giovedì 31 maggio 2018

"Gesù ha bisogno di noi", parola di Leonello


Inizia oggi a Castelgandolfo un convegno per quanti lavorano nel campo ecclesiale.
Oggi è anche l’anniversario di mio papà.
Anche quest’uomo semplice e buono era fortemente impegnato nel campo ecclesiale. Alcuni dei suoi appunti su questo tema mi sembrano ancora utili.

Gesù non poté fare da solo l’opera della redenzione, ma tutta la Sua vita fu coinvolta col popolo e tutti furono protagonisti, chi in bene chi in male.
Dicendo: “Sarò con Voi fino alla fine del mondo; manderò Voi a nome mio; fate questo in memoria di me”, vuole coinvolgere anche noi nella Sua opera redentrice. Ha bisogno di Apostoli per la diffusione del Suo Regno in ogni parte del mondo; di anime che lo ascoltano, lo comprendono, lo amano, lo consolano nell’angoscia: “Restate qui e vegliate con Me”.
Allora aveva bisogno di Pietro, Giacomo e Giovanni, oggi ha bisogno di noi.
Noi siamo Pietro, Giacomo e Giovanni…
Ha tanti nemici Gesù, deve avere anche tanti amici. Gesù è la Chiesa.

Non possiamo amare il fratello e la società, se non si ama Gesù.

Dopo l’epilogo della vita umana di Gesù, la Chiesa giovane, con ancora l’immagine del Divino Maestro negli occhi, cominciava l’opera corredentrice per cui Gesù l’aveva fondata e che si doveva tramandare di generazione in generazione fino alla fine del mondo.

Come gli apostoli “di comune accordo perseveravano nell’orazione”, così oggi vogliamo scegliere questa base per la nostra Comunità Parrocchiale.
Di comune accordo”, cioè uniti nell’intenzione di operare il bene della Comunità, superando le inevitabili divergenze e unendo i nostri sacrifici, vogliamo essere una forza attiva nelle mani del Sacerdote per la santificazione della Comunità Parrocchiale.

Gli Apostoli, in compagnia di Maria, erano “Perseveranti nella Preghiera”.
Perseveranti nella preghiera vuol dire pregare abitualmente, pensare a Gesù-Dio, Dio con noi, fra noi, vivo, vero, che ci ascolta, che ci invita, che ci ama, che ci ama tanto! Noi dobbiamo pensarLo almeno alcune volte in tutte le giornate, anche sul lavoro…
Nel pensiero di Lui dobbiamo pensarci e amarci tra noi, anche separatamente.
In Lui, fiduciosi e perseveranti, dobbiamo riporre tutti i nostri progetti, il nostro lavoro, il Consiglio Pastorale, la Comunità Parrocchiale, in una parola dobbiamo vivere per amare Gesù, perché Lui ha vissuto per amare noi.

Vogliamo amare la Chiesa e lavorare per Essa, oggi che maggiormente ha bisogno di figli buoni, obbedienti ed uniti per realizzare la nostra Comunità.


mercoledì 30 maggio 2018

Il desiderio di vivere in comunità per...


  
Sono passati 200 anni dalla prima Regola che sant’Eugenio scrisse nel 1818.
L’ho riletta, anche se ormai è un documento d’archivio poco noto.
Mi ha colpito soprattutto la prima frase dell'introduzione (Avant-propos), al punto che ho scritto un lungo articolo di commento che pubblicherò sulla rivista “Oblatio”.
Inizia con un periodo ipotetico: “Se i sacerdoti…” e subito si apre una parentesi:
“Se i sacerdoti,
a cui il Signore ha dato il desiderio
di riunirsi in comunità
- per lavorare in modo più efficace alla salvezza delle anime
- e alla loro stessa santificazione…”.
C’è un desiderio, messo dal Signore nei cuore dei primi Oblati;
è il desiderio di vivere in comunità;
vogliono vivere insieme perché hanno capito che la comunità
li fa autentici missionari
e autentici santi.
Si può essere missionari in tanti modi, così come ci si può fare santi in tanti modi. Gli Oblati sono missionari nella comunità e attraverso la comunità e si fanno santi insieme.
Fin qui tutte cose note.

La sorpresa è stata quando, facendo visita alla comunità di Marino, ho dato uno sguardo al registro delle ammissioni al noviziato.
C’è la mia richiesta di essere ammesso al noviziato, datata 28 settembre 1969, assieme a quella dei miei sei compagni. 
L’ho riletta ed è stata davvero una sorpresa: coincide con l’inizio della Regola di sant’Eugenio, un testo che allora non conoscevamo, perché come ho detto è un pezzo da archivio.
Non è come la formula dei noviziati precedenti, è una formula nuova. 
Mi sono ricordato che l’avevamo scritta insieme noi sette, perché volevamo che esprimesse davvero quello che volevano. 
Chi pensava che stavamo dicendo quello che aveva detto tanti anni prima sant’Eugenio; si vede che avevamo proprio la vocazione:

