martedì 28 febbraio 2017

La gioia della Quaresima: c'è un dono per me



Leggo sul dizionario che “avere una faccia da quaresima” significa “essere patito, scarno, emaciato”, ed è sinonimo di “faccia da funerale”.
Ieri sera, all’incontro di comunione della nostra comunità, ho visto tante “facce da quaresima”, ma di altro tipo: sprizzavano gioia! Erano tutti contenti di poter iniziare questo tempo di conversione e di grazia. Si avvertiva il desiderio di ricominciare, come ci venisse offerta un’opportunità a lungo attesa. Un voltar pagina per truffarsi con nuovo impegno e con tutte le forze nel cuore del mistero cristiano: la passione, la morte, la risurrezione di Gesù.
Mi sembra la disposizione adeguata per accogliere il messaggio che papa Francesco ci ha inviato per la Quaresima di quest’anno:

“La Quaresima è un nuovo inizio, una strada che conduce verso una meta sicura: la Pasqua di Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E sempre questo tempo ci rivolge un forte invito alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio «con tutto il cuore» (Gl 2,12), per non accontentarsi di una vita mediocre, ma crescere nell’amicizia con il Signore. Gesù è l’amico fedele che non ci abbandona mai, perché, anche quando pecchiamo, attende con pazienza il nostro ritorno a Lui e, con questa attesa, manifesta la sua volontà di perdono”.

Papa Francesco invita a rimettere al centro della Quaresima la Parola di Dio che “in questo tempo siamo invitati ad ascoltare e meditare con maggiore assiduità”. In particolare consiglia di meditare sulla parabola dell’uomo ricco e di Lazzaro che giace alla porta del ricco e mangia le briciole che cadono dalla sua tavola. Il ricco non ha neppure un nome, mentre il povero ci è familiare, sappiamo tutti come si chiama, Lazzaro. Eppure al suo tempo il ricco aveva un nome, anche nel senso che era famoso, mentre Lazzaro era solo un povero ammalato mendicante anonimo.

“Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze – commenta il Papa – non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo”. Ecco il peccato: pensare solo a se stessi, vedere solo se stessi ed essere ciechi al punto da non accorgersi neppure dell’altro, dei suoi bisogni: “il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione”.


“Lazzaro – continua il Papa – ci insegna che l’altro è un dono... Il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto. La Quaresima è un tempo propizio per aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di Cristo. Ognuno di noi ne incontra sul proprio cammino. Ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza, rispetto, amore”.

È l’invito a guardare con gli occhi di Dio. Allora le cose si capovolgono. Nel secondo quadro della parabola il ricco non è niente, la sua miseria appare in tutta la sua crudezza, mentre Lazzaro è come un signore nella reggia, nel seno di Abramo.

La risposta di Abramo al ricco, che chiede che qualcuno vada dai suoi fratelli a mostrare loro come stanno realmente le cose – “Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro” –, fa emergere il vero problema del ricco: “la radice dei suoi mali è il non prestare ascolto alla Parola di Dio; questo lo ha portato a non amare più Dio e quindi a disprezzare il prossimo. La Parola di Dio – conclude il Papa – è una forza viva, capace di suscitare la conversione nel cuore degli uomini e di orientare nuovamente la persona a Dio. Chiudere il cuore al dono di Dio che parla ha come conseguenza il chiudere il cuore al dono del fratello”.

Quaresima, tempo favorevole per rinnovarsi nell’incontro con Cristo vivo nella sua Parola, nei Sacramenti, nel prossimo dono di Dio per noi.


lunedì 27 febbraio 2017

I 90 anni di Tommaso Campagnuolo



Padre Tommaso Campagnuolo ha compiuto 90 anni. Un uomo schivo, sempre sereno, positivo, che continua a lavorare a tempo pieno, in un servizio silenzioso e fedele.
Oblati e parrocchia del SS. Crocifisso di Roma la settimana scorsa si sono raccolti attorno a lui per ringraziarlo e fare festa insieme. C’è anche il superiore generale, con le sue brevi e belle parole:

La vita è un dono prezioso, che non possiamo mai dare per scontato. Ogni giorno è un dono di Dio. Quanti doni ha ricevuto il padre Tommaso da Dio durante questi novant’anni! Credo che ne abbia ricevuti 32.872 (trentaduemila ottocento settantadue)! E ciascuno di questi giorni è stato un continuo messaggio d’amore per lui da parte di Dio.
Mi unisco a tutti voi per ringraziare Dio per la vita di padre Tommaso e per i 65 anni come sacerdote Oblato. Non posso immaginare quante volte padre Tommaso abbia celebrato l’Eucaristia o quante confessioni abbia ascoltato! Quanti bambini abbia battezzato, quanti matrimoni abbia benedetto, a quante persone hai dato la sacra unzione! La tua vita è stata, nelle mani di Dio, uno strumento molto utile con il quale Egli ha potuto toccare tanta gente. Grazie per la tua fedeltà lungo tutti questi anni!
Che vita meravigliosa, e come è stata vissuta in pienezza come risposta alla chiamata di Dio! Ringraziamo padre Tommaso che ha risposto alla chiamata di Dio con generosità e disponibilità al servizio del Regno e della Missione. Congratulazioni, caro Padre! Che tu possa scoprire ancor più profondamente quanto sei amato da Dio, da noi tutti, dai tuoi fratelli Oblati e dal popolo di Dio! Congratulazioni in questo compleanno speciale e in questo anniversario!

Padre Tommaso rimane comunque un giovincello davanti a Fratel Giuseppe D'Orazio che, a casa nostra, ha appena festeggiato 97 anni!
Auguri ad entrambi.


domenica 26 febbraio 2017

sabato 25 febbraio 2017

A cuor leggero

  

Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo… Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. (Mt  7, 24-34)

Spensierati. Così ci vuole Gesù, come i bambini che sanno che a tutto pensano i genitori. Impegnati nel lavoro, certamente, perché questo è un suo comando. “Chi non vuol lavorare neppure mangi”.
È difficile trovare lavoro, costa mantenere la famiglia. Dobbiamo fare tutta la nostra parte...
Impegnati, ma non preoccupati.
Se poi abbiamo i mezzi di sostentamento per noi, non possiamo adagiarci tranquilli, dobbiamo adoperarci per chi non ne ha. Per questo non c’è modo di arricchirsi; se abbiamo in più è per chi non ha.

Il cuore deve essere libero per Dio. Ha consegnato il mondo nelle nostre mani, fin dagli inizi, non perché ce ne appropriassimo, ma per portarlo a lui. Per lui lavoriamo, per lui viviamo, con passione e creatività, con tutte le nostre forze. Ci immergiamo nelle realtà sociali, civili, economiche, familiari per orientare tutto a lui, perché si compia il suo progetto d’amore su tutti e su tutto, perché ogni realtà umana sia informata dal divino, trasformata in amore e regni tra noi la fraternità e la comunione. Ci vuole interamente dediti al tuo Regno.
E per il resto? “Non preoccupatevi”. C’è chi pensa a noi, il Padre.
Se credessimo davvero a queste parole! Se sentissimo la presenza del Padre accanto a noi nel cammino della vita e non vivessimo più come degli orfani, soli e abbandonati! Se davvero avessimo fiducia nella sua provvidenza che giorno per giorno ha cura di ognuno di noi! Si ci abbandonassimo al suo amore… Non è questo il Regno di Dio che siamo inviti a cercare? Vivere il Vangelo sarebbe la soluzione ai problemi economici e sociali.
Perché allora non crediamo alla sua parola?


venerdì 24 febbraio 2017

Parola di Vita: passo il testimone a Letizia Magri


Marzo 2017: Il commento alla Parola di Vita non porta più la firma di Fabio Ciardi, ma di Letizia Magri, sposata, con due figli. Aria nuova!
Bella la presentazione che Victória Gomez ha preparato per questo passaggio di testimone:

«Se per ipotesi assurda tutti i vangeli della terra venissero distrutti, noi desidereremmo vivere in modo tale da riscrivere il Vangelo con la nostra vita» (Chiara Lubich). Questa convinzione, anche esigente, ha accompagnato la vita di quanti si sono avvicinati in vario modo al Movimento dei Focolari fin dai suoi inizi, quando, per gli effetti della Seconda Guerra mondiale, «tutto crollava». Si viveva con particolare attenzione una “Parola” alla volta, era la “veste” che s’indossava svegliandosi. La si portava in cuore e la si applicava ogniqualvolta era possibile.

Chiara Lubich, l’ha testimoniato infinite volte, narrando storie affascinanti di frutti, scoperte, effetti. Capovolgimenti personali e collettivi che non dubitava definire “rivoluzioni”.  
«Entrare nel Vangelo», tradurlo in pratica, incarnare una parola dopo l’altra per «rievangelizzarsi». Una dinamica che aveva e ha uno scopo chiaro: diventare «un altro piccolo Gesù che passa sulla terra». Qui sta il fascino e il perché. Oggi come ieri.  

