Nel mezzo della cena Gesù annuncia che è giunto il
tempo di partire e di tornare al Padre. Ha atteso l’ultimo momento per rivelare il segreto più
intimo. Prima di essere consegnato nelle mani di coloro che lo metteranno a
morte, vuole lasciare il suo testamento. È l’ultima raccomandazione che rivolge
a quanti ama. È un segreto che Gesù ha consegnato ai suoi discepoli
poco prima di morire. Come
gli antichi saggi d’Israele, come un padre nei confronti del figlio, anche lui,
Maestro di sapienza, ha lasciato come eredità l’arte del saper vivere e del
vivere bene. L’aveva appresa direttamente dal Padre: «tutto ciò che ho udito
dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv
15, 15), ed era il frutto della sua esperienza nel rapporto con Lui. Sta per affidare loro ciò che più gli sta a cuore.
Cosa lascerà ai suoi? In poche parole raccoglie il suo
insegnamento e lo sintetizza in un solo verbo: amatevi l’un l’altro.
La ferma volontà e la consapevolezza di trasmettere un
testamento vincolante per i discepoli appare evidente dall’insistenza con cui,
per ben quattro volte nel Vangelo di Giovanni, chiede di amare (cf. 13, 34; 13,
35; 15, 12; 15, 17). L’evangelista ne rimase folgorato, al punto che nella sua
prima e seconda lettera lo riprende per sei volte (cf. 1 Gv 3, 11; 3, 23; 4; 12; 1,5). Il primo scritto del Nuovo
Testamento testimonia come l’insegnamento di Gesù sia stato immediatamente
accolto e sia diventato patrimonio della comunità cristiana. Paolo non aveva
bisogno di scrivere qualcosa di suo, al riguardo, perché, come scrive nella sua
prima lettera, «voi stessi avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri» (1 Tes 4, 9; 3, 12; 2 Tes 1, 3).
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).
Gesù lo chiama “suo”, il “mio comandamento”, perché è
il principio di vita che lo anima: relazione con il Padre che lo ama e verso il
quale egli è rivolto in atteggiamento di obbedienza e d’amore. È questa la realtà di Dio, la
reciprocità dell’amore. La pienezza dell’amore è reciprocità del dare e del
ricevere, è rapporto d’amore.
Il comando “amatevi”, rivolto ai
discepoli, è invito a rivivere tra loro la relazione che si vive nella
santissima Trinità: come in cielo così in terra. Gesù è venuto per portare in
terra la vita del Cielo.
Il prossimo non è più soltanto
una persona da servire, da amare, ma da coinvolgere nella reciprocità
dell’amore, perché solo in questa reciprocità si può vivere l’amore tipico di
Dio: l’amore trinitario. Il prossimo non è più raggiunto al termine
dell’itinerario spirituale, come conseguenza dell’unione con Dio, ma cercato
fin dall’inizio per poter andare insieme verso Dio. L’altro è la possibilità
concreta e la necessità insopprimibile per vivere il comandamento dell’amore
reciproco, è la possibilità di attingere alla presenza di Cristo tra noi, la
condizione per raggiungere Dio, per vivere in pienezza la sua vita agapica: «Se
ci amiamo gli uni gli altri – scrive l’Apostolo Giovanni –, Dio rimane in noi e
l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,
12).
Non si tratta di un
suggerimento, di una semplice proposta, è proprio un comando: «Questo vi
comando». Gesù lo esige perché, tra l’altro, è l’unica via per la piena
realizzazione di noi stessi. Soltanto nel dono di sé e nella reciprocità del
dono ognuno può diventare veramente se stesso, perché siamo fatti a immagine di
un Dio che è comunione di Persone. Lo comanda perché sa che soltanto così la
nostra gioia sarà piena. Ed è questo che egli vuole per noi, che la sua gioia
sia in noi e la nostra gioia sia piena.
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