sabato 31 marzo 2018

Il cenacolo: Gli incontri col Risorto / 1




Terminata la cena, Gesù con i suoi lascia il cenacolo, percorre la scala romana che scende fino alla valle del Cadron e risale il monte degli ulivi per recarsi nel luogo dove si ritirava di consueto durante il soggiorno nella città santa. In pochi ore si consuma la tragedia. I Dodici si disperdono come il Maestro aveva annunciato. Soltanto le donne, fedeli, lo seguono fino all’ultimo. Anche il mattino dopo il sabato sono loro che si recano alla tomba per compiere l’ultimo gesto pietoso di lavare e ungere il corpo di Gesù.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo – grida l’angelo. Gesù, il Crocifisso, è risorto, come aveva detto” (cf. Mt 28, 5-7). Gesù stesso appare loro e le invia a quelli che ora chiama “fratelli” (cf. Mt 28, 10).
Dov’erano intanto gli Undici? «Erano in lutto e in pianto» (Mc 16, 10), delusi perché non si aspettavano una fine così ingloriosa del Maestro, e pieni di timore che le autorità si rivoltassero anche contro di loro. Avevano abbandonato il Signore, lo avevano tradito, rinnegato, uno di loro si era impiccato.
Gli avvenimenti di quel primo giorno dopo il sabato si susseguono in maniera convulsa. Ognuno degli evangelisti li racconta da una prospettiva diversa. È impossibile ricostruirli in maniera logica e conseguente. Sappiamo che i discepoli non credono alle donne e che la tomba vuota rimane per loro un fatto enigmatico. A sera i due discepoli che avevano raggiunto Emmaus e ai quali il Signore si era manifestato, corrono indietro fino a Gerusalemme «dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro» (Lc 24, 33). Infine «la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù» (Gv 20, 19).
Dove si trovavano gli Undici mentre avvenivano questi fatti? Forse erano tornati nella stanza superiore, di nuovo in quel luogo nel quale, appena due giorni prima, avevano vissuto il momento più alto con il Signore. Il cenacolo diventa il luogo del Risorto e della sua nuova comunità.

venerdì 30 marzo 2018

Il cenacolo: Il comandamento nuovo / 3



Roma, visita alle Sette chiese
«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). È il distintivo, il segno di riconoscimento, la caratteristica tipica dei cristiani, perché così Gesù ha pensato la sua comunità. È il segno distintivo dei cristiani, perché così Gesù ha pensato la sua comunità. Ciò che caratterizza i suoi discepoli non è la preghiera, il servizio ai poveri, l’ascesi, aspetti fondamentali della loro vita che condividono con i seguaci di ogni religione. È la reciprocità dell’amore che, come appare fin dagli inizi, quando la comunità nascente di Gerusalemme era ammirata per la comunione dei beni che ci si viveva loro, per l’unità che vi regnava, per la «letizia e semplicità di cuore» che la caratterizzava (cf. Atti 2,46). «Il popolo li esaltava», leggiamo sempre negli Atti degli Apostoli (cf. 4, 33), con la conseguenza che ogni giorno «andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore» (5,13-14). La testimonianza di vita della comunità aveva una forte capacità attrattiva.

Un affascinante scritto dei primi secoli del cristianesimo, la Lettera a Diogneto, prende atto che «i cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere». Sono persone normali, come tutte le altre. Eppure possiedono un segreto che consente loro di incidere profondamente nella società, diventandone come l’anima (cf. cap. 5-6).
  
I discepoli di Gesù sono riconosciuti per il loro reciproco amore? «La storia della Chiesa è una storia di santità» ha scritto Giovanni Paolo II. Essa tuttavia «registra anche non poche vicende che costituiscono una contro-testimonianza nei confronti del cristianesimo» (Incarnationis Mysterium, 11). In nome di Gesù per secoli i cristiani si sono combattuti in guerre interminabili e continuano ad essere divisi tra di loro. Ci sono persone che ancora oggi associano i cristiani con le Crociate, con i tribunali dell’Inquisizione, oppure li vedono i difensori ad oltranza di una morale antiquata, che si oppongono al progresso della scienza.
La testimonianza che Gesù richiede è quella di una comunità che mostri la verità del Vangelo. Essa deve far vedere che la vita da lui portata può realmente generare una società nuova, nella quale si vivono rapporti di autentica fraternità, di aiuto e servizio vicendevole, di attenzione corale alle persone più fragili e bisognose.

Senza estraniarci dai luoghi che abitiamo e dalle persone che frequentiamo, se viviamo tra noi quell’unità per la quale Gesù ha dato la vita, potremo creare un modo di vivere alternativo e seminare attorno a noi germi di speranza e di vita nuova. Una famiglia che rinnova ogni giorno la volontà di vivere con concretezza nell’amore reciproco può diventare un raggio di luce nell’indifferenza reciproca del condominio o del vicinato. Una “cellula d’ambiente”, ossia due o più persone che si accordano per attuare con radicalità le esigenze del Vangelo nel proprio campo di lavoro, nella scuola, nella sede del sindacato, negli uffici amministrativi, in un carcere, potrà spezzare la logica della lotta per il potere e creare un clima di collaborazione e favorire il nascere di una insperata fraternità.
Non facevano così i primi cristiani al tempo dell’impero romano? Non è in questo modo che hanno diffuso la novità trasformante del cristianesimo? Siamo noi oggi “i primi cristiani”, chiamati, come loro, a perdonarci, a vederci sempre nuovi, ad aiutarci; in una parola, ad amarci con l’intensità con cui Gesù ha amato, nella certezza che la sua presenza in mezzo a noi ha la forza di coinvolgere anche altri nella logica divina dell’amore.