Qui sta la ragione di una prassi che si riscontra ancora oggi nel Movimento dei Focolari: continuare ad offrire su molte parole della Scrittura, a senso compiuto, un commento che, stampato in circa 90 lingue e idiomi raggiunge in vario modo milioni di persone. Perché «il mondo ha bisogno di una cura di Vangelo», ne era convinta anche Chiara, che assicurava che basterebbe una parola per santificarci, per essere un altro Gesù. E tutti la posiamo vivere, di qualunque vocazione, età, sesso, condizione noi siamo, perché Gesù è Luce per ogni uomo che viene in questo mondo.
Questo è l’unico scopo del foglietto “Parola di Vita” che porta un commento a una frase della Scrittura che spesso ci troviamo tra le mani. Anche questa prassi, pedagogica per così dire, ha radice nel tempo di fondazione del Movimento dei Focolari. Su di essa però Chiara avvertiva con forza: «Non bisogna vedere chi la commenta ma ciò che è commentato»: la Parola, “lampada per i miei passi” e “luce sul mio cammino”».

Oggi tale commento porta via via firme diverse e nasce dallo scambio e dalla riflessione comune di un gruppo di persone, diverse per età, formazione, cultura, origine, che mettono e rimettono la Parola al centro della propria vita. Una sorta di laboratorio da cui uno dei presenti raccoglie il frutto di questa comunione e stila il testo -  in questo momento lo fa Letizia Magri - alla luce della spiritualità di comunione e dell’esperienza che di essa i membri dei Focolari fanno. Ne viene, in pratica, un suggerimento e un contributo destinato a chiunque per aprire la porta alla Parola e, già dall’atrio, far sentire il suo profumo.

«Vivere, vivere, vivere la Parola» era la passione di Chiara trasmessa a molti. Passione che in forza della sua spiritualità collettiva le faceva dire: «A noi non basta viverla per conto proprio. No: è necessario comunicarci poi reciprocamente tra fratelli le nostre esperienze» su di essa.  In questa maniera, continuava, ci si evangelizza non solo per lo sforzo personale nel viverla, «ma per accogliere in sé la luce e l’esperienza dell’altro». Risultato? Evangelizzarci come singoli e come comunità, essere «sempre più Gesù, singolarmente e collettivamente». E dove Gesù vive, anche attraverso di noi, il mondo riceve luce e trova la forza di trasformarsi.


giovedì 23 febbraio 2017

Lutero, un romanzo affascinante


500 anni fa le 95 Tesi di Lutero diedero inizio a quella che oggi si chiama la Riforma "luterana".
Figura complessa e anche contraddittoria, quella di Lutero.
La socievolezza del carattere, la generosità verso i poveri e verso tutti, l’intelligenza acutissima, l’amore per la musica e la poesia, il senso dell’amicizia, l’abilità dialettica e comunicativa, lo sguardo magnetico, affascinavano chi lo incontrava.
Nello stesso tempo, convivevano in lui una mancanza di diplomazia, una spontaneità che poteva degenerare in rudezza e in violenza verbale eccessiva.
Autentica la ricerca di Dio, la passione per il Cristo e la sua parola, insieme a un forte senso della propria debolezza, del peccato e una totale fiducia nel Dio misericordioso.
È passato attraverso illuminazioni e depressioni, prove fisiche e tormenti spirituali, sino alla fine della vita.

Mario Dal Bello ne ha raccontato la storia con la sua solita capacità narrativa. Nella collana “Misteri svelati”, ho letto altri due suoi libri: La leggenda nera. I Borgia e Gli ultimi giorni dei Templari.
Adesso ho appena terminato Lutero. L’uomo della rivoluzione.
Al pari dei precedenti, è un romanzo storico, appassionante, che fa scoprire la complessità di questo carismatico, collocandolo nel difficile mondo del suo tempo.
La sua vita si conclude con una semplice parola rivolta a Dio: “Siamo dei mendicanti. È vero”.
È vero.


mercoledì 22 febbraio 2017

Parva Congregatio, l’anti trionfalismo



In questo periodo penso ad una espressione che torna spesso sotto la penna di sant’Eugenio: Parva Congregatio. Egli parla di “piccola e umile Congregazione”, “piccola comunità”, “la nostra piccola famiglia”, “la nostra piccola, povera e modesta società”.
La celebrazione del secondo centenario della nascita degli Oblati, al pari di quella del primo centenario, ha messo in luce i successi, le opere realizzate dalle origini ad oggi. Di questi ci siamo gloriati e abbiamo reso grazie a Dio.
L’apostolo Paolo ci insegna a gloriarci delle nostre debolezze. Davanti alla preghiera perché gli venga tolta la “spina” nella carne, si sente rispondere:
«La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte (2 Cor 12, 7-10).
Perché anche noi non vantarci delle nostre debolezze?
  
