Più di 100 gli Oblati, soprattutto francesi e italiani, che sono stati missionari nel Laos tra il 1935 e il 1975, anno in cui presero il potere i comunisti del Pathet Lao. Come non ricordare i nostri 7 beati martiri? Di tutti rimase il solo Oblato allora nativo del Paese: Jean Khamsé Vithavong. “Noi stessi abbiamo chiesto ai sacerdoti stranieri di lasciare il Paese - ha raccontato. Anzitutto perché in ogni caso i nuovi governanti lo avrebbero ordinato. E poi perché in questo modo si evitava una escalation della tensione e possibili scontri e violenze. Tutti i sacerdoti stranieri hanno lasciato il Paese, con molte lacrime, ma anche con molta saggezza. Vi erano italiani, francesi, canadesi, americani”.
Jean Khamsé è partito per il cielo l’8 dicembre di quest’anno. Aveva il passaporto
in regola! “Oblati di Maria Immacolata – diceva sant’Eugenio –: è un passaporto
per il Cielo!”. Proprio in quel giorno, l'8 dicembre 1980, scriveva al Superiore
generale: “Questa mattina, rinnovando la mia oblazione davanti all’altare
del santo sacrificio, ‘sento’ il valore grande dei nostri doni alla
Madre Chiesa attraverso la congregazione”.
Sempre lo stesso giorno, l’anno seguente, 1981: “È con gioia
semplice e profonda che questa mattina ho celebrato la festa dell’Immacolata
Concezione della nostra amatissima Signora e Patrona… Ne approfitto per
rinnovare la mia appartenenza al Signore, attraverso Maria e la nostra
Famiglia, davanti alla comunità parrocchiale di Nostra Signora di Lourdes,
l’Immacolata… Quando, solo davanti al Santissimo Sacramento e alla statua di
Nostra Signora, ho consacrato la nostra congregazione all’Immacolata, allora ho
pensato in particolare a lei, superiore generale, agli Oblati nel mondo, ai più
lontani, ai più esclusi, a quelli che soffrono maggiormente…. Maria, la Madre
Immacolata, che ha fatto tanto per la nostra congregazione e per me, suo povero
figlio. Non vorrei lasciar passare occasione senza renderle omaggio. Lei che ha
saputo custodire tutto nel caldo del suo cuore e della sua fede. Lei che ha saputo
vivere intensamente ogni momento presente donandolo a Dio. Lei che il nostro
amatissimo fondatore ha scelto come ‘Madre tenera’ della sua congregazione di
missionari dei poveri. Lei sola la mia Stella e la mia Gioia”.
Jean Khamsé era nato a Kengsadok il 18 ottobre 1942. Dopo aver fatto il
noviziato in Francia, dove è stato dal 1963 al 1965, torna nel Laos. Dal 1970
al 1974 è nelle Filippine per lo studio della teologia. Pochi mesi dopo quella
che viene chiamata “la liberazione” del Paese, nel 1975 viene ordinato
sacerdote.
Da allora, la carenza di preti e di personale specializzato è divenuta
una caratteristica costante della piccola Chiesa del Laos. “La nostra
povertà – raccontava - è anche economica, dovuta alla mancanza di strutture e
alla mancanza di fondi per costruirne di nuove. Nel 1975 le nostre chiese sono
state prese dal governo, compresa la cattedrale di Vientiane. È la più grande
delle chiese del Paese ed è dedicata al Sacro Cuore. Grazie a Dio, dal 1979 il
governo ce l’ha lasciata a disposizione e possiamo almeno utilizzarla. Ma non
abbiamo bisogno di cose molto grandi, vistose, imponenti… Anche il Signore è
nato in una stalla”.
L’ultima volta che lo abbiamo visto è stato a gennaio 2017, quando
venne a Roma in visita ad limina con i vescovi del Laos e della Cambogia. “La
Chiesa del Laos – disse in quella occasione – è una Chiesa agli inizi,
molto povera e senza personale straniero. È una Chiesa giovane: avrà 150 anni
di vita. Ad essere ottimisti, in tutti e quattro i vicariati apostolici
(Luang Prabang, Vientiane, Savannaketh, Pakhsé) ci sono circa 50mila cattolici
dispersi in un grande territorio e con diversi gruppi etnici, con lingue e
culture differenti. Noi stessi non siamo molto capaci di amministrare e di aiutarli:
non abbiamo abbastanza preti e catechisti. I nostri cattolici, soprattutto i
più giovani, sono stati battezzati da piccoli, e non hanno potuto ricevere una
formazione completa, adeguata e forte. In realtà la Chiesa cammina. E anche
l’evangelizzazione cammina. Tra i Khmu c’è un gran numero di persone che
desidera diventare cristiano: saranno almeno qualche centinaio e sono molto
coraggiosi. Si tratta di un gruppo animista, non buddista. Il governo da parte
sua chiude un occhio perché vede che non siamo un pericolo. A breve occorrerà
aprire un altro campo, fra i Hmong, un altro gruppo etnico”.
Al termine di quella
udienza ad limina Mons. Khamsé disse: “Papa
Francesco ci vuole bene. E ci ha detto: Anch’io sono un vescovo povero e vado
dove ci sono i poveri. Questo ci ha confortato”.
Da parte sua papa Francesco, soprattutto dopo aver ascoltato le
testimonianze Tito Banchong e Louis-Marie Ling, confidò ai suoi collaboratori
di aver provato vergogna: «Loro erano il centro, io la periferia. Questi vescovi hanno sofferto continuando a testimoniare la loro
fede con gioia, in piccole comunità. Alla fine dell’udienza mi sono sentito...
vergognato».
Pur nella sua
solitudine, il senso di appartenenza di Mons. Khamsé alla Congregazione è
sempre rimasto fortissimo. Il 21
aprile 1978, in risposta a una lettera del Superiore generale, p. Marcello
Zago, scriveva: “Anche se in Laos sono rimasti solo due
Oblati, la vita da Oblato mi è ancora di grande sostegno. Tutta la mia
formazione passata, sia in Francia che nelle Filippine, mi ha preparato ad
affrontare la vita e le sue esigenze attuali. Si tratta di restare davvero
poveri e disponibili, osare e pregare. Tutto questo me lo ha instillato la
formazione oblata, anche se non era perfetta. Attraverso di lei, quindi, vorrei
dire grazie a tutti i miei maestri, professori e superiori, direttori e
confratelli della Famiglia Oblata, che mi hanno aiutato a trovare la gioia e il
dinamismo del servizio del Signore tra gli uomini. Il Signore ci dia la forza
sufficiente per fare ciò che Egli vuole e per restare saldi, sicuri delle sue
parole, come “Pace” o “Non abbiate paura”, che ci ha ripetuto dopo la
Risurrezione. Siamo sicuri che Egli non ci delude mai”.
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