giovedì 29 marzo 2018

Il cenacolo: Il comandamento nuovo / 2



Giovedì santo 2018: Messa crismale in san Pietro
Comandando di amarci, Gesù nel suo testamento ci ha posto davanti il modello dei rapporti: «amatevi… come (kathos) io ho amato voi». Ha appena dato l’esempio mostrando come si attualizza in concreto l’amore: ha lavato i piedi ai discepoli, invitandoli a lavarsi i piedi gli uni gli altri (cf. Gv 13, 14). Dobbiamo amarci nel modo con cui Cristo ci amato, fino a dare la vita per gli amici, fino al segno estremo della morte e della morte di croce (cf Gv 13,1).
Quel come è anche causale, significa “perché”: possiamo amarci sull’esempio di Gesù perché egli ci ha amato per primo e ha riversato su di noi il suo amore. Come altrimenti amare col suo amore se il suo amore non è in noi, se egli stesso non viene ad amare in noi? Soltanto allora possiamo amarci “come” lui ha amato noi.
Il come del comandamento nuovo rimanda ad un altro come: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi; restate nel mio amore» (Gv 15, 9). Gesù ci ha amati con lo stesso amore col quale è amato dal Padre e lo riama, con lo stesso amore che circola tra il Padre e Lui, rendendoci in tal modo capaci di un’analoga relazione d’amore tra noi.


In quell’ultima cena, assieme al comandamento nuovo Gesù ci dona anche l’Eucaristia, che ci trasforma in lui. Essa rende possibile l’attuazione piena dell’amore reciproco.
«Se infatti la vita cristiana si esprime nell’adempimento del più grande comandamento – scrive Giovanni Paolo II –, e cioè dell’amore di Dio e del prossimo, questo amore trova la sua sorgente proprio nel Santissimo Sacramento, che comunemente è chiamato sacramento dell’amore (...). L’Eucaristia significa questa carità, e perciò la ricorda, la rende presente e insieme la realizza (...). Non soltanto conosciamo l’amore, ma noi stessi cominciamo ad amare. Entriamo nella via dell’amore e su di essa compiamo progressi. (...) L’autentico senso dell’Eucaristia diventa di per sé scuola di amore attivo verso il prossimo» (Dominicae Cenae, 5-6).


Un altro documento ecclesiale, Congregavit nos in unum, sulla vita fraterna, sottolinea ulteriormente il rapporto tra Eucaristia e amore reciproco: «Durante l’ultima cena, ha affidato loro il comandamento nuovo dell’amore reciproco: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, cosi amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34; cf 15, 12); ha istituito l’Eucaristia che, facendoci comunicare all’unico pane e all’unico calice, alimenta l’amore reciproco. Si è quindi rivolto al Padre chiedendo, come sintesi dei suoi desideri, l’unità di tutti modellata sull’unità trinitaria: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17, 21)» (n. 9).


mercoledì 28 marzo 2018

Il cenacolo: Il comandamento dell'amore / 1



Nel mezzo della cena Gesù annuncia che è giunto il tempo di partire e di tornare al Padre. Ha atteso l’ultimo momento per rivelare il segreto più intimo. Prima di essere consegnato nelle mani di coloro che lo metteranno a morte, vuole lasciare il suo testamento. È l’ultima raccomandazione che rivolge a quanti ama. È un segreto che Gesù ha consegnato ai suoi discepoli poco prima di morire. Come gli antichi saggi d’Israele, come un padre nei confronti del figlio, anche lui, Maestro di sapienza, ha lasciato come eredità l’arte del saper vivere e del vivere bene. L’aveva appresa direttamente dal Padre: «tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15), ed era il frutto della sua esperienza nel rapporto con Lui. Sta per affidare loro ciò che più gli sta a cuore.
Cosa lascerà ai suoi? In poche parole raccoglie il suo insegnamento e lo sintetizza in un solo verbo: amatevi l’un l’altro.
La ferma volontà e la consapevolezza di trasmettere un testamento vincolante per i discepoli appare evidente dall’insistenza con cui, per ben quattro volte nel Vangelo di Giovanni, chiede di amare (cf. 13, 34; 13, 35; 15, 12; 15, 17). L’evangelista ne rimase folgorato, al punto che nella sua prima e seconda lettera lo riprende per sei volte (cf. 1 Gv 3, 11; 3, 23; 4; 12; 1,5). Il primo scritto del Nuovo Testamento testimonia come l’insegnamento di Gesù sia stato immediatamente accolto e sia diventato patrimonio della comunità cristiana. Paolo non aveva bisogno di scrivere qualcosa di suo, al riguardo, perché, come scrive nella sua prima lettera, «voi stessi avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri» (1 Tes 4, 9; 3, 12; 2 Tes 1, 3).


Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).
Dove sta la novità nel comandare l’amore?

Gesù lo chiama “suo”, il “mio comandamento”, perché è il principio di vita che lo anima: relazione con il Padre che lo ama e verso il quale egli è rivolto in atteggiamento di obbedienza e d’amore. È questa la realtà di Dio, la reciprocità dell’amore. La pienezza dell’amore è reciprocità del dare e del ricevere, è rapporto d’amore.