Metà del primo gruppo ha lasciato la comunità dopo poco tempo dagli inizi. Il più delle volte sant’Eugenio si dice contento della regolarità e della carità che regna nelle comunità, eppure lungo tutta la sua vita si è spesso lamentato della poca regolarità di certuni, degli egoismi, le gelosie, i caratteri difficili… Espulsioni e abbandoni hanno trovato qui le loro motivazioni.
Nel 1830 scriveva al maestro dei novizi:
Oh! Come mi addolorano le piccole dispute tra fratelli… So che si cerca di sanare al più presto queste ferite fatte alla carità; ma non si dovrebbe neanche cadere in queste mancanze che turbano sempre una virtù che noi dovremmo possedere al più alto grado. Raccomando molto loro di ingegnarsi a sradicare quelle piccole antipatie che intaccano il cuore…
Nel 1849, riguardo a due Oblati che non andavano d’accordo tra di loro, scriveva:
Sono stato dolorosamente colpito nel capire che i due giovani Padri non vanno d’accordo come conviene a due bravi fratelli, specialmente quando si trovano lontani dal loro padre comune. No, questo non lo posso sopportare. Che peso ha la differenza di carattere quando si deve avere un cuor solo e un’anima sola?... Conservate rigorosamente la più grande unione tra i fratelli e la carità regni sempre in mezzo a voi.

Quando si confrontava con sant’Ignazio e i Gesuiti, gli veniva voglia di sparire dalla faccia della terra:
Mi congratulavo col loro fondatore per le meraviglie che aveva operato; ma quanti aiuti gli vennero a questo scopo! (…)
Ma, confessiamolo, da quali uomini fu favorito. Fin dai primi anni che si riunirono in comunità, si sarebbe potuto dire di ciascuno di essi che lavorava più di lui. Non parlo solo dei primi compagni, parlo di coloro che si aggregavano ad essi appena conosciutili. (…) La sua Compagnia fu sin dall'inizio un esercito di generali. Dopo di ciò che c'è da meravigliarsi per quanto hanno fatto! (…) Vediamo nulla di simile attorno a noi? Si devono formare a fatica alcuni giovincelli di cui la maggior parte non giunge a imbeversi delle grandi idee che dovrebbero innalzarli sopra tutto ciò che li circonda; non c'è uno che possa fornire qualcosa di proprio, aggiungere una pietra all'edificio che bisognerebbe costruire insieme. Tristi tempi, influsso detestabile del secolo sulle intelligenze! (…) anime fredde e senza vigore... (…) Ho finito per domandare al Signore di togliermi da questo mondo se io non devo fare altro (di meglio) di quel che ho fatto.


Il primo Oblato irlandese, che ha aperto la strada per la fondazione nelle Isole Britanniche, fu espulso per questione economiche.
Altri se ne sono andati consapevoli di non essere fatti per la vita comunitaria, come p. Alessandro Dupuy, che nel 1825 scriveva al fondatore:
Sono portato a credere che siete deciso a congedarmi, sia a causa dei cattivi esempi che do in comunità, sia perché siete intenzionato a liberare la vostra comunità di quei mezzi religiosi che potrebbero nuocere al bene della comunità. Questo pensiero mi ha profondamente addolorato; non trovo consolazione. Mi sono lamentato con Dio perché in questo modo, purtroppo, sono un ostacolo e una pietra di scandalo. Mi riconosco indegno di vivere in una santa così casa e in compagnia di santi… Carissimo e amatissimo Padre, tutti i vostri figli vi danno mille volte più consolazioni di me… sono la sola pecora smarrita.
Nel 1830 p. Dupuy chiese di lasciare la Congregazione perché non si sentiva in grado di vivere in pace in comunità. Il Consiglio Generale accettò la sua partenza con queste parole: «Non può essere costretto a vivere la vita comune. Sarebbe un grande inconveniente se continuasse a far parte della Congregazione, visto [anche] che il suo carattere singolare e molto originale potrebbe avere un effetto negativo sulle nostre comunità…».

Nelle Lettere dei superiori generali tornano sovente le lamentele per l’inosservanza della Regola, gli individualismi, soprattutto nel campo missionario, i nazionalismi. Nel Rapporto al Capitolo del 1887 padre Fabre, primo successore di de Mazenod, scriveva ad esempio:
Nelle Province del Canada e degli Stati Uniti dobbiamo temere gli effetti di un nazionalismo esagerato che crea partiti, nuoce all’unione degli spiriti e dei cuori, e altera più o meno quello spirito di famiglia qui deve essere nostro in maniera speciale. Non siamo solo dei missionari, noi formiamo una congregazione, siamo religiosi, siamo Oblati di Maria. Come Congregazione, non c’è più lo spirito di corpo che si trova altrove e che costituisce la forza di un Istituto. Troppo spesso troviamo l’egoismo personale, locale, provinciale… Tuttavia abbiamo in Famiglia tutto ciò che occorre per conservare lo spirito di corpo, d’obbedienza, di carità.