“Sentendo in me la chiamata
A vivere, in comunità,
la scelta totale ed esclusiva di Dio,
e a servire Cristo nei fratelli più poveri…”.


martedì 29 maggio 2018

Il fiore di un giorno




Fiorisce per un giorno soltanto.
Effimero, dice bellezza.
Null’altra pretesa che cantare la gloria di Dio.
Come la nostra vita.


lunedì 28 maggio 2018

Oblati per tutte le stagioni: Raffaele Miele

 
Qualcuno conosce Fratel Raffaele Miele? Io no, almeno fino ad ora. Si dà il caso che oggi sia l’anniversario della sua morte, così ho dato uno sguardo alla sua vita. Che bella sorpresa!

Nato nel 1875 ad Andretta (Avellino), andò in America per cercare fortuna... e in effetti la trovò!
Prima di partire aveva dato disposizione che la sua parte di eredita (non doveva essere granché se andava in America a cercare fortuna) andasse in parte alla matrigna (di vede che il padre si era risposato quando lui era ancora piccolo) e il resto alla “SS. Vergine” (alla parrocchia, mi pare di capire), come scriverà più tardi al Superiore generale.
Negli Stati Uniti, nel New Jersey, leggendo un libro spirituale, sentì la chiamata del Signore e dopo due anni tornò in Europa con l’intenzione di andare in Terra Santa per condurvi vita eremitica. A Marsiglia, al santuario di Nostra Signora della Guardia, si confessò da un Oblato, p. Bessière, che lo dissuase dall’idea del pellegrinaggio e lo mandò a Saint Pierre d’Aosta per fare il noviziato degli Oblati. Temendo però che fosse messo in carcere perché di fatto risultava renitente alla leva e quindi disertore, il maestro dei novizi lo inviò nella casa di formazione a Urmieta in Spagna.
Al termine del noviziato il maestro dei novizi scrisse di lui che si era comportato in maniera eccellente ed era uno di quegli uomini riservati che si fanno conoscere più attraverso le azioni che le parole, e che le sue azioni lo mostravano fedele e fervente. Svolgeva con impegno il compito di giardiniere, non stava mai con le mani in mano, non c’era bisogno di dirgli cosa dovesse fare perché capiva da sé il lavoro che c’era da fare, anzi faceva anche quello che gli altri trascuravano di fare. Insomma: «ha proprio la vocazione!».

Per 33 anni ha servito con fedeltà’ e amore la Congregazione. Appariva rude ed un po’ selvatico, ma nascondeva grandi ricchezze interiori. Di grande vita interiore era noto per la sua ubbidienza.
Bella una lettera scritta nel 1915 al superiore generale per fargli gli auguri onomastici nella festa di sant’Agostino, «pregando N.S. Gesù Cristo e la sua Immacolata Madre di volervi accordare tutte le grazie che il vostro cuore desidera in questa festa. Che sant’Agostino vi ottenga prima di tutto una ardente carità per Dio e per il prossimo e poi un po’ della sua scienza in quanto sia necessaria per bene dirigere il piccolo gregge che il Signore le ha confidato, quanto sia necessario per la di lei santificazione: io farò una novena a questa intenzione». Continua dicendosi contento della nuova comunità… gli dispiaceva solo di vedere alcuni fumare, cosa che non andava bene per dei religiosi…

Ricoverato al Cottolengo di Torino per subirvi un intervento chirurgico, fu così edificante
per la rassegnazione e la preghiera continua, che le Suore lo chiamavano il “Santo”.
Ai confratelli di San Giorgio che andavano a fargli visita diceva sorridendo: “Arrivederci
in cielo”.
Fu felice di morire nella casa dei poveri il 28 maggio 1937, all’età di 62 anni.


domenica 27 maggio 2018

Ritorno a Vermicino




Torno a Vermicino, dopo tanto tempo.
Le roselline fioriscono ancora alla grotta della Madonna di Lourdes.
La chiesa risuona ancora del canto della preghiera.
Si cena e si continua a far festa sul prato.



Quanti sono passati per questa casa!

ora sparsi nel mondo,
missionari.

Il futuro?

È nelle mani di Dio: in buone mani.


sabato 26 maggio 2018

Nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo


«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». (Mt 28, 16-20)

Eccoci anche noi all’appuntamento che Gesù ha dato ai suoi discepoli in Galilea, sul monte. Su quale monte? Quello alto e solitario in mezzo alla pianura sul quale si era trasfigurato? Oppure la dolce collina sul lago dove promulgò le beatitudini e la legge nuo­va?
C’è tutta la Chiesa, di tutti i tempi, lì radunata, per incontrarsi ancora con il Signore risorto e cogliere dalla sua bocca l’ultimo mandato.
Una Chiesa che sembra assalita dal dubbio, provata nella fede, in ricerca, ma che non manca mai all’appuntamento, perché vuole vedere, toccare, ascoltare la voce del suo Signore.

