mercoledì 30 settembre 2015

Noviziato a Marino, 45 anni fa


Il 29 settembre di 45 anni fa celebravo i primi voti. Lo abbiamo ricordato ieri con gli amici. Il noviziato era iniziato il 28 settembre dell’anno prima. Non ci sono foto di quell’avvenimento, allora non si usavano. C’è di più, il diario di un intero anno di noviziato. È bello rileggere la prima pagina. Essa ricorda l’inizio non soltanto del mio noviziato, ma del noviziato oblato di Marino, che veniva istituito quell’anno. Eccone la trascrizione:

28 settembre 1969
Questa sera, P. Peppino Palumbo, Raffaele Fiorenza, Stefano Collamati, Celso Corbioli, Rino Martignago, Fabio Ciardi, Raffaele Moretto, abbiamo iniziato la vita religiosa con il desiderio e la disposizione interiore ad accettare, momento per momento, quello che il Signore ci manderà.
Uno di noi proviene dalla Scuola Apostolica di Firenze ed è Raffaele Moretto, un altro, Fabio Ciardi, dallo Scolasticato di San Giorgio Canavese, e gli altri 5 dal Centro Giovanile P. Armando Messusi. Il Padre Maestro è P. Marino Merlo.
In mattinata ci siamo riuniti e dalla nostra unità è scaturita la formula con la quale intendiamo manifestare al P. Provinciale il desiderio di cominciare il noviziato. Eccola:
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Sentendo in me la chiamata a vivere, in comunità, la scelta totale ed esclusiva di Dio, e a servire Cristo nei fratelli più poveri, io, …, chiedo di poter iniziare il noviziato nella congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata.
E per poter rispondere alla chiamata di Dio mi impegno a conoscere e a vivere le Costituzioni e Regole.
In questo cammino mi guidi la Madre del Signore.”
La funzione d’inizio, presieduta dal P. Matteo Candeloro, Superiore Provinciale, che in precedenza aveva letto
il decreto di erezione di “casa formata”,
il decreto di Promulgazione della nuova sede del noviziato,
il decreto di Promulgazione della nomina del Padre Maestro,
ha avuto luogo, alle ore 19.30, nella cappella di comunità. Non si è fatta la vestizione, ritenendo più opportuno darle il suo giusto significato, facendola al momento della professione dei voti.


martedì 29 settembre 2015

Prenderai uomini vivi: che promessa!


“Sarai pescatore di uomini”. Per essere più precisi il verbo che Luca utilizza, zōgreō, composto da zōs (vivo) e agreō (prendere), ossia “catturare vivi”. Gesù ha dunque promesso a Pietro:  “Prenderai uomini vivi”, per farli vivere. È proprio un altro mestiere rispetto a quello che aveva fatto fino a quel momento: ha sempre pescato pesci vivi che gli morivano nella barca, ora pescherà uomini morti ai quali darà la vita del Signore della vita.
Missione impossibile? Certamente. Per questo alla promessa Gesù premette: “Non temere!”. È la parola che sempre troviamo in ogni chiamata perché ogni chiamata di Dio è sempre impossibile. Non temere diceva Dio a Mosè quando lo mandava a salvare il suo popolo. Non temere ripeteva a Giosuè quando doveva prendere il posto di Mosè alle guida del popolo e introdurlo nella terra promessa. Non temere disse l’angelo a Maria chiamata diventare la madre di Dio… Non temere Pietro, perché a garanzia della promessa della tua futura pesca di uomini vivi c’è la potenza di quel Gesù che ti ha appena riempito la rete di pesci.
Pietro è inadeguato, inadatto, incapace, in una parola, un povero peccatore? Gesù lo sa, per questo ha attuato un piano affinché la sua promessa si realizzi. Per conoscerlo dobbiamo andare al Vangelo di Marco.
Ci troviamo adesso sullo stesso lago, con le stesse persone, le stesse barche, le stesse reti. Ma questa volta la chiamata e la promessa è rivolta anche agli altri pescatori che sono con Pietro. A tutti dice: «Vi farò diventare pescatori di uomini». “Vi farò”, poiēo, il verbo che indica l’agire creatore di Dio, l’agire di Gesù che compie le opere del Padre. È la parola efficace, che opera ciò che enuncia. Non è Pietro e i suoi compagni che si fanno pescatori di uomini vivi, è Gesù che li fa con la sua potenza.
Sarà un lavoro lento e graduale: “Vi farò diventare”. Una formazione che Gesù compirà giorno dopo giorno, vivendo con i suoi discepoli, parlando con loro, mostrando le sue opere. Dopo la sua risurrezione essi si troveranno improvvisamente fatti pescatori di uomini vivi e vedranno realizzarsi la promessa. “Prendi il largo”, aveva detto Gesù a Pietro. Finalmente gli obbedisce: Gerusalemme, la Samaria, Antiochia, Roma.