Ma anche nelle missioni, accanto a tanto eroismo, quanti fallimenti! Le missioni tra gli Zulu e gli Esquimesi hanno conosciuto anni e anni di fallimenti. Abbiamo avuto problemi addirittura con i superiori maggiori: un superiore generale ha dovuto dare le dimissioni per una crisi finanziaria, un altro per ragioni personali.
Attualmente, alle varie difficoltà, si aggiunge la diminuzione dei membri dell’Istituto, in caduta libera, per l’invecchiamento, gli abbandoni, il calo delle vocazioni.

Parva Congregatio. Sì, siamo pochi, piccoli, fragili, con tanti sbagli e fallimenti…
Vale per ogni singola persona, per le comunità, le famiglie, i gruppi…
È un invito all’umiltà, a porre la nostra fiducia nella misericordia di Dio, nella sua grazia.
Mi vanterò delle mie debolezze.
Ti basta la mia grazia!
Quando sono debole, allora sono forte.


martedì 21 febbraio 2017

Una barca nel bosco, un libro per pensare


Ho conosciuto Paola Mastrocola attraverso le “Paginette” che scrive mensilmente sul domenicale del “Sole 24 ore”. Mi ritrovo spesso nelle sue annotazioni, anche perché abbiamo più o meno la stessa età.
Ho letto il suo libro La passione ribelle, una dura ironica denuncia del mondo della scuola italiana, che a tutto sembra dedita meno che a far studiare.
Ho appena terminato di leggere un suo romanzo, Una barca nel bosco, dove il tema è lo stesso, non a forma di saggio come il precedente, ma rivisitato attraverso la storia di un ragazzo che dalle Isole Egadi, sbarca a Torino per il liceo e l’università.
Mi ha introdotto nel mondo della scuola di oggi, soprattutto in quello magmatico degli adolescenti e oltre. Ma il romanzo va più in là, facendosi storia di una incapacità di adattamento. L’unica persona con il quale il protagonista entra in una vera relazione d’amicizia, Furio, è un “avulso” come lui; al giovane che assume come garzone nel suo bar affibbia il nome di Flop, un “flop umano, un mezzo fallimento della specie”; della ragazza che forse entrerà definitivamente nella sua vita, Gemma, si sa solo che fa le crostate e ha le gambe bellissime, non una parola di più. Gaspare Torrente, il protagonista, è proprio un isolato. Non a caso il libro è dedicato “A tutti coloro che amano le isole o che sono, essi stessi, un’isola”. (Sulla copertina de La passione ribelle sia disegnato un omino abbarbicato su uno scoglio)
Gaspare, che per un certo periodo tenta disperatamente di adattarsi e di darsi una identità alternativa (si fa chiamare Felix), è e rimane “una barca nel bosco”, come lo definisce la simpatica zia Elsa; io, meno poeticamente, avrei detto “un pesce fuor d’acqua”. L’effetto è assicurato dal racconto in prima persona che rinserra ancora di più su se stesso.
Il romanzo inizia con l’immagine della barca – il mondo di origine, l’isola, il padre pescatore – e si conclude con un bosco non più metaforico: la casa di Gaspare si è trasformata in un bosco reale (o surreale)…
O meglio, le ultimissime battute tornano alla barca: benché il papà sia morto e lui non andrà mai a vivere sull’isola, Gaspare decide di non vendere la barca paterna: lei rimarrà sul mare di Sicilia, lui nel bosco di Torino.
Non manca il sottile filo d’ironia, cifra di Mastrocola, che sottende l’intero romanzo. Soprattutto non manca la costante provocazione a pensare… e non è poco!


lunedì 20 febbraio 2017

P come pavone




Ieri sul blog ho postato, tra l’altro, la foto di uno dei tanti pavoni che popolano il parco del Salesianum.
Oggi quel pavone è stato trasfigurato da una bambina di prima elementare alle prese con la lettere Qu (quercia) e P (pavone!), che ha fatto assurgere la mia foto a opera d’arte: un pavone sotto la quercia.
Dipingete, gente, dipingete…


domenica 19 febbraio 2017

Cinque modalità della carità-comunione


Il parco del Salesianum, sulla Pisana, ha costituito una tentazione durante tutto il convegno: un invito costante a disertare le riunioni per immergersi nella distesa senza fine di tra pini, lecci, olivi… Confesso che ho ceduto più volte alla tentazione: una natura troppo bella con un sole quasi primaverile. Il convegno COMI è comunque riuscito molto bene, anche con l'intervento del Superiore generale, vicario generale, provinciale...
Venti anni fa, dal 2 al 5 gennaio 1997, si era tenuto un convegno analogo, sullo stesso tema del dialogo e della comunione. Allora, al termine, Padre Liuzzo fede una conclusione memorabile. Tra l’altro indicava cinque modalità della carità-comunione che ho ripreso e commentato:


1) amore di compiacenza: che mi crea "gioia e quasi orgoglio per i doni dell'altro" (S. Eugenio). È una cartina di tornasole: gioisco o sono gelosa?;
2) amore di benevolenza: auguro e desidero per ogni sorella ogni successo e ogni benedizione di Dio per la sua anima, il suo lavoro, i suoi impegni. Nel mio cuore non c'è posto neppure per l'indifferenza (= disamore);
3) amore di condiscendenza: non mi defilo per falsa umiltà di fronte a nuovi compiti o spostamenti; li assumo in spirito di servizio a Cristo;
4) amore di condoglianza che sfiora la tenerezza: carità tenera (S. Eugenio);
5) amore di riverenza vedendo Cristo nell'altra e giungendo alla preve­nienza delicata. Riverenza e provenienza chieste da S. Eugenio ai novizi.


sabato 18 febbraio 2017

Perfetti come il Padre


Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 38-48)

Gesù ci invita ad essere perfetti come il Padre. Com’è possibile a degli uomini, fragili, piccoli, finiti, essere come Dio infinito? “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”, era già stato chiesto nel libro del Levìtico. Si può essere come Dio?
Gesù non chiede di essere creatori come lo è il Padre, non onnipotenti come lui. Chiede, e forse è molto di più, di essere amore come lui è Amore. Questa la perfezione di Dio, la sua santità: Dio è Amore. Questa la nostra perfezione, la nostra santità.
Tanto è onnicomprensiva questa parola, amore, altrettanto può essere svuotata di senso e banalizzata. Cosa vuol dire amare? Proprio perché Gesù è Amore ce lo spiega nel Vangelo di oggi, con parole semplici.

L’amore presuppone la giustizia, ma anche la supera infinitamente. Quando, nei tempi antichi, la Bibbia insegnava che il risarcimento doveva essere proporzionato all’offesa – “occhio per occhio, dente per dente” –, poneva un freno alla vendetta. Quella lezione non è stata ancora capita e si continuano le rappresaglie, uccidendo dieci per vendicare la morte di uno. Eppure l’amore va al di là della giusta e adeguata riparazione. Se il Padre ci ripagasse con giustizia per i nostri sbagli, chi ci sottrarrebbe al castigo eterno?

Il padre misericordioso, nella parabola dei due figli, non ha ripagato con giusta misura il figlio minore, ha sovrabbondato nel perdono e nel dono: la veste nuova, l’anello, i calzari, il banchetto, la festa… Si meritava tutto questo? Si meritava una giusta punizione, e invece…
Sulla croce Gesù avrebbe potuto benissimo chiamare dodici legioni di angeli per annientare i quattro soldati romani e i suoi persecutori. Invece, icona dell’amore del Padre, ha saputo dire soltanto: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Prima ancora di perdonarli li ha scusati, ha fatto finta che non sapessero: l’amore tutto copre.
L’amore è cieco. Sì, perché il Padre non guarda in faccia nessuno quando fa splendere il sole o quando fa piovere. Non elargisce i doni in considerazione della bontà o meno di quelli a cui sono destinati. L’amore è gratuito, ama perché è dell’amore amare, non perché l’oggetto dell’amore è amabile.

Anch’io, per decidere se amare o meno, non dovrò guardare l’altro, se è buono o cattivo. Dovrà guardare il Padre, Gesù, per imparare come si ama. Nell’amore gratuito, disinteressato e universale, come quello col quale Gesù ha dato la vita, senza distinzione di persone, la nostra perfezione.


venerdì 17 febbraio 2017

Un giorno di ringraziamento con le COMI



Te Deum laudamus…, scrisse sant’Eugenio il 18 febbraio 1826, all’indomani dell’approvazione del suo Istituto, i Missionari Oblati di Maria Immacolata.
Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti ringraziamo per la tua bontà immensa, o Dio Amore, Padre nostro!, scrisse padre Liuzzo il 17 febbraio 1987, all’indomani dell’approvazione del suo Istituto, le Cooperatrici Oblate Missionarie dell’Immacolata.

Oggi ho celebrato la festa del 17 febbraio in maniera un po’ nuova. È il giorno del Ringraziamento: gli Oblati ringraziano Dio per la loro vocazione, che in quel lontano 17 febbraio 1926 fu riconosciuta e approvata dalla Chiesa.
L’ho celebrata con le COMI, riunite a Roma per il loro annuale convegno. Prima di ricevere l’approvazione pontificia, anche loro furono riconosciute nella Chiesa l'11 febbraio, praticamente quando gli Oblati. In circostanza padre Liuzzo, loro fondatore, scrisse: «Siete nate nella Chiesa e per la Chiesa missionaria (…). Ora la Chiesa VI FA Istituto Secolare con finalità missionaria. È la vostra nascita ufficiale e canonica, che vi colloca tra gli Is­tituti di vita consacrata “perle della Chiesa”». Concludeva: «In nome di Dio siamo santi! Altrettanti Cristo!” nuove Marie di Nazareth».