Gesù ci convoca per ricordarci che, anche dopo la sua partenza, dovremo rimanere sempre discepoli e sempre ascoltare e mettere in pratica le sue parole.
Discepoli quelli di allora, discepoli noi oggi, chiamati a fare discepoli tutti quelli ai quali la Chiesa è inviata. Poiché l’unico Signore abbraccia cielo e terra, a lui sono chiamati tutti i popoli. Universale il suo amore, universale la missione della Chiesa che a tutti deve annunciarlo, parlando di Lui.

Ha anche indicato come attuare il suo progetto: battezzare e insegnare.
L’ordine indicato non corrisponde alla nostra metodologia: prima si insegna, poi si battezza. Si è confuso Gesù o l’evangelista ha invertito i termini?
Forse è proprio la sequenza giusta…
Essere discepoli non è soltanto apprendere una dottrina. È molto di più: è entrare in comunione con Gesù, aderire a lui, seguirlo, vivere la sua vita, che è unità con il Padre e lo Spirito.
È incontrare Gesù e, in lui, incontrare il Padre suo, che dona a noi come Padre nostro, lo Spirito suo, che infonde in noi come nostro Spirito.
È scoprire e lasciarsi avvolgere e trasformare dall’amore del Padre e dalla sua bontà, dalla bellezza del Figlio – splendore del Padre –, dalla verità luminosa dello Spirito, che include nella comunione con i Tre.

Questo è l’essere cristiani: coinvolti nel rapporto d’unità che lega l’unico Dio in Tre Persone. Sperimentare d’essere anche noi, per il Dio Uni-Trino e in Dio Uni-Trino, i molti – tutti i popoli; molti eppure un cuore solo e un’anima sola, un solo corpo, una sola famiglia, come Dio è Uno.

Battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo non sarà dunque immergere nella vita d’amore e d’unità che Gesù dal cielo hai portato sulla terra?
Battezzare significa far sperimentare la fraternità che scaturisce dalla comunione trinitaria condivisa tra noi, fatta vita nella comunità cristiana.
Prima “battezzare”, e dunque far vivere; poi, a partire dall’esperienza, insegnare ciò che Gesù ha comandato.
Ripeteremo allora le sue parole, proclamate proprio sul monte delle beatitudini, sintetizzate nell’unico comando d’amare Dio con tutto il cuore, la mente, le forze e d’amare il prossimo come se stessi.
Ripeteremo il comando nuovo d’amarci gli uni gli altri. Vivendo così vivremo uniti tra noi, umanità nuova, nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.


venerdì 25 maggio 2018

Paradiso ’49: Quel Verme della terra



Dopo aver imbucato la lettera scritta il giorno precedente a Igino Giordani, Chiara si incammina con le amiche su per la collina verso la chiesetta di san Vittore, che da sei secoli domina, solitaria, la vallata di Primiero. È mercoledì 20 luglio 1949. Arcangela, la custode del cimitero attiguo alla chiesa, scende vestita di nero come al solito, e saluta con un breve cenno della testa quelle ragazze che col loro sorriso fanno ancora più bella l’estate. Sedute in cerchio sul prato antistante la chiesa, le giovani abbracciano con lo sguardo le montagne d’intorno, i paesi giù in piano, la natura incantata. Ai piedi di Chiara, tra l’erba e i fiori, appare un piccolo verme, umile creatura in quell’oceano di luce e bellezza. Forse è uscito da una delle tombe che attorniano la chiesa. Per chi ha il cuore puro tutto parla, anche un verme, e Chiara pensa allo Sposo suo. Lo confida alle compagne sedute attorno a lei: «Gesù Abbandonato è il verme della terra e si è fatto così affinché, quando la nostra anima sarà in Cielo e la nostra carne sarà tutta un verme, questa canti all’Amore Abbandonato che è così simile a lei, Sposo suo. Così tutto il creato e anche gli esseri più spregevoli cantano all’Amore».

Per lei Gesù è Gesù Abbandonato e ormai lo vede ovunque, in tutti. Dio è Amore e amore è suo Figlio fattosi uomo. Sulla croce, in quel grido di dolore che fa propri tutti i dolori dell’umanità e del creato, si è manifestato l’amore più grande: Gesù, l’amore, è Gesù Abbandonato, l’amore più grande, quello che giunge a dare la vita e la sua unità col Padre.
Nel marzo dell’anno successivo, Chiara ha ancora davanti quel piccolo verme, che le ricorda la profezia di Isaia, dove si parla del Servo del Signore il quale «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (53, 2), e più ancora le ricorda il Salmo 22, 7: «Ma io sono un verme e non un uomo». Pensando a questo scrive: «Attorno a noi tutto è Gesù Abbandonato. Tutto è dunque amabile perché sotto tutto e tutti vediamo lo Sposo dell’anima nostra… Egli, Verme della terra, Bruttezza, impasto di sangue e di lacrime, di dolore, è Dio. Tutto divinizzò: a tutto diede l’Essere».