lunedì 28 settembre 2015

Sarai pescatore di uomini: che promessa!

Dopo una notte di pesca infruttuosa, i pescatori stavano lavando le reti. Dalla cittadina di Cafarnao la folla era scesa sulla sponda del lago trascinandosi dietro Gesù perché lì, fuori dell’abitato, potevano ascoltare meglio la sua parola. Per avere le persone davanti a sé chiese a Simone se poteva salite sulla sua barca ormeggiata alla riva, la fece scostare un po’ da terra e da quel podio improvvisato Gesù riprese ad annunciare la buona novella del Regno di Dio. Anche Simone ascoltava e fu incantato da quel maestro che parlava in modo tanto diverso dagli altri maestri della sinagoga.
Quando ebbe finito, Gesù si rivolse personalmente a Pietro domandandogli di prendere il largo e di gettare nuovamente le reti per la pesca. Il Maestro era certamente un buon carpentiere, ma si vedeva che di pesca non se ne intendeva. Quella non era l’ora migliore per pescare e poi in quel braccio di lago quel giorno non s’erano visti banchi di pesce: “Abbiamo pescato invano per tutta la notte”, gli rispose, come a fargli intendere che la proposta non era sensata. Ma a rivolgergli quella parola era una persona che di parole non ne aveva pronunciata una fuori luogo, anzi, ognuna gli usciva dalla bocca con il valore dell’oro, con la dolcezza del miele, con la limpidezza della luce che in qual momento si rispecchiava sul lago. Già, quella luce sul lago era proprio un ostacolo alla pesca. Ma era lui che glielo chiedeva e sulla sua parola – quella che parlava di vita – sarebbe andato al largo a pescare: “Sulla tua parola calerò le reti”. Pietro si fida. È il primo atto di fede che compare nel Vangelo.
E il miracolo avvenne. Forse non sarà stato un miracolo, si sarà trattato di una coincidenza, fatto sta che le reti si riempirono all’inverosimile, la sua e l’altra che era partita insieme. No, non era una coincidenza, era proprio quella parola potente a riempire le barche fin quasi a farle affondare, quella stessa parola potente che, nella sua casa, gli aveva guarito la suocera.
Pietro, in mezzo al pesce guizzante si prostra davanti al Maestro e si riconosce un pover’uomo, un peccatore, che non è degno di ospitare nella sua barca il Signore. Lo prega di scendere, di allontanarsi da lui.
Ed ecco scoccare la promessa: “Sarai pescatore di uomini”…
(continua…)


domenica 27 settembre 2015

Il punto nero o la pagina bianca?