Dieci anni prima, il 17 febbraio 1979, spiegavo il loro nome, fatto di quattro “vere parole di vita” da “meditare, gusta­re e vivere”:
Cooperatrici: la totale dedizione alla Chiesa e la “comunione” filiale e vitale col Papa; il “volto femminile” degli Oblati.
Oblate: totalmente donate, sino al culmine del Cristocentrismo, l’identificazione a Cristo.
Missionarie “mezza misura”: arden­ti, coraggiose, universali.
di Maria Immacolata: un programma di autentica marianizzazione che culmina nell’idea di essere “nuova Maria di Nazaret”.
«La Comi è un DONO totale e lieto a Dio-Amore, una fedelissima che segue Cristo puntando “alle vette e senza lasciar nulla di intentato”, da innamo­rata che vuol identificarsi con Lui, - tutta presa da Lui e dai suoi interes­si salvifici, impregnata di amore alla Chiesa e alle anime più bisognose fatto di dinamismo infaticabile e giovanile, santamente audace, - autentica figlia del B. Eugenio e volto femminile della sua Congregazione, - che vuol rivivere Maria per la gloria e la gioia del Padre e per la salvezza di tut­ti, in un’atmosfera di effusa carità divina e fraterna... Non c’è da esplodere di gioia, di umiltà, di riconoscenza, di entu­siasmo oltre che di totale fiducia in Dio-Amore?».


giovedì 16 febbraio 2017

Una tavola racconta il 17 febbraio 1826


Nascosto in un angolo buio, dietro una imponente scaffalatura dell’Archivio generale degli Oblati a Roma, si cela un piccolo gioiello: una tavola dipinta con colori vivaci. Vi è rappresentato Eugenio de Mazenod che consegna a papa Leone XII la Regola per l’approvazione.
Il giovane Fondatore degli Oblati è in ginocchio davanti al papa, assieme ad un altro Oblato, presumibilmente il suo primo compagno. Alla sinistra del papa benedicente il cardinale Pacca, che tanto ha fatto perché la Regola venisse approvata. Dall’altro lato due monsignori, che non mancano mai attorno a un papa…
Una ricostruzione scenica di grande effetto, che però non risponde alla realtà. Sant’Eugenio era stato in udienza dal papa due mesi prima, in maniera molto più dimessa. Quando all’altro Oblato… sta a indicare la vicinanza morale di padre Tempier, che ha seguito con grande affetto Eugenio, ma rimanendo a Marsiglia. Eugenio a Roma ha vissuto sei mesi da solo, lavorando perché la sua Regola fosse approvata. Fa comunque un bell’effetto, a mani giuste, come per assecondare il Fondatore con preghiera, premura e partecipazione; dicono che l’artista vi abbia ritratto padre Luigi Rossetti, ancora giovane studente al tempo della composizione del quadro. Quanto al cardinale, vi è ritratto il superiore generale degli Oblati dell’epoca, Dontenwill, che era arcivescovo.
La tavola sembra databile al 1926, un anno memorabile per gli Oblati; si celebravano appunto i 100 anni dell’approvazione delle Regole degli Oblati da parte di papa Leone XII. Abbiamo un volume della rivista “Missions”, di quasi 500 pagine, che racconta le celebrazioni tenute per l’occasione nel mondo intero.

In particolare il 17 febbraio 1926 segnò il momento culmine della festa; fra l’altro quel giorno fu chiesto ufficialmente al vescovo di Marsiglia di iniziare l’iter per la beatificazione del Fondatore, mons. de Mazenod. Quell’anno si celebrò anche il 21° Capitolo generale per adeguare le Regole, approvate 10° anni prima, al nuovo Codice di diritto canonico promulgato poco prima nel 1917. Fra l’altro il Capitolo decretò: «Il 17 febbraio di ogni anno sarà celebrato l’anniversario della conferma dell’Istituto e l’approvazione delle Regole e Costituzioni da parte del nostro padre, papa Leone XII».
Nell’archivio non ho trovato tracce documentarie di questo quadro, ma da una foto d’epoca appare che si tratta di un particolare di una tavola molto grande, alta almeno quattro metri, nella quale non soltanto si raccontava dell’approvazione, ma si illustrava anche la missione della congregazione in quattro quadri raffiguranti Asia, Africa, Canda, Europa.
Eseguito probabilmente a Roma rimase alla casa generalizia in via Vittorino da Feltre fino al 1950, anno in cui la sede si spostò in via Aurelia. La tavola fu smontata e nel trasloco i quattro quadri raffiguranti le missioni sono spariti.
Rimane la parte più preziosa: quel giovani sacerdote in ginocchio davanti al papa da cui riceve la benedizione per la sua piccola famiglia: allora erano soltanto in 22 (ne conserviamo le firme). Avrebbe mai immaginato che quella piccola famiglia sarebbe cresciuta tanto da espandersi nel mondo intero?