Ma torniamo all’estate del 1949. Per due giorni – 21 e 22 luglio – Chiara non scrive niente, non ne ha la possibilità tanta è la luce che la invade. Finalmente il 23 luglio, come se si rompesse finalmente una diga, l’esperienza accumulata si riversa con foga sui fogli, in pagine e pagine. Il testo più lungo di quegli anni. Vuole donare a Igino Giordani quanto ha compreso della dinamica, dei giochi di forza, delle relazioni che costituiscono il Paradiso: tutto è amore, tutto è unità e armonia.

Dal Padre escono come dei raggi divergenti, che arrivano a tutta la creazione e le danno unità: sotto ogni cosa si può cogliere la presenza di Dio. Le Idee delle cose create sono nel Verbo e il Padre le proietta fuori di Sé, dando l’Ordine che è Vita e Amore e Verità. Tutto è stato pensato nel Verbo e tutto è stato creato in lui. Nel Verbo fatto uomo in Gesù, il Padre raggiunge ogni creatura. Tutto è unito nella sua origine.
Alla fine dei tempi Gesù riporterà tutto in sé stesso, nel Verbo, e quindi nel seno del Padre, da cui tutto è partito: «Da divergenti [i raggi] diventeranno convergenti, e il loro incontro formerà il Paradiso, fatto tutto di sostanza d’amore, […] nella sua veste fiorita e stellata e variopinta con i mari, con i monti, con i laghi, con le stelle, col sole, con la luna, con i viali». Le idee e i raggi, da divergenti si faranno convergenti, e tutto sarà divinizzato. È l’unità nella sua destinazione finale.

In questa grande armonia e unità c’è posto per l’inferno? Nella visione di Chiara l’inferno, che rimane all’esterno del Paradiso, appare in tutta la sua durezza: la materia ormai informe chiamerà disperatamente la sua forma, che è l’amore, ma non potrà possederla. «Il dannato porterà laggiù l’anima sua immortale e coscientemente sentirà di aver dovuto fare una cosa sola: amare e non potrà più amare». Non vi sarà infatti unità tra freddo e fuoco, tra moto e quiete, tra unità e molteplicità perché «due cose all’inferno non potranno amarsi»: sarà tutto senza vita, senza ordine, senza amore.
Allora nell’al di là vi sarà dualità tra paradiso e inferno? No. Torna l’immagine di quel piccolo verme, di Gesù che si è fatto peccato, inferno, per tutto divinizzare. È lui, solo lui, Gesù Abbandonato che tutto riempie col suo amore e tutto porta all’unità. Quindi l’inferno c’è, ma per chi vi è dentro. Chi guarda dal Paradiso, invece, vedrà ovunque soltanto lui e godrà del suo infinito amore.


Gustare il Paradiso ’49

«Veramente Gesù Abbandonato s’è fatto brutto per tutto abbellire, peccato per toglierlo dalla terra e far di tutto: Dio; dolore per togliere il male dal mondo e ridurre il dolore ad amore».

Il complesso musicale “Gen Rosso”, parafrasando altre parole di Chiara, ha così commentato questo testo in una delle sue famose canzoni: «Perché avessimo la luce / Ti facesti buio. / Perché avessimo la vita / Tu provasti la morte. / Ci basta, Signore, / vederci simili a Te / e offrire col tuo / il nostro dolore. Sei Dio, / sei il mio Dio, / il nostro Dio / d’amore infinito».


giovedì 24 maggio 2018

Ex libris Eugenio de Mazenod




L’ex libris è un contrassegno posto nella parte interna della di copertina a indicare che quel libro fa parte di una collezione privata.
Nella biblioteca di Santa Maria a Vico ho visto uno di questi ex libris di sant’Eugenio de Mazenod. Non è un timbro come in genere si usa. È semplicemente una scritta apposta dallo stesso sant’Eugenio che dice: Ex libris Eug. de Mazenod.
È apposto ad un libro che doveva essergli particolarmente caro, una biografia del beato Alfonso de Liguori, pubblicata a Napoli nel 1817.
Il padre di sant’Eugenio rientrando in Francia nel 1818, portò con sé, come gli aveva chiesto il figlio, una copia della biografia, scritta da A. Gattini, postulatore della causa e pubblicata a Roma nel 1816. Quella copia gli servì poi per la traduzione in francese che fece su richiesta del figlio.
Sant’Eugenio si procurò un’altra copia, edita a Napoli l’anno successivo, 1817, quella che oggi si trova a Santa Maria a Vico, arrivata lì passando forse da Diano Marina, dove trovarono rifugio gli Oblati espulsi dalla Francia che evidentemente si erano portati dietro parte della biblioteca.

Sant’Alfonso è stato uno dei santi che maggiormente hanno ispirato sant’Eugenio nella visione della morale, nella fondazione, nella stesura delle Regole. Ne aveva conosciuto gli scritti già nel periodo di Venezia.