Il maestro disse ai ragazzi di aprire il quaderno e di scrivere un punto sulla pagina bianca di sinistra. Facile. “Adesso – continuò – sulla pagina bianca di destra scrivete cosa vedete nella pagina su cui avete disegnato il punto”.
I ragazzi si guardarono ridendo. Ma cosa vuole oggi il maestro… Il maestro dovette ripetere la richiesta e finalmente i ragazzi si misero a scrivere. Poi fece leggere ad ognuno, ad alta voce, quello che aveva scritto. Pur senza aver copiato l’uno dall’altro, tutti avevano scritto pressappoco la stessa cosa: “Io vedo un punto nero”. “Io vedo il punto nero che il maestro mi ha chiesto di disegnare”. Qualche altro parlava di macchia, di neo…, ma la sostanza era la stessa.
“Tutti avete visto il punto nero – disse il maestro –. Come mai nessuno ha visto la pagina bianca?”
La favoletta ce l’ha raccontata oggi p. Jagath durante la messa che abbiamo celebrato per la festa del suo 25° di sacerdozio. “Perché stare a guardare gli sbagli compiuti in questi 25 anni – la macchia nera – e non guardare invece tutto il bene che Dio ha computo?”


sabato 26 settembre 2015

I confini della Chiesa, i confini del cuore



«Fuori della Chiesa non c’è salvezza». Quanta irritazione per questa affermazione che sembra escludere tanti dalla via del cie­lo. Com’è possibile che chi non è nella Chiesa non si salvi? Ci si ribella davanti a una proposizione che sembra tanto assurda e terribile. La difficoltà viene dal fatto che non ci è chiaro cosa sia la Chiesa.
Prima di essere un’istituzione, la Chiesa è semplicemente Cristo Gesù, presente e vivo nella nostra vita, nella nostra storia. Dove è lui, il Salvatore, lì è il suo corpo, la sua Chiesa, nostra salvezza. Dove lui non è, la Chiesa non è più, anche se ne rimangono le strutture, svuotate della sua realtà.
È dunque vero che fuori della Chiesa non c’è salvezza, a patto che si comprenda quali ne sono i confini. Per Giovanni, secondo il brano del vangelo che leggiamo in questa 26a domenica, erano molto angusti, limitati a quelli che seguivano Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglie­lo, perché non ci seguiva». La risposta è limpida: «Chi non è contro di noi è per noi».
Il settarismo è sempre in agguato nell’opposizione dei “nostri” e degli “altri”, di “noi” e di “loro”. Il nostro cerchio è naturalmente il detentore della salvezza! I confini della tua Chiesa sono quelli raggiunti dal sangue versato da Cristo, sono i confini della salvezza che egli ha operato.
È venuto per ogni uomo e vuole che ogni uomo sia salvo. Ha dato la vita per tutti, perché tutti abbiano la vita. In ogni persona, d’ogni tempo, d’o­gni latitudine, d’ogni cultura e popolo, ha deposto un germe di vita. Il suo amore ha raggiunto gli estremi confini della terra. A tutti è arrivato, a tutti si è donato.
Quanto lavoro da compiere per dilatare i nostri cuori sui confini di quello di Cristo, che non conosce confini.
Non potrò più consi­derare l’altro come un estraneo, qualcuno “fuori” dall’ambito della sua presenza e salvezza. In ogni cultura, in ogni religione, in ogni cuore dovrei saper riconoscere Gesù, anche se più o meno nascosto. In punta di piedi davanti a ognuno, perché amato da lui. E gioire e godere di tutto ciò che è bello, buono, giusto, da qualunque parte sbocci, senza invidie, senza gelosie, perché tutto è tuo, tutto è nostro.
La pietra preziosa deposto in tanti cuori è forse coperta di fango, nascosta, ma c’è. Sono io che non so vederla.

venerdì 25 settembre 2015

Sarò sempre con voi: che promessa!


Secondo il Vangelo di Luca, l’ultimo atto della vita di Gesù fu condurre gli Undici fuori Gerusalemme, verso Betània dove, mentre li benediceva, «si staccò da loro e fu portato verso il cielo». Lo stesso leggiamo negli Atti degli apostoli. La tradizione ha collocato il luogo dell’ascensione del Signore sulla sommità del monte degli Ulivi. Già nella seconda metà del 300 la matrona romana Pomenia vi aveva costruito una chiesa detta Imbomon (chiesa sulla vetta). Un secolo dopo vi sorse un monastero. Dopo la distruzione dei Persiani, i Crociati edificarono una nuova chiesa ottagonale, con al centro una edicola senza pareti e senza soffitto, formato da otto colonnine che formavano altrettanti archetti. In alto tutto doveva rimanere aperto, come nella primitiva chiesetta di Pomenia, a ricordare la salita di Gesù al cielo.
Dal 1200, quando Gerusalemme fu conquistata dal Saladino, quell’edicola fu trasformata in moschea. Anch’oggi, quando vi si entra, si è come schiacciati dalla possente cupola, sembra che il cielo si sia richiuso.

