotta a un misero borgo con poche migliaia di abitanti. In quest’ambiente e in tale squarcio di storia si svolse la vita di Francesca Bussa.

Dodicenne, fu data in sposa a Lorenzo de’ Ponziani, la cui famiglia risiedevano in un palazzo di Trastevere. Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani. Con la cognata Vannozza inizia a soccorrere poveri e ammalati. Percorre le strade per chiedere l’elemosina per i poveri, per assistere gli ammalati, le puerpere…

Alla morte del suocero, Andreozzo Ponziani, pur continuando le visite private e domiciliari ai poveri, si prende cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, che egli aveva fondato nel 1391 utilizzando la chiesa di Santa Maria in Cappella, in disuso. Veniva chiamata “la poverella di Trastevere”.

Quando aveva 25 anni, nel 1409, il marito, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, è gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della vita. Lei lo accudisce assieme al figlio.

Nel 1410 la casa è saccheggiata e i beni espropriati, il marito è costretto a fuggire e il figlio Battista preso in ostaggio.

Prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche che la aiutavano nella carità quotidiana e che si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. Il 15 agosto 1425, festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, assieme a dieci compagne si costituiscono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”. Nel marzo del 1433 vanno ad abitare a Tor de’ Specchi, dove sorge un piccolo villaggio. Il papa concede loro di «abitare insieme in qualche casa in questa città che fosse adatta e con­veniente allo scopo, di mettere in comune tutti i beni, che Dio aveva dati loro, e con questi di vivere in comune e in carità sotto l’obbedienza di una di loro, che esse giudicassero adatta a questo compito e che eleggessero nel tempo opportuno».

Conducevano una vita austera, povera e casta, fatta di lavoro nei campi, di preghiera, di condivisione dell’altrui sofferenza. La differenza di questo tipo di vita rispetto al monachesimo femminile tradizionale era radicale, per la semplicità dell’organizzazione comunitaria, per la libertà di vincoli gerarchici di subordinazione, per l’assenza di formalismo: una comunità aperta. Non erano né monache né laiche. Nelle intenzioni di Francesca Tor de’ Specchi doveva rimanere un monastero aperto, in grado di mantenere un rapporto vivo con il mondo circostante.

L’esperienza delle Oblate di Tor de’ Specchi fu caratterizzata dalla forte personalità di Francesca e dal suo eccezionale carisma.

La vita solitaria, monastica, è la tentazione segreta che segna tutta la sua esistenza, ma alla quale sa di non dover cedere. Quando il demonio le si presenta davanti sotto le sembianze di sant’Onofrio in veste di pellegrino, invitandola a seguirlo nel deserto, gli risponde con durezza, dicendo che vuole vivere nel luogo che Dio le ha assegnato, perché non bisogna andare in giro alla ricerca di false consolazioni spirituali e anche restando nel mondo è possibile santificarsi: «Miserabile, vigliacco, credi di prendermi con questa tua falsa luce, vuoi portarmi con te nel deserto, pensando di ingannarmi. Ma io voglio restare nel luogo che piace al Signore, e non desidero altro se non quello che piace a lui. Allora, in nome di Gesù Cristo crocefisso, vattene, torna nell’abisso».

Si recava ogni giorno nel monastero, continuando ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato. Dopo la morte del marito, con il quale visse per 40 anni, si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.

Il popolo romano la considerò sempre una di loro chiamandola familiarmente “Franceschella” o “Ceccolella”.

Morì il 9 marzo 1440 nel palazzo Ponziani, dove si era recata per assistere il figlio Battista gravemente ammalato. La ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo.

domenica 14 aprile 2024

Il mio "io" è Dio

 


Mi capita sottomano una frase di Caterina da Genova. Troppo arditi questi mistici. Parla del proprio io in maniera esagerata. Non lo nega, come abitualmente si pensa, per contrappore ad esso Dio. Lo trasfigura piuttosto, lasciando che venga assunto in Dio, indiandolo: «Se pure accade che per il vivere del mondo, ho bisogno del mio “io”, che non fa altro che parlare, quando mi nomino ovvero da altri sono nominata, dentro di me dico: il mio “io” è Dio: non conosco altro che il mio Dio».

sabato 13 aprile 2024

Non siamo “un branco di pecore”

Non siamo “un branco di pecore”, dove i singoli sono anonimi e amorfi. Nel gregge del Signore ogni persona è unica, ha un inestimabile valore, costituisce il bene più prezioso che egli possiede, al punto che per ognuno egli è pronto a dare la vita, tanto gli siamo cari.