Il 1° maggio 1816, poco mesi dopo la fondazione dei Missionari di Provenza, scrive al Palermo al padre: «Vi prego di vedere i Missionari del Santo Redentore e chiedere loro di trasmettervi le loro costituzioni e le loro regole, l'ufficio del loro santo Fondatore, la sua vita e un pacco delle sue reliquie, se possibile, o almeno un'incisione abbastanza grande da essere collocata nella nostra sala di comunità fino a quando non potremo collocarla nella nostra chiesa. Ho studiato a fondo le sue opere e l’abbiamo preso come uno dei nostri patroni: vogliamo camminare sulle sue orme e imitarne le virtù… Chiedete, mandami tanti dettagli su questi buoni padri che sono i suoi discepoli ed esortateli a pregare il Buon Dio per noi che ne abbiamo bisogno per sostenerci in mezzo ai sofferenze e agli ostacoli che incontriamo… Ho una parte dei suoi scritti, tra cui la sua Teologia Morale, che amo molto e di cui, quando avevo tempo di studiare, ho fatto uno studio particolare…»


mercoledì 23 maggio 2018

Apa Pafnunzio: Mi ami tu?



“Mi ami tu?”.
Io?, rispose apa Pafnunzio.
Non era rivolta a Pietro la domanda, era rivolta a lui.
Si sentì venire meno.
Perché il Maestro glielo chiedeva? Perché non si fidava più di lui? e a ragione. L’aveva rinnegato. Era spergiuro come Pietro.
Lo sai che non ti amo, avrebbe voluto rispondergli. Lo sai che ho tradito la tua fiducia. Sono venuto meno ai miei impegni, alle mie promesse. Se lo sai perché me lo chiedi?
Stava per rispondergli che no, che non l’aveva amato, che non gli era stato fedele.

Quando per la terza volta Gesù gli chiese se lo amava, apa Panunzio comprese finalmente la domanda.
Non gli stava chiedendo se lo aveva amato. Gli stava semplicemente chiedendo se in quel momento lo amava.
Perché guardare al passato se Gesù l’aveva dimenticato e lo stava interrogando sull’adesso? Perché guardare se stesso, mentre aveva dinnanzi il Maestro?
Levò gli occhi e lo guardò. Era il Signore risorto, con ancora i segni della Passione, i segni del suo amore sconfinato.
Lo guardava e d’una cosa era certo, che il Maestro l’amava. Avrebbe voluto essere lui a chiederli: Gesù, mi ami? Non ce n’era bisogno, lo sapeva che Gesù l’amava.
Fu la consapevolezza di quell’amore a fargli dire:
“Tu sai tutto. Tu lo sai che ti amo”.
Non aveva bisogno d’aggiungere “adesso” ti amo. Quand’è l’amore se non ora?
“Tu sai tutto. Tu lo sai che ti amo”.



martedì 22 maggio 2018

Una festa per tre


  
Dopo aver festeggiato una duplice festa a Roma, ieri sera ho festeggiato una triplice festa a Santa Maria Capua Vetere.
La duplice Festa della Madre di Dio e di sant’Eugenio è ben raffigurata in una delle vetrate della chiesa degli Oblati a Santa Maria Capua Vetere. I due sono uno di fronte all’altro che si guardano e si dicono il reciproco amore.




La terza festa è stata quella di Giovanna, che ha rinnovato la sua oblazione, dalla prima di 50 anni fa.
Allora fu un segreto fra lei e Dio. Non disse niente neppure alla mamma, che le chiese dove andava tutta vestita a festa. Allora fra le COMI – e non solo – allora si usava così. La verità venne a galla quando la mamma, che le chiedeva quando si sarebbe decisa a sposarsi, Giovanna rispose che lo era già!
Come sono belle le storie di Dio, quella di Maria, una donna sperduta in un paese sperduto, quella di Eugenio sballottato da una parte all’altra del mondo, quella di Giovanna ragazzina di paese…
Abbiamo messo insieme queste tre meravigliose storie in un’unica semplice meravigliosa festa.


lunedì 21 maggio 2018

Il Vangelo per il nostro tempo


Nel nostro giardino
Il Vangelo di Giovanni si chiude con l’affermazione: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.
Particolarmente bello il commendo che ne fa de Caussade, scrittore di teologia spirituale del 1700:

«Lo Spirito Santo non scrive più vangeli se non nei cuori; tutte le azioni, tutte le esperienze dei santi sono il vangelo dello Spirito Santo. Le anime sante sono la carta, le loro sofferenze e le loro azioni sono l'inchiostro. Lo Spirito Santo, con la penna della sua azione, sta scrivendo dei vangeli viventi che non potranno essere letti che nel giorno della gloria quando, dopo essere usciti dalla tipografia di questa vita, saranno pubblicati.
Che bella storia! Che libro meraviglioso lo Spirito Santo scrive attualmente! Esso è in corso di stampa, anime sante, e non c'è giorno in cui non se ne compongano i caratteri, non vi si applichi l'inchiostro, non se ne stampino i fogli».