Matteo, a differenza di Luca e Marco, ambienta invece l’ultimo incontro con gli apostoli in Galilea, sul monte sul quale Gesù aveva dato loro appuntamento. Era forse quello della trasfigurazione? Ma anche se lo fosse, qual è l’“alto monte sul quale Gesù ha si è mostrato in tutto il suo splendore? La tradizione apostolica, riportata da Origene, lo identifica con il Tabor, dove già alla fine del quarto secolo furono edificati luoghi di culto cristiani. 
La prima volta che vi salii era una giornata limpida e lo sguardo poteva spaziare all’infinito su una pianura verde, resa ancora più bella dal lavoro dell’uomo. Ricordo la gioia di mio padre che guardava incantato il paesaggio all’intorno inondato di luce, quasi un riflesso di quella che splendette sul volto di Cristo e che sembrava avvolgesse anche noi.
Su quel monte Gesù disse ai suoi che gli era stato ogni potere in cielo e in terra. La sua ascensione avrebbe simboleggiato proprio la sua signoria, l’investitura regale che riceveva sedendo alla destra del Padre.
Fu allora che pronunciò la più solenne e straordinaria promessa che mai avesse fatto: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Era l’ultima sua parola.
Partendo, assicurava i suoi che sarebbe rimasto con loro. Una presenza diversa da quella di prima, quando camminava per le strade di Galilea e di Giudea. Adesso sarebbe stato con loro con tutta la potenza della sua risurrezione, con la forza della sua regalità. Sarebbe stato con loro ovunque fossero andati, in ogni momento, “tutti i giorni”, senza mai lasciarli soli nel loro cammino. Sarebbe rimasto anche nelle generazioni successive, lungo tutta la storia della Chiesa, “fino alla fine del mondo”, come Signore del mondo e della storia, come colui che ha vinto il mondo.
Di cosa temere, con una promessa così?


giovedì 24 settembre 2015

La fede che si materializza



Martin Nkafu ha incantata anche questa sera a sant'Eustachio. Più che un dialogo è stato un monologo della grande arte oratoria africana.
Tra le tante cose mi ha colpito il suo sguardo che ha abbracciato la grande artistica chiesa: "Un africano che viene qua vede la fede di un popolo materializzarsi in queste mura, in questa casa. Come potete dire di non avere fede se avete costruito un'opera simile?"
Mi piace vedere la fede di secoli materializzata. 

mercoledì 23 settembre 2015

Riprendono i dialoghi a Sant'Eustachio


Dopo due anni di esperienza i “Dialoghi a sant’Eustachio” rilanciano la proposta con una formula rinnovata. Innanzitutto si è costituita una equipe molto determinata (vedi foto). Viene dato più spazio alle tematiche di attualità e nello stesso tempo si mantiene lo spazio collaudato della spiritualità: fino a gennaio sulla dinamica dell’unità e successivamente sull’anno della misericordia. Speriamo che la nuova formula incontri il dovuto successo. Auguri!
La sala dove si tenevano gli incontri il primo anno attualmente accoglie una famiglia di profughi. La chiesa, che adesso, a sera, vede i “dialoghi”, a mezzogiorno si trasforma in sala da pranzo per i poveri.
Le premesse ci sono tutte perché i “dialoghi” siano autentici.

martedì 22 settembre 2015

Perché non indire una festa dell’amore reciproco?