Il Pastore buono ha un rapporto personale con ognuno. Di ognuno di noi conosce la storia, i sogni segreti, le prove e i dolori, le gioie intime. Ci conosce come nessuno ci conosce. Più ancora, è pronto a farsi sbranare dal lupo rapace pur di salvarci. Il suo morire per noi non è un fatalismo, un tragico incidente; è il frutto di una libera scelta: nessuno gli toglie la vita con violenza, la dà da se stesso, perché ci ama veramente.

Instaura con noi quei rapporti di conoscenza e d’amore che vive in cielo con il Padre, dove la conoscenza, l’amore, la generazione sono reciproci.

Vuole coinvolgerci nello stesso gioco d’amore. Fa scattare così la medesima dinamica che lo muove verso di noi. È la nostra vocazione: conoscerlo a nostra volta, sapere i suoi sogni segreti, penetrare il suo mistero, possederlo come il dono più prezioso. Rivivere con lui il rapporto trinitario di reciprocità che egli vive con il Padre, fino a che si dilati e giunga a coinvolgere, ad una ad una, anche le altre pecore vicine e lontane, quelle nel recinto e quelle fuori dal recinto, così da diventare un solo gregge, una sola famiglia, che rispecchi l’unità che si vive in cielo.

 

venerdì 12 aprile 2024

Suor Clara

 

Quando arrivai a Vermicino, 50 anni fa, la trovai all’asilo, con i bambini. Una donna mite, umile, mai appariscente, in seconda fila. Eppure c’era! Sempre sorridente. Sempre positiva. 

In questi ultimi anni suor Clara è sparita completamente, in una casa per anziani infermi, nell’anonimato. Almeno esteriormente. E dentro? Chi entra nel mistero di una persona? 

Ha aperto uno spiraglio quando ha lasciato scritto che vedeva la sua vita espressa nelle parole di Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Oggi è stata sicuramente accolta dal suo Maestro, di cui è stata una buona discepola e da cui ha imparato molto.

Grazie anche a nome di tutti gli Oblati a cui per tanto tempo hai dato il suo aiuto prezioso e silenzioso.

giovedì 11 aprile 2024

Ancora sul Diario di Chiara Lubich


Una presentazione dopo l'altra...

https://www.youtube.com/watch?v=m9Gm4A_vn18

Il diario di Chiara Lubich è un po’ particolare – spiega ancora p. Ciardi – perché nasce non come diario personale, ma nasce proprio per coinvolgere tutti i membri del Movimento nei suoi viaggi. (…) . All’inizio parte subito con la descrizione di quello che avviene, quindi è un diario di una cronaca, ma presto, subito diventa un diario intimo. Perché quello che lei deve comunicare non sono soltanto semplicemente i fatti che lei sta vivendo, ma come li sta vivendo”.

I Diari ripercorrono sedici anni  e, per aiutare il lettore a meglio collocare e capire i testi della Lubich, p. Ciardi ha fatto una precisa scelta editoriale:  “Dopo aver fatto un’introduzione generale a tutto il Diario, anno per anno, propongo una introduzione a quell’anno, collocandola anche… contestualizzandolo nella vita della Chiesa, nella vita del mondo, in maniera che si possa cogliere quello che sta vivendo Chiara Lubich, però con l’orizzonte più ampio della vita dell’Opera, della Chiesa e dell’umanità”.

A chi vuole sapere come è meglio leggere questo libro e da dove iniziare, P. Fabio risponde così: “Allora la prima cosa che consiglierei è aprire a caso. E leggere una pagina.  Sicuramente sarà coinvolgente. E allora sarà un invito a leggerne un’altra e un’altra. Non importa leggerlo, diciamo, in maniera continuativa. Si può aprire a caso e leggere un giorno, un altro, un anno, un altro. E poi questo forse farà venire il desiderio di cogliere il filo. E allora ricominciare dall’inizio, piano piano e percorrere questo cammino, che è un cammino… Non è facile il cammino di Chiara. È un cammino travagliato. Ci sono dei momenti di prova, momenti di malattia. Sono dei momenti in cui non scrive il diario. E perché non lo scrive? Perché forse vive un momento di buio. Quindi anche ripercorrere cronologicamente tutto il percorso aiuta a capire questo mondo. Però per iniziare, forse si può aprire a caso e leggere qua e là. Poi verrà la voglia di una lettura continua e completa”.
“Il diario è suo, è personale, è la sua vita. – conclude il curatore – E questo lo si desume soprattutto dal colloquio costante che c’è nel Diario con Dio, con Gesù, con Maria, con i santi. (…) Ci fa vedere la sua anima, ci fa vedere quello che lei ha dentro. E questo ha in me una risonanza perché è come un invito a fare lo stesso viaggio, ad avere anch’io la stessa intimità; quindi, leggendo Chiara in fondo io mi rispecchio anche non in quello che sono, purtroppo, ma in quello che sento che dovrei essere”.