Dopo la Pentecoste la liturgia ci apre al “tempo durante l’anno”, il tempo ordinario, il nostro tempo. Dopo averci fatto leggere il Vangelo di Gesù, fino alla sua passione e risurrezione, ascensione al cielo e invio dello Spirito, ora lo Spirito Santo sta componendo la continuazione di quel Vangelo, ciò che ancora non è stato scritto: la nostra di Gesù in noi, la vita della Chiesa. Siamo chiamati ad essere un vangelo vivo.


domenica 20 maggio 2018

Per la prima volta la festa di Maria Madre della Chiesa



21 maggio, lunedì dopo Pentecoste: per la prima volta si celebra la festa liturgica di “Maria Madre della Chiesa”. La celebrazione è nuova, ma la fede è antica, presente nella coscienza ecclesiale fin dai primi secoli e cresciuta gradatamente, prima, nei Vangeli, dove Maria appare come la “Madre di Gesù”, più tardi, con il Concilio di Efeso, che la proclama “Madre di Dio”
Il 21 novembre 1964, alla chiusura della Terza Sessione del Concilio Vaticano II, Paolo VI la proclamò «Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei pastori, che la chiamano Madre amorosissima»; e stabilì che, «con tale titolo soavissimo d'ora innanzi la Vergine (venisse) ancor più onorata ed invocata da tutto il popolo cristiano».
Adesso Papa Francesco ha voluto che fosse istituita e inserita nel Calendario Romano Generale la “Festa della beata Vergine Maria Madre della Chiesa”.

Perché la madre di Gesù è anche madre della Chiesa?
Il Decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, che ha stabilito la celebrazione, invita a riflettere innanzitutto sul Natale di Gesù: Maria dà alla luce colui che è Capo di quel Corpo di cui i cristiani sono membra, e rinvia all’insegnamento di sant’Agostino: «Maria è veramente madre delle membra [di Cristo]… perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli della Chiesa, i quali di quel capo sono le membra». Gli fa eco il papa Leone Magno, quando afferma che «la nascita di Cristo è l'inizio del popolo cristiano, e il natale del Capo è anche il natale del Corpo».
Il Decreto suggerisce poi di portare l’attenzione su Maria presso la croce quando «accettò il testamento di amore del Figlio suo ed accolse tutti gli uomini, impersonati dal discepolo amato, come figli da rigenerare alla vita divina, divenendo amorosa nutrice della Chiesa che Cristo in croce, emettendo lo Spirito, ha generato». Le parole di Gesù rivolte a Maria: “Donna ecco tuo figlio”, indicandole il discepolo amato, la costituiscono madre sua e di tutti i discepoli; mentre le parole rivolte al discepolo: “Ecco tua madre”, invitano il discepolo e tutti noi ad accoglierla con affetto filiale. Gesù la costituisce veramente Madre della Chiesa.

Come tale la troviamo poco dopo nel cenacolo assieme agli apostoli, i discepoli e le donne in attesa della venuta dello Spirito Santo: è l’inizio della sua missione materna. San Cromazio di Aquileia, commentando questo brano degli Atti degli Apostoli, scrive: «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli. Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo».
Il motivo per cui è stato scelto il lunedì dopo la Pentecoste per celebrare la festa di Maria Madre della Chiesa è dato da questa presenza di Maria nel Cenacolo, che costituisce anche l’ultima sua apparizione, quasi a consacrarla davanti a tutti in questa presenza materna.

Se leggiamo gli Atti degli Apostoli, la presenza di Maria nel cenacolo appare piuttosto marginale, viene nominata senza affidarle particolare rilievo. Se invece guardiamo l’iconografia che per secoli ha accompagnato la riflessione e la preghiera della Chiesa, Maria è collocata sempre al centro, con gli apostoli che le fanno corona, affidando a lei il primato nella Chiesa nascente. A lei è riservato “il primo posto”, per usare le parole del Concilio Vaticano II (cf. Lumen gentium 63). Eloquenti anche le immagini che la ritraggono con il manto dispiegato, che raccoglie sotto di sé tutti i membri della Chiesa.