Primo vescovo autoctono del Burundi, Mons. Michel Ntuyahaga, a due anni dalla sua ordinazione episcopale, partecipò a tutte e quattro le sessioni del Concilio Vaticano II. Memorabile il suo discorso sul “comandamento nuovo” come caratteristico della vita della Chiesa. Tra l’altro proponeva di istituire una festa nella quale si ricordasse e si celebrasse il comandamento dell’amore reciproco.
Forse vale la pena leggere alcune frasi di quel discorso:

“Il Concilio dell’unità e della carità deve insistere sulla carità e rispondere così alle aspettative del mondo. La carità è l’unica lingua capace di essere compresa da tutte le nazioni. L’amore è infatti il ​​nodo e il fondamento della nostra religione cristiana. Non è il primo comandamento che ci ha ordinato Cristo, il comandamento che contiene tutta la legge e i profeti, il comandamento dell’amore di Dio sopra ogni cosa e il prossimo come noi stessi? Non è da questo segno che siamo riconosciuti come discepoli di Cristo? Il Vangelo che Egli porta, il regno di Dio in noi, non è forse la buona novella dell’amore di Dio e dell’amore fraterno spinto fino l’amore del nemico? Non è da questo segno che saremo giudicati?...
Che sarà questo Concilio se non insiste sull’amore tra gli uomini? Questa è la nostra unica forza, che prevale su tutto il resto, la forza dei cristiani…
Il Concilio dovrebbe reagire contro l’atrofia del Vangelo. Il Vangelo è la via nella carità… Solo carità cambierà il mondo… Per questo il Concilio deve alzare la voce e ricordare a tutti, in modo speciale, il comando del Signore…
Sarebbe auspicabile istituire nella Chiesa una festa per ricordare in particolare il comandamento dell’amore…
Il nostro Concilio è un incontro di amore e di carità. Il mondo si aspetta che portiamo questa carità tra gli uomini. È essa che darà loro la pace di cui hanno bisogno.”

Oggi, all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, suor Jeanne d’Arc ha difeso la sua tesi, che ho seguito in questi anni, sulla figura di questo vescovo, un vero Padre della Chiesa Burundese, e sulla fondazione da lui operata delle suore di Bene-Umukama (Serve del Signore). Ale suore, in coerenza con tutta la sua vita, ha lasciato scritto:

“Ecco la mia parola che lascio in eredità: l’amore di Dio e del prossimo, è la ragione della vostra presenza nella Congregazione delle Serve del Signore. Innanzitutto amate il vostro amato Gesù Cristo, il Figlio di Dio venuto ad abitare in mezzo agli uomini. Poi amate le Costituzioni della vostra Congregazione. Non ho soldi per lasciare; la grande ricchezza che vi lascio è l’amore fraterno; pregate le une per le altre, esercitare il vostro apostolato nella carità e nell’amore di Dio, cercate in tutto la santità… Il mio testamento è: Amatevi le une le altre”.


domenica 20 settembre 2015

Giovani consacrati: La carica dei 5000


Il Congresso mondiale dei giovani consacrati e consacrate si è concluso questa mattina a Rai 1, con la rubrica “A sua immagine”, simpaticamente intitolata: “La carica dei 5000”.
Mezz’ora di cronaca e testimonianza sull’evento, con la partecipazione di una ventina di giovani e con il cosiddetto “ospite”, che poi sarei io.
Un linguaggio difficile quello televisivo, fatto di battute, senza la possibilità di argomentare… Ma forse qualcosa passa comunque, a cominciare dai volti luminosi dei giovani.
Proprio come ha detto loro il papa in questi giorni: “Quando tu ricordi le meraviglie che il Signore ha fatto nella tua vita, ti viene di fare festa, ti viene un sorriso da un orecchio all’altro!, di quei sorrisi belli, perché il Signore è fedele!”

sabato 19 settembre 2015

Giovani consacrati: il fiore e il giardino

L’Osservatore Romano, riportando il discorso del papa ai giovani consacrati e consacrate, ha omesso la sua ultima frase: “Questo incontro mi ha fatto bene”.
È quello che potrei dire anch’io al termine di questo straordinario convegno mondiale. Riempie il cuore di gioia e di speranza  vedere tanti giovani entusiasti. Anche un po’ di trepidazione: ce la faranno? Le sfide e le difficoltà che devono affrontare, e di cui hanno parlato apertamente, non sono di poco conto.