Il comando “amatevi”, rivolto ai discepoli, è invito a rivivere tra loro la relazione che si vive nella santissima Trinità: come in cielo così in terra. Gesù è venuto per portare in terra la vita del Cielo.
Il prossimo non è più soltanto una persona da servire, da amare, ma da coinvolgere nella reciprocità dell’amore, perché solo in questa reciprocità si può vivere l’amore tipico di Dio: l’amore trinitario. Il prossimo non è più raggiunto al termine dell’itinerario spirituale, come conseguenza dell’unione con Dio, ma cercato fin dall’inizio per poter andare insieme verso Dio. L’altro è la possibilità concreta e la necessità insopprimibile per vivere il comandamento dell’amore reciproco, è la possibilità di attingere alla presenza di Cristo tra noi, la condizione per raggiungere Dio, per vivere in pienezza la sua vita agapica: «Se ci amiamo gli uni gli altri – scrive l’Apostolo Giovanni –, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4, 12).
Non si tratta di un suggerimento, di una semplice proposta, è proprio un comando: «Questo vi comando». Gesù lo esige perché, tra l’altro, è l’unica via per la piena realizzazione di noi stessi. Soltanto nel dono di sé e nella reciprocità del dono ognuno può diventare veramente se stesso, perché siamo fatti a immagine di un Dio che è comunione di Persone. Lo comanda perché sa che soltanto così la nostra gioia sarà piena. Ed è que­sto che egli vuole per noi, che la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena.


martedì 27 marzo 2018

Giovedì santo 2018: “Visita delle sette chiese”


 

Anche quest’anno farò la tradizionale visita alle sette chiese, per venerare il Santissimo Sacramento.
L’itinerario ha inizio a santa Maria Maggiore e terminerà a santa Croce in Gerusalemme. Il tema sarà naturalmente quello che sto seguendo questo periodo: il cenacolo.
Partenza ore 20.00, alla statua dell’Immacolata davanti a santa Maria Maggiore; termine ore 22.00 a santa Croce in Gerusalemme.
Tutti invitati!

Introduzione:
Quanto amore, quanto bene è scaturito dal Cenacolo! Quanta carità è uscita da qui, come un fiume dalla fonte, che all’inizio è un ruscello e poi si allarga e diventa grande… Tutti i santi hanno attinto da qui; il grande fiume della santità della Chiesa sempre prende origine da qui, sempre di nuovo, dal Cuore di Cristo, dall’Eucaristia, dal suo Santo Spirito (papa Francesco).

 

1. Basilica di Santa Maria Maggiore
L’amore estremo

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1).
Il desiderio profondo che lo anima è svelato: attuare, fino alle ultime conseguenze, l’amore che egli da sempre ha per i suoi.

Ha amato “fino alla fine”: fino all’ultimo istante della vita. L’amore non è la passione di un giorno. Senza durata l’amore non è amore. Una causa, se vera, la si sposa per sempre. Non si cambia bandiera. Una volta messo mano all’aratro Gesù non si è più voltato indietro, non ha abbandonato l’impresa, anche quando è apparsa estremamente dura, impossibile. Non è mai venuto meno. Ha amato fino all’ultimo respiro sulla croce. Alla fine può davvero dire: «È compiuto» (Gv 19, 30): ha portato a termine l’opera che il Padre gli aveva affidato (cf. Gv 17, 4).

Ha amato “fino alla fine”: intensità, totalità. L’amore non è solo perseverante, ma cresce fino al dono estremo di sé. Davvero «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). Gesù l’ha data! La parola «È compiuto» acquista allora un significato ancora più profondo, ha il senso della pienezza, della misura pigiata, scossa e traboccante (cf. Lc 6, 38): ha dato tutto, la sua stessa vita. Come poteva amare di più?

Gesù ci ha amato. Gesù ci ama. Senza limiti, sempre, sino alla fine. L’amore di Gesù per noi non ha limiti: sempre di più, sempre di più. Non si stanca di amare. Nessuno. Ama tutti noi, al punto da dare la vita per noi. Sì, dare la vita per noi; sì, dare la vita per tutti noi, dare la vita per ognuno di noi. E ognuno di noi può dire: “Ha dato la vita per me”. Ognuno. Ha dato la vita per te, per te, per te, per me, per lui… per ognuno, con nome e cognome. Il suo amore è così: personale. L’amore di Gesù non delude mai, perché Lui non si stanca di amare, come non si stanca di perdonare, non si stanca di abbracciarci. (…) Gesù ci ha amato, ognuno di noi, sino alla fine (Papa Francesco).

 

2. Basilica di Santa Prassede
La lavanda dei piedi


La chiesa prende il nome dalla S. Prassede, sorella di S. Pudenziana (la cui chiesa è qui vicina) e figlia del senatore romano Pudente, discepolo di S. Paolo. Un’antica leggenda narra che Prassede e Pudenziana sarebbero state uccise perché davano sepoltura ai martiri delle persecuzioni di Antonino Pio nei pozzi situati nel vasto terreno di proprietà del padre. La chiesa è fondata nel IX secolo. Il pavimento ricopre il pozzo nel quale la santa raccolse i resti ed il sangue di diverse migliaia di martiri. La Cappella di S. Zenone, uno dei più importanti monumenti bizantini in Roma, fu eretta da Pasquale I come mausoleo della madre Teodora. È chiamata "il Giardino del Paradiso". In una nicchia a destra dell'ingresso è custodita una colonna portata a Roma da Gerusalemme dal cardinale Giovanni Colonna nel 1223: la tradizione vuole che sia un frammento della colonna alla quale fu legato Gesù per essere flagellato.

Durante la cena… Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto dal Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto (Gv 13, 2-5).

Questo è commovente. Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli. (…) Lavare i piedi è: “io sono al tuo servizio”. E anche noi, fra noi, non è che dobbiamo lavare i piedi tutti i giorni l’uno all’altro, ma che cosa significa questo? Che dobbiamo aiutarci, l’un l’altro. A volte mi sono arrabbiato con uno, con un’altra … ma… lascia perdere, lascia perdere, e se ti chiede un favore, fatelo. Aiutarci l’un l’altro: questo Gesù ci insegna e questo è quello che io faccio, e lo faccio di cuore, perché è mio dovere. Come prete e come vescovo devo essere al vostro servizio. Ma è un dovere che mi viene dal cuore: lo amo. Amo questo e amo farlo perché il Signore così mi ha insegnato. Ma anche voi, aiutateci: aiutateci sempre. L’un l’altro. E così, aiutandoci, ci faremo del bene. Adesso faremo questa cerimonia di lavarci i piedi e pensiamo, ciascuno di noi pensi: “Io davvero sono disposta, sono disposto a servire, ad aiutare l’altro?”. Pensiamo questo, soltanto. E pensiamo che questo segno è una carezza di Gesù, che fa Gesù, perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per aiutarci (Papa Francesco).

