Sono a Caprarola, sui monti Cimini, nel convento di Santa Teresa, con il monte Soratte all'orizzonte.
Per la verità sono nel cenacolo, con i Carmelitani, membri
della curia generalizia di Roma, ai quali sto dando gli esercizi spirituali
annuali.
Gesù si
dona fino a consegnarsi nelle nostre mani nel pane e nel vino fatti suo corpo e
suo sangue. L’Eucaristia di quell’ultima sera anticipa il dono di tutto se
stesso – “corpo, sangue, anima e divinità” – che egli farà il giorno seguente
sulla croce e di cui rende tutti partecipi.
Il pane è il suo corpo dato; il vino è il suo sangue versato. Il pane e il vino sono il corpo
e il sangue di Cristo non tanto nella loro materialità, ma nell’atto stesso del
sacrificio, come proclamiamo subito dopo aver ripetuto quelle parole in sua
memoria: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione,
nell’attesa della tua venuta». È l’intera storia della salvezza che si rende
presenza nella sua dinamicità creatrice.
È il compimento dell’offerta che
fa di sé il pastore delle pecore, «venuto perché
abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza»: «Il buon pastore offre la vita per
le pecore… Io sono il buon pastore… e offro la vita per le pecore… io offro la
mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me
stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 10. 14-18).
«Noi non
possiamo stare senza la cena del Signore», proclamano i martiri di Abitine,
nell’Africa proconsolare. «Sì, sono andata all’assemblea – confessa una di loro
– e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana».
Fin dai primi secoli, partecipare allo spezzare
del pane domenicale era un’esigenza irrinunciabile, il segno distintivo
dei discepoli del Signore Gesù.
Ai verbi di Gesù corrispondono i
verbi del discepolo: Prendete e mangiate, prendete e bevete. Il
pane e il vino donati vanno presi, altrimenti non sono dono. E vanno mangiati,
bevuti. Ogni giorno abbiamo bisogno di nutrirci, del “pane quotidiano”. Ogni
giorno abbiamo bisogno del corpo di Cristo, come lui ogni giorno hai bisogno che
noi gli presentiamo il pane e il vino, segni del dono di noi stessi. Ogni
giorno, in questa reciprocità di comunione, veniamo assimilati al suo Corpo e
divinizzati.
Da quella sera il sangue divino è
preso a circolare nelle nostre vene. Nell’Eucaristia il Signore è rimasto nel
momento culminante della tua vita, quello dell’effusione del sangue, segno
dell’amore estremo. Si dona e lega a sé col più forte dei vincoli: il patto di
sangue, il patto d’amore.
Il discepolo accoglie il pane
eucaristizzato, lo fa suo, lo mangia per diventare a sua volta pane spezzato e
donato per gli altri. Il dinamismo di Gesù che si dona passa in colui che di
lui si nutre.
È la storia di ogni martirio, compimento
del mistero eucaristico. A cominciare da Ignazio di Antiochia, che nella
Lettera ai Romani scriveva: «Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti
delle fiere per divenire pane puro di Cristo… Voglio il pane di Dio, che è la
carne di Gesù Cristo, della stirpe di David; voglio per bevanda il suo sangue
che è la carità incorruttibile». Fino all’ebrea Etty Hillesum che, all’ultima pagina del suo diario, ormai
alla soglia della morte nel campo di concentramento, annota: «Ho spezzato il
mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano
così affamati e da tanto tempo».
Non è forse questo il modo più
alto per obbedire al comando «fate questo in memoria di me»? Nella cena
eucaristica il sacerdote prende sì il pane e il vino e, in sua memoria, ne ripete
i gesti e le parole, ma ognuno dei commensali, a sua volta, deve ripetere ciò
che il Signore ha fatto, donarsi a tutti, in sua “memoria”. Se davvero ci fa
come Cristo, altri sé, allora siamo chiamati anche noi a diventare per gli
altri pane donato. Chi si asside alla mensa eucaristica deve poter dire, a
quanti poi incontra, io sono “per voi”.
Si tratta di amare con l’amore
stesso di Cristo che «ci amò e consegnò se stesso per noi, offerta e
vittima a Dio in odore di soavità» (Ef 5, 2).
La morte di Gesù, compresa come atto supremo di amore, è la misura
e la fonte dell’amore cristiano, come precisa la prima lettera di Giovanni
precisa: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per
noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16; cf. 4, 7-11).
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