La gioia e la speranza vengono soprattutto dal vedere il loro entusiasmo, la convinzione e anche l’unità che si è instaurata tra di loro. 
“Un fiore è bello – ha concluso questa mattina il cardinale – ma un giardino è ancora più bello”.


Questi giorni si sono visti tanti fiori – condivisioni di esperienze personali e dei propri carismi – ma si è visto soprattutto il giardino: giovani insieme, carismi insieme, fatti uno dall’amore. Questo dà gioia e speranza.

venerdì 18 settembre 2015

L'ecumenismo della vita consacrata


“Nei miei molti anni di insegnamento ho seguito innumerevoli lavori e tesi sui vostri fondatori e fondatrici. Ogni studente si premura di mostrare che il proprio è stato un anticipatore del Concilio Vaticano II, ha precorso i tempi, ha creato cose nuove, ha vissuto controcorrente rispetto alla società del suo tempo, ha osato iniziative che nessuno allora si sarebbe sognato di compiere. Ciò mi ha dato sempre gioia sia perché ho potuto costatare l’azione dello Spirito che è creativo per natura, sia perché ho visto giovani religiosi e religiose entusiasti dei propri fondatori. Ma ho anche sempre rivolto loro una domanda: e adesso, nel tuo Istituto vi è la stessa audacia e creatività, si precorrono i tempi come allora? E tu, continuo interpellando lo studente, hai la stessa visione profetica del tuo fondatore o della tua fondatrice?”
È quanto ho detto verso la fine della mia relazione - “Passer dans le monde en faisant le bien. Être des instruments de l'amour de Dieu” - al terzo giorno del congresso dei consacrati. Un’assemblea impressionante che ormai ha raggiunto le 6.000 presenze e che oggi in sala è esplosa in una festa spontanea che siamo riusciti a contenere con difficoltà.

Ho parlato assieme ad Andrzej Wodka, preside dell’Istituto Alfonsianum di Roma e a Maria Inés Vieira Ribeiro, presidente dell’Unione dei religiosi e religiose del Brasile, amici di vecchia data.
Uno dei presenti ha fatto giungere sul tavolo della presidenza un biglietto con scritto: “Vorrei ringraziarvi perché in questi giorni ho ascoltato un linguaggio riferito alla vita consacrata più evangelico ed ecclesiale: incontro, vicinanza al popolo, prossima…”.
Ho terminato offrendo alcune linee per il futuro. Una di queste, che ha avuto profonda reazione, è stata: “Occorre mettersi insieme per concertare le risposte da dare e le iniziative da intraprendere. Questo non soltanto all’interno dei singoli istituti di vita consacrata, ma in una comunione tra tutti gli istituti, perché le sfide oggi sono tali che un istituto non può presumere di rispondere da solo in maniera adeguata. Dobbiamo lasciare che lo Spirito Santo circoli tra di noi e ci indichi il cammino da percorrere. Possiamo sognare una nuova ecumene tra i e le giovani consacrate e consacrati”. Il congresso di Roma è già esperienza di ecumene.


giovedì 17 settembre 2015

Il papa conquista i giovani religiosi


“Alcuni giorni fa, in Piazza, un sacerdote iracheno si è avvicinato e mi ha dato una croce piccola: era la croce che aveva in mano il sacerdote che è stato sgozzato per non rinnegare Gesù Cristo. Questa croce la porto qui…” e ha portato la mano al petto. Così papa Francesco questa mattina ha iniziato il suo dialogo con i giovani religiosi nell’Aula Paolo VI.
Poi ha chiesto che gli venissero rivolte alcune domande. Dopo la prima il papa ha chiesto al giovane che l’aveva posta, come si chiamava e da dove veniva. Era un giovane salesiano, Pierre, e veniva proprio dalla Aleppo, in Siria. Il papa allora si è alzato ed è andato verso di lui per abbracciarlo.