“Il diario è suo, è personale, è la sua vita. – conclude il curatore – E questo lo si desume soprattutto dal colloquio costante che c’è nel Diario con Dio, con Gesù, con Maria, con i santi. (…) Ci fa vedere la sua anima, ci fa vedere quello che lei ha dentro. E questo ha in me una risonanza perché è come un invito a fare lo stesso viaggio, ad avere anch’io la stessa intimità; quindi, leggendo Chiara in fondo io mi rispecchio anche non in quello che sono, purtroppo, ma in quello che sento che dovrei essere”. 




martedì 9 aprile 2024

La moltitudine e il singolo

Nella lettura degli Atti degli Apostoli di oggi mi ha colpito il contrasto tra la “moltitudine” dei cristiani e il racconto di Barnaba. Da una parte ci sono tanti che fanno comunione di bene, dall’altra c’è il racconto di un’esperienza singola, particolare, quella di Barnaba che vende il suo campo e mette in comune i soldi. La moltitudine presuppone sempre l’esperienza personale.

Lo stesso per il Vangelo di oggi. Dopo aver parlato nel tempio alle folle Gesù fa un colloquio personale con Nicodemo. È una costante: continua a parlare alle folle e poi singolarmente con la Samaritana, Zaccheo, Maria Maddalena…

Tutti e ognuno.

Domenica ho parlato a un bel gruppo di persone… poi ho avuto la ventura di colloqui personali. E' bello sentirsi dire: "Mi hai aiutato ad attizzare la fiamma!". Ci vuole l’uno e l’altro: amare tutti, amare ognuno. E ognuno è un unicum, è un mondo.

 

lunedì 8 aprile 2024

La mia vocazione

Si avvera un sogno che ho coltivato: portare gli studenti nei luoghi dove hanno vissuto i Fondatori a Roma. Vengono da tutto il mondo per studiare a Roma, ma se non conoscono Roma che sono venuti a fare, tanto valeva che andassero a Manila o a Kinshasa… Roma è uno scrigno di tesori nascosti che occorre imparare a scoprire, a conoscere, ad amare, è stata testimone di una santità diffusa e costante.

Il corso ha cui ho dato inizio si limita ad alcuni luoghi abitati dai Fondatori, ma potrebbe estendersi ad altri innumerevoli siti dove tanti altri santi che con la loro presenza hanno lasciato un’impronta indelebile. Spero che le sei mattinate in programma suscito interesse e il desiderio di proseguire nelle viste.

Oggi san Francesco a Ripa, con le memorie del santo di Assisi che è stato anche un santo romano. Ma, essendo partiti, come luogo d’incontro per tutto il gruppo, dall’Isola Tiberina, il breve percorso fino alla chiesa e al convento di san Francesco a Ripa ci ha preso un’ora e mezza: sono troppe le “distrazioni” sulle vie di una città come Roma, ad ogni angolo c’è qualcosa di memorabile, che ricorda san Benedetto, santa Francesca Romana, santa Cecilia, la confraternita di santa Maria dell’orto… Ma anche nella chiesa di san Francesco non mancalo le distrazioni, dalla beata Ludovica Bertoni immortalata dal Bernini, a De Chirico che ha voluto lì la sua tomba. E io mi ritrovo in vocazione: fare la guida turistico-culturale, che soddisfazione!

Ma finalmente ecco la cella nella quale ha vissuto Francesco nei suoi soggiorni romani… E di nuovo si mostra a noi nudo come Cristo in croce, libero da tutto per poterlo seguire, vivere come lui, essere trasformato in lui, diventare un altro Cristo. «Non voleva che alcuno lo superasse nella via di Cristo - scrive Giordano da Giano -, ma piuttosto precederli tutti» (Cronaca, 10). La primitiva Regola che darà ai suoi frati sarà semplicemente seguire «la vita del vangelo di Gesù Cristo» (Regola non bollata, Titolo).