 

3. Santuario della Madonna del Perpetuo Soccorso
Il tradimento e lo scandalo

«Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo…» (Gv 13, 2).
Il momento di luce del cenacolo d’improvviso s’adombra e cadono le tenebre, la gioia e la festa si tramutano in tristezza. Giovanni ha appena iniziato il racconto dell’ultima cena dicendo che Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine, e subito, accanto a Gesù appare l’avversario, Satana e viene perpetrato il tradimento.
Anche Pietro, il primo tra gli apostoli, la roccia, sta per crollare. Lo scandalo si allarga a macchia d’olio, non soltanto Giuda, non soltanto Pietro, tutti gli apostoli si disperderanno lasciando solo il Maestro.
«Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore» (Primo Mazzolari).

Come Dio ci accoglie, così dobbiamo accogliere gli altri.
Gesù ha tenuto Giuda tra i suoi fino all’ultimo. Avrebbe potuto cacciarlo quando era ancora in tempo, ma non ha voluto estirpare la zizzania prima della fine, ha lasciato che crescesse con il grano buono.
La Chiesa è sancta communio peccatorum. È santa perché è il corpo di Cristo, il Santo di Dio, ma è una comunità di peccatori. La tentazione, fin dai primi secoli, è stata di voler creare una comunità di eletti, di puri, da opporre a una comunità di peccatori.
È quello a cui siamo tentati anche nelle nostre comunità. Le vorremmo perfette, senza scandali, vorremo espellere chi sbaglia. Se Gesù avesse cacciato Giuda, e poi Pietro e poi gli altri… chi sarebbe rimasto?
Siamo chiamati ad accettare i limiti dell’altro, della Chiesa, la povertà delle nostre comunità, con una misericordia che tutto spera, tutto crede, tutto sopporta.

 

4. Chiesa dei santi Marcellino e Pietro
Il pane spezzato e il vino versato

La prima chiesa ad Duas Lauros fu costruita sotto papa Silvestro I (314-35). Nei sotterranei le catacombe. Subì numerose modifiche e rifacimenti, come l'annessione di un ospedale per pellegrini.

Preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22, 19-20).
Quel gesto dello spezzare il pane rimase indelebile nella mente dei discepoli. I due di Emmaus riconobbero Gesù allo spezzare del pane; la prima comunità cristiana era perseverante «nello spezzare il pane» (Atti 2, 42), «spezzavano il pane nelle case» (Atti 2, 46).
È un gesto che indica condivisione, comunione di mensa, fraternità. È il gesto del capofamiglia, generante la fraternità.
Ma è anche l’anticipazione dello squarciamento del corpo di Cristo sulla croce, del cuore trafitto. Il pane è spezzato per essere donato, sminuzzato perché Dio sia accessibile all’uomo. Gesù spezza l’unico pane in modo che il suo corpo possa essere dato ad ognuno.
Come il pane è stato spezzato, il vino viene versato.
È il compimento dell’offerta che fa di sé il pastore delle pecore: «Il buon pastore offre la vita per le pecore… Io sono il buon pastore… e offro la vita per le pecore… io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 10. 14-18).
Siamo chiamati anche noi a diventare per gli altri pane donato. Chi si siede alla mensa eucaristica deve poter dire, a quanti poi incontra, io sono “per voi”.
Etty Hillesum, all’ultima pagina del suo diario, ormai alla soglia della morte nel campo di concentramento, annota: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati e da tanto tempo»

 

5. Basilica di sant’Antonio da Padova
Il comandamento nuovo

La chiesa fu costruita, insieme all'annesso convento, per l'Ordine dei Frati Minori, sull'area precedentemente occupata dalla Villa Giustiniani Massimo, a seguito dell'espulsione dei frati dalla loro storica sede dell'Araceli per consentire la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II.

Prima di essere consegnato nelle mani di coloro che lo metteranno a morte, vuole lasciare il suo testamento. In poche parole raccoglie il suo insegnamento e lo sintetizza in un solo verbo: amatevi.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).
Comandando di amarci, Gesù ci pone davanti il modello dei rapporti: «amatevi… come (kathos) io ho amato voi». Ha appena dato l’esempio mostrando come si attualizza in concreto l’amore: ha lavato i piedi ai discepoli, invitandoli a lavarsi i piedi gli uni gli altri (cf. Gv 13, 14). Dobbiamo amarci nel modo con cui Cristo ci amato, fino a dare la vita per gli amici, fino al segno estremo della morte e della morte di croce (cf Gv 13,1).
Quel come è anche causale, significa “perché”: possiamo amarci sull’esempio di Gesù perché egli ci ha amato per primo e ha riversato su di noi il suo amore. Come altrimenti amare col suo amore se il suo amore non è in noi, se egli stesso non viene ad amare in noi? Per questo L’Eucaristia. Soltanto allora possiamo amarci “come” lui ha amato noi.
«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). È il distintivo, il segno di riconoscimento, la caratteristica tipica dei cristiani

 

6. Basilica di San Giovanni in Laterano
La preghiera per l’unità

Alzati gli occhi al cielo, Gesù si è rivolto al Padre con l’ultima grande preghiera: «Padre…» (Gv 17).

