lunedì 19 marzo 2018

Il cenacolo: Il pane spezzato e il vino versato / 2



Sono a Caprarola, sui monti Cimini, nel convento di Santa Teresa, con il monte Soratte all'orizzonte.
Per la verità sono nel cenacolo, con i Carmelitani, membri della curia generalizia di Roma, ai quali sto dando gli esercizi spirituali annuali.

Gesù si dona fino a consegnarsi nelle nostre mani nel pane e nel vino fatti suo corpo e suo sangue. L’Eucaristia di quell’ultima sera anticipa il dono di tutto se stesso – “corpo, sangue, anima e divinità” – che egli farà il giorno seguente sulla croce e di cui rende tutti partecipi.
Il pane è il suo corpo dato; il vino è il suo sangue versato. Il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo non tanto nella loro materialità, ma nell’atto stesso del sacrificio, come proclamiamo subito dopo aver ripetuto quelle parole in sua memoria: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta». È l’intera storia della salvezza che si rende presenza nella sua dinamicità creatrice.
È il compimento dell’offerta che fa di sé il pastore delle pecore, «venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza»: «Il buon pastore offre la vita per le pecore… Io sono il buon pastore… e offro la vita per le pecore… io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 10. 14-18).

«Noi non possiamo stare senza la cena del Signore», proclamano i martiri di Abitine, nell’Africa proconsolare. «Sì, sono andata all’assemblea – confessa una di loro – e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana». Fin dai primi secoli, partecipare allo spezzare del pane domenicale era un’esigenza irrinunciabile, il segno distintivo dei discepoli del Signore Gesù.
Ai verbi di Gesù corrispondono i verbi del discepolo: Prendete e mangiate, prendete e bevete. Il pane e il vino donati vanno presi, altrimenti non sono dono. E vanno mangiati, bevuti. Ogni giorno abbiamo bisogno di nutrirci, del “pane quotidiano”. Ogni gior­no abbiamo bisogno del corpo di Cristo, come lui ogni giorno hai bisogno che noi gli presentiamo il pane e il vino, segni del dono di noi stessi. Ogni giorno, in questa reciprocità di comunione, veniamo assimilati al suo Corpo e divinizzati.

Da quella sera il sangue divino è preso a circolare nelle nostre vene. Nell’Euca­ristia il Signore è rimasto nel momento culminante della tua vita, quello dell’ef­fusione del sangue, segno dell’amore estremo. Si dona e lega a sé col più forte dei vincoli: il patto di sangue, il patto d’amore.
Il discepolo accoglie il pane eucaristizzato, lo fa suo, lo mangia per diventare a sua volta pane spezzato e donato per gli altri. Il dinamismo di Gesù che si dona passa in colui che di lui si nutre.

È la storia di ogni martirio, compimento del mistero eucaristico. A cominciare da Ignazio di Antiochia, che nella Lettera ai Romani scriveva: «Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo… Voglio il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David; voglio per bevanda il suo sangue che è la carità incorruttibile». Fino all’ebrea Etty Hillesum che, all’ultima pagina del suo diario, ormai alla soglia della morte nel campo di concentramento, annota: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati e da tanto tempo».

Non è forse questo il modo più alto per obbedire al comando «fate questo in memoria di me»? Nella cena eucaristica il sacerdote prende sì il pane e il vino e, in sua memoria, ne ripete i gesti e le parole, ma ognuno dei commensali, a sua volta, deve ripetere ciò che il Signore ha fatto, donarsi a tutti, in sua “memoria”. Se davvero ci fa come Cristo, altri sé, allora siamo chiamati anche noi a diventare per gli altri pane donato. Chi si asside alla mensa eucaristica deve poter dire, a quanti poi incontra, io sono “per voi”.
Si tratta di amare con l’amore stesso di Cristo che «ci amò e consegnò se stesso per noi, offerta e vittima a Dio in odore di soavità» (Ef 5, 2). La morte di Gesù, compresa come atto supremo di amore, è la misura e la fonte dell’amore cristiano, come precisa la prima lettera di Giovanni precisa: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16; cf. 4, 7-11).



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