Aveva l’aria del vagabondo senza fissa dimora. Come Giuseppe Benedetto
Labre si aggirava per Roma, di chiesa in chiesa, in un pellegrinaggio perenne. Le
mille piccole commissioni lo portavano nella farmacia in Vaticano, all’ufficio
delle benedizioni, ai negozi di articoli religiosi… Da tutto il mondo i
missionari si rivolgevano a lui per una richiesta e a tutti sapeva rispondere.
I piccoli compiti da sbrigare, oltre ad essere un autentico atto di carità,
diventavano pretesto per rendersi presente ad ogni tipo di celebrazione religiosa,
ad ogni manifestazione di devozione popolare. Sostava a lungo in preghiera in una chiesa, poi in un’altra, per le sue
preghiere, per le sue intenzioni, per affidare al Signore o a un santo
particolare quella persona, quel parente, quel missionario… I santi erano tutti
amici suoi. Ne conosceva tantissimi, e di loro conosceva molte cose,
soprattutto conversava con loro. L’ultima messa, a cui volle prendere parte la
sera prima di morire – aveva ormai 97 anni – chiese che fosse celebrata la
memoria dei santi Francesco e Giacinta, appena canonizzati da papa Francesco.
Per strada salutava tutti e tutti lo salutavano, entrava ovunque, anche in
Vaticano, senza bisogno di alcun tipo di lasciapassare. Nessuno sapeva chi
fosse o come si chiamasse, ma sapevano che era semplicemente “lui”. All’edicola
di piazza san Pietro lo conoscevano come “bastone”, per l’inseparabile legno
sul quale si appoggiava, ormai ricurvo dagli anni, altri come Peppino. A quanti
incontrava elargiva una parola, un sorriso, un gesto semplice d’amore,
un’immaginetta, un rosario, un cioccolatino… Ovunque si recasse non si
presentava mai a mani vuote. Era
un viandante, un pellegrino. Recentemente aveva ripetuto che avrebbe voluto
morire per strada. Con il suo fare allegro e scanzonato ricordava un po’ i
“folli di Dio”.
“Da piccolo – ha scritto in occasione del 97° compleanno – andavo spesso
con la mamma nei santuari di Maria. 3 ore a piedi per il santuario di Santa
Maria delle Grazie a Monte Odorisio, 5 ore per quello di Santa Maria dei
Miracoli a Casalbordino. Dopo la quarta elementare iniziai a lavorare in
campagna per aiutare i genitori con 5 figli. Nel gennaio 1939, avevo 19 anni,
arrivano nella mia parrocchia gli Oblati per predicare la missione
popolare. Fu il primo soffio, molto leggero, del Signore, che chiama quando
vuole. Andai poi a visitare i missionari. I padri furono molto gentili e mi
invitarono a pranzo. Vedendo i cuochi pensai che fossero dei domestici. Poi li
vidi uscire a passeggio con la veste talare e con la croce oblata… Domandai al
padre che mi spiegò la vocazione del Fratello Oblato. Gli disse subito: Posso
venire anch’io? Gesù mi chiamava alla vita religiosa. Andai pellegrino a San
Gabriele dell’Addolorata e a Loreto perché mia madre e i parenti non volevano
farmi andare. Al ritorno ricevetti il permesso e partii…”.
Una decina di anni più tardi, nel 1948, Fratel Giuseppe D’Orazio fu chiamato
a Roma dai suoi superiori e da allora, per il giovane religioso abruzzese,
questa divenne la sua città.
Autentico Fratello
Oblato di Maria Immacolata ci ha insegnato, senza tante parole, la fraternità e
il valore dell’oblazione, dell’offerta della vita fatta e rinnovata giorno per
giorno, nella semplicità, nel silenzio, nella fede e nella carità. Gliene siamo
grati. Non imiteremo mai abbastanza il suo esempio.
A un anno dalla sua partenza...
Un uomo, un fratello, un padre, un nonno. Giuseppe sempre nei ricordi per il suo dire o fare.
RispondiEliminaGrazie, se non diventeremo piccoli non entreremo nel regno dei cieli, lui ci deve essere entrato per forza.
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