Gesù parla apertamente al Padre, davanti ai suoi, rivolgendosi a lui come ha sempre fatto nella sua preghiera, chiamandolo “Abbà”. Mai come adesso il rapporto tra i due appare così intimo, naturale, profondo.
E cosa chiede? L’unità!
La richiesta dell’unità - Padre, che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17, 21) -, è il punto d’arrivo dell’intera preghiera sacerdotale. Appare fin dalla prima intercessione: «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (v. 11), ripresa ulteriormente: «siano una sola cosa come noi siamo una cosa sola» (v. 22), fino a trovare il suo culmine nella richiesta della perfezione dell’unità: «siano perfetti nell’unità» (v. 23).
Dio sogna da sempre l’unità, per questo Gesù gliela chiede come il dono più grande che egli può implorare per tutti noi: Ti prego, Padre, «perché tutti siano una sola cosa». Gesù è venuto per realizzare il sogno di Dio.
Il modello della nostra unità è niente meno che l’unità esistente tra il Padre e il Figlio. Sembra impossibile, tanto essa è profonda. Essa è tuttavia resa possibile da quel come, che anche in questo caso, così come nel comandamento nuovo, significa anche perché: possiamo essere uniti come sono uniti il Padre e il Figlio proprio perché essi ci coinvolgono nella loro stessa unità, ce ne fanno dono.
L’unità non è un progetto umano e non può essere perseguito con le nostre sole forze. È oggetto di preghiera ed è dono ricevuto perché progetto divino. È continuazione dell’unità tra Padre e Figlio, inserimento in quell’unità: è vivere in e di quell’unità.
Possiamo prestare labbra e cuore a Gesù perché continui a rivolgere queste parole al Padre e ripetere ogni giorno con fiducia la sua preghiera. L’unità è un dono dall’alto, da chiedere con fede, senza stancarsi mai.

 

7. Basilica di Santa Croce in Gerusalemme
Un posto in cielo

«Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. Vi dico che da ora in poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26, 27-29).
«Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (cf. Gv 14, 2-3).

Gesù è partito per andare in cielo a preparare un posto per ciascuno di noi, ad allestire un banchetto di nozze, al quale egli stesso ci servirà.

Gesù non ci lascia, non ci abbandona mai, ci precede nella casa del Padre e là ci vuole portare con Sé (Papa Francesco).

lunedì 26 marzo 2018

Il cenacolo: Una Chiesa di peccatori



«Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo…» (Gv 13, 2). Il momento di luce del cenacolo d’improvviso s’adombra e cadono le tenebre, la gioia e la festa si tramutano in tristezza. Giovanni ha appena iniziato il racconto dell’ultima cena dicendo che Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine, e subito, accanto a Gesù appare l’avversario, Satana. Mentre viene proclamato il comando dell’amore viene perpetrato il tradimento.

Matteo e Marco pongono la sconvolgente rivelazione proprio all’inizio della cena: «Io verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà» (Mc 14, 18). Gesù è scosso da un “turbamento profondo” (cf. Gv 13, 21) e i discepoli ne sono «profondamente rattristati» (Mt 26, 22). Paolo, che per primo narra della cena del Signore, ha ricevuto dalla tradizione in racconto della frazione del pane strettamente legato a quello del tradimento: «il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò» (1 Cor 11, 23-24).

Giuda è rimasto un mistero nella tradizione cristiana, a cominciare dagli stessi Vangeli, dove è designato come “colui che avrebbe tradito” il Signore (cf Gv 6, 71; 12, 4). Anche nella lista dei Dodici è segnato con il marchio del tradimento: “Giuda Iscariota, colui che lo tradì” (Mc 3, 19; cf. Mt 10, 4; Lc 6, 16). È proprio “uno dei Dodici”, come viene detto ripetutamente (cf. Mt 26, 14.47; Mc 14, 10.20; Gv 6, 71), uno “del numero dei Dodici” (Lc 22, 3). Pietro dirà di Giuda che «era del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero» (Atti 1, 17).
Com’è possibile che una persona scelta da Gesù e a cui egli ha dato fiducia, arrivasse al punto da tradirlo? La fantasia e le congetture più diverse hanno alimentato studiosi e romanzieri. La motivazione fondamentale, l’unica che la Scrittura ci fornisce, è che «il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo» (Gv 13, 2); analogamente a Giovanni Luca scrive: «Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici» (Lc 22, 3).

Anche Pietro, il primo tra gli apostoli, la roccia, sta per crollare. Al primo annuncio della passione si era opposto apertamente a Gesù meritandosi l’appellativo di Satana: non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini (cf. Mc 8, 32-33).
Lo scandalo si allarga a macchia d’olio, non soltanto Giuda, non soltanto Pietro, tutti gli apostoli si disperderanno lasciando solo il Maestro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”» (Mc 14, 26).
Nel momento in cui Gesù esprime l’amore più grande, si vede respinto, tradito, rinnegato, lasciato solo. Dove sono quelli che ha appena chiamato “amici”?

Quei Dodici siamo noi.
Siamo Giuda ogni volta che consentiamo a Satana di insinuarsi nel nostro cuore. Come lui anche noi siamo stati scelti personalmente da Gesù, dopo che ha passato una notte in preghiera (cf. Mc 3, 10), ci ha dato fiducia, ci ha chiamato “amici”.
Siamo Pietro ogni volta che non accettiamo lo scandalo della croce.
Siamo gli apostoli che fuggono ogni volta che cerchiamo di salvare la nostra vita invece di perderla, mettendo al primo posto i nostri interessi invece delle esigenze del Regno.
Cosa fare davanti ai nostri tradimenti, rinnegamenti, fughe?