Poco prima avevo parlato con Pierre e gli avevamo chiesto di presentare al papa una domanda. Era venuto a Roma portandosi con sé un proiettile dei tanti che assieme alle schegge delle bombe cadono nel cortile dell’oratorio. Gli sarebbe piaciuto darlo al papa, come segno della tragedie che vive il suo popolo, ma mai avrebbe immaginato che davvero avrebbe potuto avvicinare personalmente il papa (anzi, il papa si è avvicinato a lui!) e consegnarli quella “reliquia”.
Nelle risposto il papa a raccontato alcuni episodi toccanti, come quello delle suore coreane giunte in un ospedale della sua diocesi di Buenos Aires, che senza conoscere una parola di spagnolo di conquistano l’affetto degli ammalati; o come un amici “mangiaprete” di suo papà “convertito” da una suora che per un mese accudisce la sua famiglia in un periodo di difficoltà.
Più che quello che dice ciò che tocca del papa e come lo dice e i gesti che compie.


mercoledì 16 settembre 2015

Nell'aula Paolo VI come una matita nelle mani di Dio



All’offertorio della messa per il funerale di Madre Teresa di Calcutta, Suor Virmala, che le era succeduta alla guida delle Suore della Carità, portò un cuscino con sopra un matita. Sì, una matita soltanto, perché Santa Teresa di Calcutta diceva di sé: «Sono come una piccola matita nelle Sue mani, nient'altro. È Lui che pensa. È Lui che scrive. La matita non ha nulla a che fare con tutto questo. La matita deve solo poter essere usata». Era stato Dio a scrivere la sua meravigliosa storia di santità, disegnare le famiglie religiose da lei fondate e l’opera immensa di carità che dall’India si è irradiata nel mondo intero.
Anche una sua carissima amica, Chiara Lubich, all’origine di un vasto movimento ecclesiale, si riteneva semplice strumento di Dio: «La penna – diceva – non sa quello che dovrà scrivere. Il pennello non sa quello che dovrà dipingere. Lo scalpello non sa ciò che dovrà scolpire. Così, quando Dio prende in mano una creatura, per far sorgere nella Chiesa qualche sua opera, la persona non sa quello che dovrà fare. È uno strumento».

Pochi anni prima di loro il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia paolina, si esprime in maniera simile: «Don Alberione – afferma parlando di sé – è lo strumento eletto da Dio per questa missione per cui ha operato per Dio e secondo l’ispirazione e il volere di Dio».

È stato il mio esordio, questa mattina, nell’aula Paolo VI in Vaticano, davanti a 5000 giovani religiosi e religiosi (il numero è lievitato!).
Anch’io mi sono sentito una matita nelle mani di Dio. Come avrei mai potuto immaginare che avrei parlato a così tante persone e in un luogo così prestigioso?
È un evento straordinario quello a cui sono chiamato a partecipare.
La diffusione live, via streaming, in cinque lingue, ci proietta nel mondo intero.

Ho concluso ponendo una domanda:
Siamo aperti a porre la nostra vita nelle mani di Dio, con piena fiducia?
Possiamo dirgli con sincerità: “Usa della mia vita come vuoi, per quello che vuoi”?
Siamo convinti che il piano di Dio su ciascuno di noi è infinitamente più grande e appagante di quello che noi possiamo sognare e desiderare?

Ci si può arrendere a Dio soltanto dopo aver sperimentato il suo amore. Allora ci si può fidare ciecamente di lui e abbandonarsi, come una matita, un pennello nelle sue mani di Artista perché, con la nostra vita, egli scriva la più bella poesia, dipinga un’opera d’arte, componga il suo capolavoro.

martedì 15 settembre 2015

Giovani religiosi a Roma


Questa sera, in piazza san Pietro, il via al convegno che vede radunati più di 4000 giovani religiosi e religiose del mondo intero (tra cui Iran, Filippine, Costa d’Avorio, Zimbabwe…). 
C'è già aria di festa, è come ci conoscessimo già da tanto tempo. Un evento organizzato dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica per l'Anno della vita consacrata.