Papa Francesco più che con le parole spiega questa festa con i gesti, come quando prima di ogni viaggio passa dalla basilica di santa Maria Maggiore per affidarsi alla Madre, e al ritorno va di nuovo a trovarla per ringraziarla. La preghiera con la quale conclude la sua enciclica programmatica, Evangelii gaudium, lascia intuire quanto le dice quando va dalla Madre e a lei si rivolge: «Tu, Vergine dell’ascolto e della contemplazione, madre dell’amore, sposa delle nozze eterne, intercedi per la Chiesa, della quale sei l’icona purissima, perché mai si rinchiuda e mai si fermi nella sua passione per instaurare il Regno».

sabato 19 maggio 2018

Pentecoste


Potremo mai capire chi che tu sei?
Del Padre Gesù ci ha tanto parlato,
il Figlio si è reso presente in Gesù,
ma tu, ineffabile amore, ti nascondi e mai ti lasci pienamente afferrare,
reale come il soffio del vento e come il vento impalpabile.
Ci ricordi che Dio è sempre al di là di ogni umana comprensione,
ci invade e ci possiede senza che possiamo contenerlo o possedere,
mistero inesauribile nel quale penetriamo come in un oceano infinito,
in spazi senza confini, nel quale avremo la gioia del sempre nuovo.

Sarà questo ciò che Gesù oggi vuol dirci quando ci parla della tua missione di guida verso la Verità tutta intera?
È lui stesso la Verità, e lo è perché ha in sé la realtà del Padre e la tua stessa realtà di Spirito Santo.
Egli è venuto per svelarci il mistero di Dio e il suo piano d’amore sulla creazione e su ognuno di noi.
Ma è una verità abissale come Dio.
Non ci basterà questa vita per comprenderla e lasciarci da essa avvolgere e trasformare.
Non basterà neppure l’eternità, dove andremo di cielo in cielo, di meraviglia in meraviglia, di mistero in mistero.

Ed ecco la tua missione: condurci sempre più dentro il Mistero, tu che sai la verità, che sei la Verità.
Ci dirai ciò che sai del Padre e del Verbo: perché Realtà tue, ne sei testimone.
Ce le farai vivere, giorno per giorno, perché questo è il modo di conoscere le cose di Dio, viverle.
La storia, quella mia piccola e quella grande della Chiesa e dell’intera umanità, si farà luminosa.
Le vicende umane daranno occasione alla Verità di aprirsi in sempre nuove comprensioni e le parole di Gesù, che tu ricorderai, daranno luce alla storia e al nostro cammino, aprendoci alle cose future, alla meta finale.
Con la tua guida la Verità si fa storia e la storia si fa Verità.



venerdì 18 maggio 2018

21 maggio: gli ultimi momenti di sant'Eugenio


Ho trovato questo ritratto a Cosenza,
realizzato con francobolli
Quando, il 20 maggio 1861, Padre Tempier annuncia a Mons. de Mazenod che è ormai tempo di prepararsi a morire, la reazione del Fondatore degli Oblati è immediata: «Voglio una cosa sola, che si compia la volontà di Dio. Recitatemi le preghiere degli agonizzanti. Prima però datemi la mia croce di missionario e il mio rosario, sono le mie armi; voglio che non mi lascino più». Poi chiede lo scapolare della Madonna e la benedizione del Papa.
Più tardi rinnova i voti religiosi ed esprime la gioia per aver fondato la Congregazione: «Dite loro (agli Oblati) che muoio felice... Che muoio felice perché il buon Dio si è degnato di scegliermi per fondare nella Chiesa la Congregazione degli Oblati». Benedice gli Oblati presenti e quelli lontani, nelle missioni, donando quello che abbiamo sempre considerato il suo testamento spirituale: «Praticate veramente tra voi la carità... la carità... la carità... e al di fuori, lo zelo per la salvezza delle anime».
Quindi benedice le Suore della Santa Famiglia di Bordeaux: «Dite loro che le ho amate molto, che le amo, che sono il loro Padre. Dite loro che voglio le due famiglie sempre unite, che formino una sola famiglia. Saranno felici e forti in questa unione fraterna».


Il giorno seguente, di buon mattino, a un confratello che andava a celebrare la santa messa, raccomanda: «Oh! chiedete (al buon Dio) che si compia la sua santa volontà. Lo desidero con tutto il cuore».
A più riprese, durante la giornata, ripete a quelli che gli sono attorno: «Se mi assopisco o sto peggio, svegliatemi, ve ne prego; voglio morire sapendo di morire!». Lo stesso al medico: «Oh! come vorrei vedermi morire, per accettare meglio la volontà di Dio!»
A sera, scrive Padre Fabre, «recitammo la Salve Regina, che il nostro beneamato Padre comprese e seguì interamente. Alle parole “mostrateci il vostro Figlio dopo questo esilio” aprì un po’ gli occhi. A ciascuna invocazione “o clemente, o pia”, fece un leggero movimento; alla terza “O dolce Vergine Maria” diede l’ultimo respiro».