Converrà fare memoria di quando Gesù ci è passato lungo la nostra strada, in quel determinato luogo, in quel giorno particolare, e ci ha chiamati a seguirlo, ricordare il tempo nel quale fummo illuminati (cf. Eb 10, 32), il “primo amore” (cf. Ap 2, 4), i momenti autentici di comunione con lui, la vita di carità vissuta alla sua sequela. La sua fedeltà è il migliore antidoto alle nostre infedeltà. «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!», verrebbe da gridare con Pietro. Di nuovo ci sentiremo ripetere: «Non temere» (cf. Lc 5, 8.10). Continuare a riporre la fiducia nella sua misericordia, pur nella sfiducia in se stessi. A nessuno ritrae il suo amore, come non l’ha ritirato da Giuda, che continua a chiamare “amico” anche al momento del bacio traditore (cf Mt 26, 50).
Riconoscere i nostri tradimenti, rinnegamenti, fughe sarà un antidoto alla presunzione: “Ti seguirò ovunque andrai…”, “Sono pronto a morire per te…”, “Non ti rinnegherò…”. Senza il suo aiuto e la sua misericordia possiamo anche noi perdere ogni speranza e finire impiccati come Giuda. Se accettiamo di essere guardati negli occhi, come Pietro nel cortile del sommo sacerdote, si scioglierà il pianto del perdono. Al culmine del rinnegamento «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola del Signore che gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22, 61).

Dio si serve anche dei nostri peccati. Il tradimento di Giuda che ha condotto alla morte di Gesù, si è trasformato in spazio di amore salvifico e in consegna che Gesù fa di sé al Padre (cf Gal 2, 20; Ef 5, 2.25). Il Verbo “tradire” è la versione della parola greca che significa “consegnare”, che spesso ha come soggetto Dio stesso: è stato lui che per amore “consegnò” Gesù per tutti noi (cf Rm 8, 32). Nel suo misterioso progetto salvifico, Dio assume il gesto inescusabile di Giuda come strumento per il dono totale del Figlio per la redenzione del mondo.

Come Dio ci accoglie (e dobbiamo accettare il nostro peccato e la sua misericordia), così dobbiamo accogliere gli altri.
Gesù ha tenuto Giuda tra i suoi fino all’ultimo. Avrebbe potuto cacciarlo quando era ancora in tempo, ma non ha voluto estirpare la zizzania prima della fine, ha lasciato che crescesse con il grano buono.
La Chiesa è sancta communio peccatorum. È santa perché è il corpo di Cristo, il Santo di Dio, ma è una comunità di peccatori. La tentazione, fin dai primi secoli, è stata di voler creare una comunità di eletti, di puri, da opporre a una comunità di peccatori. Al termine delle persecuzioni, ad esempio, per non corrompere la purezza della Chiesa non si sarebbero voluti reintrodurre nella comunione ecclesiale i lapsi, che si erano compromessi con i culti idolatri.
È quello a cui siamo tentati anche nelle nostre comunità. Le vorremmo perfette, senza scandali, vorremo espellere chi sbaglia. Se Gesù avesse cacciato Giuda, e poi Pietro e poi gli altri… chi sarebbe rimasto?
Siamo chiamati ad accettare i limiti dell’altro, della Chiesa, la povertà delle nostre comunità, con una misericordia che tutto spera, tutto crede, tutto sopporta.
Gesù ha pregato per la sua comunità: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno» (Lc 22, 31); «Padre… custodiscili dal Maligno» (Gv 17, 15). E invita anche noi a pregare: «State svegli e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14, 38).


domenica 25 marzo 2018

Basta un raggio di sole



Dopo la settimana di ritiro con i carmelitani sono tornato a Roma e mi sono concesso una passeggiata nel quartiere del Testaccio, ricostruito agli inizi del 1900: il “monte dei cocci”, la collina edificata dai romani con i cocci delle anfore del porto; gli antichi ruderi romani; il mattatoio, costruzioni di un’estensione inimmaginabile che il comune ha cercato, con poca fortuna, di recuperare per esposizioni e attività giovanili; i mercatini improvvisati; i silenziosi spazi attorno ai cimiteri inglesi; le piazze alberate…


La giornata di sole, dopo tanta pioggia e freddo, ha portato tutti fuori casa e ogni angolo si popola di bambini che giocano, famiglie che passeggiano, vecchi che chiacchierano sulle panchine. Qualcuno ha ancora i rami di ulivo in mano!
La città non si riconosce. C'è un'incredibile aria di festa.
Basta un raggio di sole perché tutto si ravvivi.


sabato 24 marzo 2018

Il più alto gesto d’amore



Il centu­rione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15, 1-39).

Quante volte, davanti a una situazione difficile, a un dramma personale e familiare, a un qualsiasi male sociale, ci aspettiamo una soluzione positiva, che invece non viene. Si prega, si spera in un miracolo, e non accade niente. La malvagità e l’ingiustizia sembrano avere il sopravvento. Ai cattivi va sempre tutto bene, mentre i buoni rimangono nella sofferenza.

Anche con Gesù è capitato così. Fino all’ultimo qualcuno ha atte­so un intervento divino, un gesto straordinario, qualcosa che avrebbe risolto positivamente il dramma così assurdo che si sta­va consumando sul Calvario. Invece niente: lo hanno inchioda­to, ha gridato, nessuno è venuto in suo aiuto, nessun miracolo, è morto. E di quale atroce morte è morto. E quanto strazian­te quel grido senza risposta alcuna.