-  Ogni mattina incontro nell’Aula Paolo VI in Vaticano per ascoltare e riflettere sui temi della vocazione, della vita fraterna e della missione;
- il pomeriggio raduni per gruppi (111 !) in diverse parti di Roma per momenti di dialogo e condivisione;
- la sera differenti itinerari: il cammino dell’annuncio (notte missionaria al centro di Roma), il cammino dell’incontro (itinerari con alcune organizzazioni socio-ecclesiali: Caritas, Comunità di S. Egidio, Talitha Kum), il cammino della bellezza (visite guidate ai Musei Vaticani e alla Cappella Sistina).
Riusciranno a testimoniare la bellezza della loro vocazione?
E noi relatori, sapremo innamorarli della loro vocazione?


lunedì 14 settembre 2015

Oggi con me in paradiso: che promessa!

Zdenek Cizkovsky, OMI (+ 2004)
Casa generalizia, Roma
Festa dell’Esaltazione della Croce
Ogni giorno migliaia di persone passano su quello sperone di roccia, si prostrano carponi sotto l’altare e introducono la mano nel foro dove fu piantata la croce di Cristo. È difficile, ora sommerso da sovrastrutture secolari, immaginare com’era duemila anni fa quel luogo di supplizio. Erano tre, quel giorno, inchiodati sul patibolo. Sentirono il centurione che, in latino, in greco, in ebraico, leggeva la sentenza di condanna di uno di loro che si era proclamato re dei Giudei. Uno degli altri due rise e con sarcasmo lo insultò: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi”. L’altro lo riprese, facendogli notare che loro due meritavano quel supplizio, perché due delinquenti, ma lui, il Re, non aveva nessuna colpa, era condannato ingiustamente, era innocente”. Rivolgendosi poi a Gesù gli rese atto della sua regalità: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Aveva preso sul serio l’iscrizione vergata dal procuratore, Ponzio Pilato.
Come faceva a riconoscere in quell’uomo flagellato, coronato di spine, sfigurato, beffeggiato, un re? Che razza di Messia poteva essere se non era capace neppure di salvare se stesso? Cosa aveva di regale Gesù, in quel momento? Eppure il brigante lo tratta davvero da re. Forse per il suo comportamento. Si prende cura della folla e dei soldati, li scusa e chiede per loro il perdono. Pensa alla madre e, perché non rimanga sola, l’affida al discepolo amato. Pur sentendo la sete e l’abbandono di Dio, per nel suo alto grido di dolore, quell’uomo sulla croce pensa ancora agli altri. Era questo che impressionava il ladrone crocifisso con lui e subito dopo il centurione che l’aveva crocifisso.
La tradizione ci ha ricamato sopra. Il Vangelo arabo dell’infanzia, dà un nome ai due banditi, Tito il buono (il Vangelo di Nicodemo lo chiama invece Disma e la tradizione ortodossa Rakh) e Dumaco il cattivo. Briganti nati, avrebbero assaltato la santa Famiglia durante la sua fuga in Egitto, ma Tito si era commosso a vedere il bambino e lo difende da Dumaco.
Ma lasciamo le storie fantasiose e torniamo a quel crudo momento della crocifissione. “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Lo chiama per nome, come non aveva fatto nessun altro dei molti personaggi quel giorno presenti al processo e sul luogo del patibolo. Lo chiama per nome, segno di umanità, di affetto, di vicinanza. E insieme gli parla del suo regno, riconoscendone la dignità, la capacità di riscatto e di salvezza.
Gli giunge così la più bella delle promesse fatte da Gesù nel Vangelo: “Oggi sarai con me in paradiso”. Neanche Gesù entra da solo in paradiso…