Sant’Eugenio de Mazenod muore offrendo la vita come perfetto compimento della volontà di Dio. Nessuno gliela toglie, la rende liberamente, come un dono d’amore, a quel Dio che gliel’ha donata.
Muore felice. Muore come ha vissuto, compiendo la volontà di Dio, con gli amori della sua vita: la croce oblata in mano, la preghiera a Maria, la benedizione del Papa, portando in cuore e benedicendo gli Oblati e la famiglia oblata, rappresentata dalle Suore della Santa Famiglia. Muore attorniano da figli e figlie, come un padre.
Oggi la schiera di figli e figlie di sant’Eugenio è numerosa come mai, sparsa su tutta la terra. Per vivere in pienezza la propria grande vocazione – la volontà di Dio! – questa schiera di figli e figlie è chiamata a stringersi nuovamente attorno al padre, a far propri i suoi “amori”, ad attuare il testamento che egli ha lasciato. È il testamento stesso di Gesù, non poteva darcene uno diverso: «Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi… Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 13, 34-35; 20, 20).
È un mandato rivolto a tutta la famiglia oblata: allora agli Oblati e alle suore della Santa Famiglia presente attorno al suo letto, oggi a tutti gli Oblati sparsi nel mondo, ai laici che condividono il carisma, agli istituti di vita consacrata nati dal carisma oblato e che con gli Oblati condividono la missione.
Una grande famiglia, di nuovo unita attorno al padre, sant’Eugenio de Mazenod. Una famiglia unita della medesima carità e della medesima passione per l’annuncio del Vangelo.

giovedì 17 maggio 2018

Fratel D'Orazio: Pellegrino per le strade di Roma



Aveva l’aria del vagabondo senza fissa dimora. Come Giuseppe Benedetto Labre si aggirava per Roma, di chiesa in chiesa, in un pellegrinaggio perenne. Le mille piccole commissioni lo portavano nella farmacia in Vaticano, all’ufficio delle benedizioni, ai negozi di articoli religiosi… Da tutto il mondo i missionari si rivolgevano a lui per una richiesta e a tutti sapeva rispondere. I piccoli compiti da sbrigare, oltre ad essere un autentico atto di carità, diventavano pretesto per rendersi presente ad ogni tipo di celebrazione religiosa, ad ogni manifestazione di devozione popolare. Sostava a lungo in preghiera in una chiesa, poi in un’altra, per le sue preghiere, per le sue intenzioni, per affidare al Signore o a un santo particolare quella persona, quel parente, quel missionario… I santi erano tutti amici suoi. Ne conosceva tantissimi, e di loro conosceva molte cose, soprattutto conversava con loro. L’ultima messa, a cui volle prendere parte la sera prima di morire – aveva ormai 97 anni – chiese che fosse celebrata la memoria dei santi Francesco e Giacinta, appena canonizzati da papa Francesco.
Per strada salutava tutti e tutti lo salutavano, entrava ovunque, anche in Vaticano, senza bisogno di alcun tipo di lasciapassare. Nessuno sapeva chi fosse o come si chiamasse, ma sapevano che era semplicemente “lui”. All’edicola di piazza san Pietro lo conoscevano come “bastone”, per l’inseparabile legno sul quale si appoggiava, ormai ricurvo dagli anni, altri come Peppino. A quanti incontrava elargiva una parola, un sorriso, un gesto semplice d’amore, un’immaginetta, un rosario, un cioccolatino… Ovunque si recasse non si presentava mai a mani vuote. Era un viandante, un pellegrino. Recentemente aveva ripetuto che avrebbe voluto morire per strada. Con il suo fare allegro e scanzonato ricordava un po’ i “folli di Dio”.

“Da piccolo – ha scritto in occasione del 97° compleanno – andavo spesso con la mamma nei santuari di Maria. 3 ore a piedi per il santuario di Santa Maria delle Grazie a Monte Odorisio, 5 ore per quello di Santa Maria dei Miracoli a Casalbordino. Dopo la quarta elementare iniziai a lavorare in campagna per aiutare i genitori con 5 figli. Nel gennaio 1939, avevo 19 anni, arrivano nella mia parrocchia gli Oblati per predicare la missione popolare. Fu il primo soffio, molto leggero, del Signore, che chiama quando vuole. Andai poi a visitare i missionari. I padri furono molto gentili e mi invitarono a pranzo. Vedendo i cuochi pensai che fossero dei domestici. Poi li vidi uscire a passeggio con la veste talare e con la croce oblata… Domandai al padre che mi spiegò la vocazione del Fratello Oblato. Gli disse subito: Posso venire anch’io? Gesù mi chiamava alla vita religiosa. Andai pellegrino a San Gabriele dell’Addolorata e a Loreto perché mia madre e i parenti non volevano farmi andare. Al ritorno ricevetti il permesso e partii…”.
Una decina di anni più tardi, nel 1948, Fratel Giuseppe D’Orazio fu chiamato a Roma dai suoi superiori e da allora, per il giovane religioso abruzzese, questa divenne la sua città. 
Autentico Fratello Oblato di Maria Immacolata ci ha insegnato, senza tante parole, la fraternità e il valore dell’oblazione, dell’offerta della vita fatta e rinnovata giorno per giorno, nella semplicità, nel silenzio, nella fede e nella carità. Gliene siamo grati. Non imiteremo mai abbastanza il suo esempio.

A un anno dalla sua partenza...