«Non scendi dalla croce? – gli dicono uomini crudeli – Allora non ti crediamo». Ciò che per essi è causa di incredulità, per il centurione diventa motivo di fede: «Davvero quest’uo­mo era Figlio di Dio!». È l’ambivalenza davanti alla morte di Gesù. Può essere letta come un fallimento, una maledizione, un’ingiu­stizia, l’assenza di Dio che lascia andare le cose per il loro verso, senza intervenire. Oppure come il più alto atto d’amore: del Padre, che ama al punto da sacrificare il Figlio per noi; di Gesù, che si è immolato per noi; dello Spirito che, Amore, ha reso possibi­le l’atto d’amore di entrambi.

Anche a noi il dolore e le contrarietà possono apparire ambiva­lenti. Quante volte si arriva a perdere la fiducia in Dio, a non credere, perché lascia che le cose vadano come non vorremmo. Anche noi, nei modi più vari, chiediamo a Gesù di scendere dalla croce, di appianare quella contesa, di recuperare quella perso­na cara che si sta perdendo, di porre termine a un’ingiustizia, di guarire chi sta morendo… Perché non fa nulla, perché non interviene, egli che è l’Onnipotente? E forse perdiamo la fede.

Oppure possiamo reagire come il centurione: credere che egli è lì, «il Figlio di Dio», misteriosamente ma realmente presente in quel dolore. Gesù che è Dio, sulla croce si è fatto malattia, ingiustizia, sofferenza, tradimento, peccato…, tutte realtà no­stre che, in quanto Dio, non gli appartenevano e di cui si è co­munque appropriato, prendendole su di sé per toglierle a noi. È stato il più alto gesto d’amore. Non si è visto nulla in quel momento, soltanto silenzio e morte, ma quel gesto d’amore era già risurrezione.

Ogni realtà negativa, da quando Gesù l’ha presa su di sé, si rivela sacramento di Dio: vi è entrato, l’ha assunta, si è identificato con essa. Continua a rendersi presente in ogni nostra realtà ne­gativa. Lo crediamo, anche se egli rimane nascosto e non vediamo il miracolo. Sappiamo che è lì presente e lo amiamo, così com’è. Non amiamo il dolore, ma Gesù che si è fatto dolore, lui pre­sente in ogni dolore. Ci associa a sé per vivere con lui ogni tratto negativo, in noi e attorno a noi, con l’amore che tutto redime, primizia di risurrezione.


venerdì 23 marzo 2018

Il cenacolo: La lavanda dei piedi / 2


  
La lavanda dei piedi il Giovedì Santo è un rito liturgico che conserva un forte valore di segno. Papa Francesco gli ha ridato inaspettato vigore andando nelle carceri, luoghi “periferici”, lontano dalle basiliche, inginocchiandosi davanti a giovani uomini e donne, cristiani e musulmani.

La prima volta, era il 28 marzo 2013, all’Istituto Penale per Minori di “Casal del Marmo” a Roma, parlò con una semplicità disarmante:
Questo è commovente. Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli. (…) Lavare i piedi è: “io sono al tuo servizio”. E anche noi, fra noi, non è che dobbiamo lavare i piedi tutti i giorni l’uno all’altro, ma che cosa significa questo? Che dobbiamo aiutarci, l’un l’altro. A volte mi sono arrabbiato con uno, con un’altra … ma… lascia perdere, lascia perdere, e se ti chiede un favore, fatelo. Aiutarci l’un l’altro: questo Gesù ci insegna e questo è quello che io faccio, e lo faccio di cuore, perché è mio dovere.  (…) Adesso faremo questa cerimonia di lavarci i piedi e pensiamo, ciascuno di noi pensi: “Io davvero sono disposta, sono disposto a servire, ad aiutare l’altro?”. Pensiamo questo, soltanto. E pensiamo che questo segno è una carezza di Gesù, che fa Gesù, perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per aiutarci.

L’anno seguente, 17 aprile 2014, alla Fondazione Don Carlo Gnocchi di Roma, il suo discorso fu così essenziale che non è neppure registrato nei documenti ufficiali della Santa Sede:
Lui ha fatto questa strada per amore, anche voi dovete amarvi, essere servitori nell’amore: questa l’eredità che ci lascia Gesù; e fa questo gesto di lavare i piedi che è un gesto simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi, ai commensali, alla gente che veniva a pranzo o a cena perché in quel tempo le strade erano tutte di terra e quando entravano a casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù fa un gesto, un lavoro, un servizio da schiavo, da servo. E questo lo lascia come eredità fra noi: noi dobbiamo essere servitori gli uni degli altri.

«Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri» (Gv 13, 14). Queste parole domandano un atteggiamento di umiltà e di concreto servizio. Una comunità può crescere nell’amore a condizione che ognuno lavi i piedi all’altro, nel duro della vita quotidiana, nella ferialità dei piccoli gesti, nel silenzio nascosto che non aspetta riconoscimenti. Viene immediatamente alla mente la mamma che non si risparmia, che si dona dalla mattina alla sera come fosse la cosa più normale del mondo. Anche ai figli, anche al marito sembra un atteggiamento normale, quasi fosse un servizio loro dovuto. È così che si ama. Ognuno è chiamato ad essere madre dell’altro in un costante e reale servizio quotidiano e concreto.