Francesco è incantato dalla persona di Gesù, nella sua concreta umanità: lo vuole rivedere Bambino a Greccio, nel presepe, e lo vuole rivivere Crocifisso sulla roccia della Verna, quando riceve le stigmate. Tutta la sua aspirazione è poter ripercorrere alla lettera le orme di Cristo, vivendo il Vangelo.

Fatto dal Vangelo un altro Gesù, figlio nel Figlio, scopre il Padre celeste. Riconoscendo Cristo incarnato come fratello e accogliendo la paternità di Dio, scopre presto la fratellanza universale. In ogni uomo vede un fratello, in ogni donna una sorella. Anzi tutte le creature, perché uscite dalla mano del Padre, ai suoi occhi appaiono come sorelle: «frate vento, frate foco, sorella acqua...». La povertà, così caratteristica nell’esperienza francescana, è lo strumento concreto per riordinare i rapporti tra tutti nell’ottica della fraternità e non più del dominio, così da sottolineare la gratuità dei rapporti. Chiamerà i suoi compagni “Frati minori”, per additarli come i fratelli più piccoli della grande famiglia che ha Dio come Padre.

Come non seguirlo? La prima che lo seguì qui a Roma fu Jacopa de’ Settesoli. Lo guidava per le vie della città, come se fosse un figlio, appena maggiore dei suoi, divenendo la più valida collaboratrice del neonato movimento francescano nella città di Roma. Fu lei ad ottenere dai Benedettini di S. Cosimato in Trastevere la cessione dell’ospedale di San Biagio, che divenne il primo luogo romano dei Minori. Mentre Francesco chiamava Chiara con il nome di sorella, chiamava Jacopa con il nome di fratello: Frate Jacopa. Ella gli dimostrò grande dedizione e rimase sua carissima amica per tutta la vita, fino ad assergli accanto in punto di morte, fino ad essere sepolta accanto alla sua tomba.

domenica 7 aprile 2024

Annunciazione: un duplice sì

 

Quest’anno il 25 marzo… lo festeggiamo l’8 aprile! Ma è sempre l’occasione per restare un po’ in contemplazione del mistero dell’Incarnazione, del duplice sì.

Il sì di Gesù che, in risposta alla volontà del Padre di mandarlo nel mondo per salvarlo, dice con prontezza: “Eccomi, io vengo per compiere la tua volontà”.

Gli fa eco il sì di Maria, in risposta alla richiesta di accogliere il Verbo che vuole nascere in lei: “Eccomi, si compia in me la tua parola”.

L'ultima parola di Gesù, sulla croce, mostra che il progetto che il Padre aveva su di lui “è compiuto”: il suo sì iniziale è giunto a compimento.

Anche l’ultima parola di Maria tradisce la sua esperienza di adesione piena alla volontà di Dio, il suo sì: invita i servi a fare come lei, ad obbedire a quello che Gesù dirà, a dire il nostro sì.

L’incarnazione è il frutto di questi due sì che si intrecciano.

È l’inizio del mondo nuovo, come avevano ben capito i nostri antichi che facevano iniziare l’anno il 25 marzo (in Toscana fino all’unità d’Italia!)

sabato 6 aprile 2024

I segni dell'amore

Gesù «disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; prendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo; ma credente!». Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”» (Gv 20, 27-28). È la più alta professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: una fede partecipata, personale, appassionata: «Sei il “mio” Signore, il “mio” Dio».

Egli è “mio” perché io sono suo, mi ha acquistato a caro prezzo, testimoniato dal segno dei chiodi e della lancia che non ha voluto cancellare perché sempre, per tutta l’eternità, vi leggessimo il suo amore infinito.

La risurrezione ha liberato Gesù dai limiti angusti del tempo e dello spazio, ma ha lasciato le cicatrici. Non nasconde con vergogna le sue piaghe. Le mostra come il segno del suo amore, l’amore più grande, che ha saputo dare la vita per gli amici.

Tommaso non vuole vedere il Risorto, chiede di vedere il segno dei chiodi, il segno della lancia, il segno del suo immenso amore per lui. Soltanto alla vista delle piaghe egli crede. Se Dio è Amore Gesù ha un solo modo per mostrarsi Dio: mostrare un amore da Dio! Le piaghe lo rivelano.

In cosa credette Tommaso? Nell'amore infinito di Gesù; un amore più grande della morte, che la risurrezione ha reso vivo, presente, e operante in mezzo a noi. In questo noi crediamo.