Questo richiede di entrare nel mondo interiore dell’altro, vedere con i suoi occhi, sentire con i suoi sentimenti, condividere tutto di lui. È l’invito di Paolo a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, l’invito a farsi tutto a tutti (cf 1 Cor 9, 19-23). È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (cf Rm 12, 5), in una dimensione tipicamente pasquale. Sulla croce Gesù ha portato all’estremo il «farsi tutto a tutti», condividendo tutto di noi: egli che non conosceva peccato si è fatto peccato per noi (cf 2 Cor 5, 21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf Mc 15, 34), si è sottoposto alla nostra stessa morte (cf Fil 2, 6-8). Sul suo esempio siamo chiamati a «portare i pesi gli uni degli altri» (cf Gal 6, 2), ad amare «sinceramente come fratelli», «intensamente, di vero cuore» (1 Pt 1, 22). Un amore intero, capace di rendere «partecipi delle gioie e dei dolori degli altri» e di essere animato «da affetto fraterno» (1 Pt 3, 8-9), purificando dalle ambiguità e dagli egoismi, avvalorando le doti della persona.


giovedì 22 marzo 2018

Il cenacolo: La lavanda dei piedi / 1



La lavanda dei piedi è il gesto con cui Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, apre la cena e le dà il senso.
È la continuazione dell’abbassamento dell’incarnazione che già appare nell’inno della lettera ai Filippesi: Gesù, pur essendo di natura divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte (cf. Fil 2, 6-8).
Lava i piedi. Un gesto corposo, concreto, lontano da quello che si ripete ritualmente il Giovedì santo quando le persone deputate al rito in precedenza già hanno lavato e profumato accuratamente i piedi. Nutriamo grande rispetto per il gesto del sacerdote, perché vi riconosciamo quello di Gesù. Ma nel gesto di Gesù non v’è nessuna retorica, gli apostoli avevano i piedi sporchi del cammino. Nel suo gesto vediamo soltanto quello di un servo, egli compie un’azione vera, non fa del teatro, al punto di scandalizzare Pietro.
Eppure per introdurre questo gesto così povero e feriale, Giovanni dà un’intonazione solennissima: «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava...». Quel gesto è rivelatore del grande evento a cui Gesù, in obbedienza al Padre, sta dando compimento: con la sua morte e risurrezione lava i peccati del mondo. Non è un servo, è lo Sposo, che ama la Chiesa e dona se stesso per lei, «per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola», per presentarla a se stesso «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 26-27).

La lavanda dei piedi non è stato un atto isolato di amore e di umiltà, è il simbolo dell’intera vita di Gesù. Egli non è venuto per essere servito ma per servire.
I Sinottici non raccontano della lavanda dei piedi, ma riportano le parole che la interpretano: «io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27). Raccontato che anche in quell’ultima sera, tra i discepoli si levò la disputa su chi fosse il più grande, e ancora una volta Gesù deve ricordare con fatti e parole, che nella sua comunità non è come nella società comune dove si ambisce al primo posto: «Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più piccolo, e chi governa sua come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 24-27).

Il gesto di Gesù non è soltanto un esempio, è anche un comando: ««Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 14, 14-15).
Rifare quel suo gesto di lavare i piedi gli uni gli altri – traduzione concreta del comando dell’amore reciproco – domanda di condividere vita e morte di Gesù, di spogliarsi (= donare) per rivestirsi della vita e portare con sé e in sé l’umanità intera. Lavare i piedi agli ospiti, lo si sa, era un gesto umile, riservato ai servi. Gesù fa assurgere questo servizio a espressione di ogni tipo di servizio e di attenzione all’altro. Se egli ha dato la vita per noi – e l’amore consiste proprio in questo - «anche noi – conclude Giovanni – dobbiamo dare la vita per i fratelli… non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3, 16.18)


mercoledì 21 marzo 2018

Con i santi carmelitani a Caprarola



Dopo tre giorni di piogge torrenziali un forte vento ha aperto il cielo e ci ha restituito il sole. Nella pianura, dietro il Soratte solitario, si distendono le catene di monti appena innevati.

Il convento seicentesco riprende vita, assieme al parco dove accanto agli alberi secolari fioriscono le camelie. I Farnese, che qui a Caprarola hanno costruito uno dei più bei palazzi, vollero avere accanto i Carmelitani, da poco giunti in Italia. Sbancarono la montagna dall’altra parte del vallone che la divideva dal paese e dal palazzo, e nel tufo edificarono il vasto convento. Ora vi abitano solo tre frati ed è quindi destinato ad essere restituito agli eredi dei Farnesi, i Borboni. Tre frati, ma uno è una vecchia conoscenza e una gloria del Carmelo, padre Arnaldo Pigna. Con orgoglio mi ha mostrato la grande biblioteca, collocata nel palazzo attiguo al convento, che il cardinale Farnese aveva fatto costruire come sua residenza di preghiera.


I corridoi sono tappezzati di sante e santi carmelitani. A ogni passo sono in buona compagnia. Mi parlano con le loro frasi scritte ovunque. Ne copio qualcuna soltanto:

Facciamo la Volontà di Dio in tutto, anche se a volte si presenta in maniera mortificante, contrariando il nostro parare e giudizio. Questo è amare Dio! Questo è vivere corrispondendo a tale Amore infinito, divino (Teresa di Los Andes).

Dio mio…, ora e sempre intendo racchiudermi nel tuo amabilissimo Cuore, come in un deserto, per condurvi con Te, per Te, in Te una vita nascosta di amore e sacrificio (Teresa Margherita Resi)


Mio Dio, Trinità che adoro, aiutatemi a dimenticarmi interamente, per fissarmi in voi, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità, che nulla possa turbare la mia pace o formi uscire da voi, mio immutabile Bene, ma che ogni istante mi porti più addentro nella profondità del vostro mistero (Elisabetta della Trinità)

Rimanere piccoli significa riconoscere il proprio nulla ed attendere tutto dal Buon Dio, come un bambino attende tutto da suo padre (Teresa di Lisieux)

Tutto si può sopportare con un amico così buono, con un così valoroso capitano che primo entrò nei patimenti. Egli aiuta e incoraggia, non viene mai meno, è un amico fedele. Cristo è sempre un buonissimo amico e ci è di grande compagnia, perché lo vediamo uomo come noi, soggetto alle nostre medesime debolezze e sofferenze (Teresa di Gesù)