Il giorno seguente, 18 febbraio, scrisse a padre Tempier e ai suoi a Marsiglia: «Amico carissimo, cari fratelli, ieri sera, 17 febbraio 1826, il Sommo Pontefice Leone XII ha confermato la decisione della congregazione cardinalizia ed ha approvato in forma specifica l’Istituto, le Regole e le Costituzioni dei Missionari Oblati della Santissima e Immacolata Vergine Maria… opera che ora possiamo chiamare divina… Riconoscete la vostra dignità e fate attenzione a non disonorare una Madre che è stata posta in trono e riconosciuta Regina in casa dello Sposo, che la renderà feconda per farle generare numerosi figli, se saremo fedeli e non faremo cadere su di lei con le nostre trasgressioni l’onta della sterilità. In nome di Dio, siamo santi».


mercoledì 15 febbraio 2017

La donna nella botte

Domani inizio il corso di storia della vita religiosa con i novizi e le novizie dei Castelli Romani.
E' sempre un'avventura. Inizierò naturalmente dal deserto...
Non mancheranno "i detti" dei monaci del deserto, pieni di saggezza e anche di ilarità.
Come questo, che ritaglio dal mio libro Koinonia. Narra un episodio pieno di misericordia che ha come autore apa Ammonio:


Doroteo di Gaza, che racconta l'episodio, ne trae l'insegnamento:


martedì 14 febbraio 2017

Non è vero che non sappiamo disegnare




La settimana scorsa sono stato a Castel di Sangro, in Abruzzo, passando per l’Altopiano delle Cinquemiglia, con sosta a Cocullo. Panorama d’incanto, innevato.
È bastato raccontarlo a dei bambini delle elementari perché disegnassero il viaggio, come l’avessero fatto loro: un capolavoro.

Perché i bambini sanno disegnare e poi, appena più grandicelli non si disegna più? D’improvviso non sappiamo più disegnare. Manca forse l’incoraggiamento degli insegnanti, forse subentra la vergogna dello scarabocchio, forse sembra una perdita di tempo, un’attività da bambini…
Il disegno invece libera la creatività, acuisce l’attenzione, custodisce il ricordo, trasfigura la realtà. Può essere anche un modo per pregare…
Non è vero che non sappiamo disegnare. Siamo semplicemente pigri, perdita di interiorità.


lunedì 13 febbraio 2017

Lo Spirito Santo, bellezza di Dio

 

Giovanni Paolo II, in vista del Grande Giubileo dell’anno 2000, aveva invitato tutta la Chiesa ad una preparazione di tre anni, dedicati alla Santissima Trinità, ogni anno a una Persona divina. Il secondo anno, 1998, era dedicato allo Spirito Santo e al suo ruolo nella Chiesa.
Sr. Nazarena De Luca, allora direttrice della rivista “Se vuoi”, mi invitò a scrivere una serie di brevi articoli rivolti ai giovani, sullo Spirito Santo. Ne scrissi sei, essendo la rivista bimestrale.
Fu per me un gioco e una gioia: poter parlare di Lui, del quale quasi mai ho parlato, quale grande occasione.
Li ho raccolti in un libretto, che termina così:

Vorrei essere un pittore per dipingere le innumerevoli immagini che la Bibbia usa per parlare di lui: vento impetuoso che spazza via ogni nube minacciosa e che sconvolge la nostra vita piatta; brezza leggera che nell’afa asfissiante del nostro materialismo porta un soffio di freschezza divina; fuoco che brucia il ciarpame delle nostre vanità e riscalda il gelo dell’egoismo e della solitudine e incendia d’amore e divampa conquistando sempre nuovi popoli all’amore di Dio; acqua che purifica e che dà vita e che disseta nell’arsura dell’ira, dell’odio, della durezza del cuore; nube che ripara dal sole cocente delle passioni; colomba di purezza e di pace, di mitezza e di semplicità; luce che mostra la verità e illumina il cammino; sigillo che imprime in maniera indelebile la novità della vita; pegno della gloria e della pienezza di vita che ci è riservata...
Vorrei essere un poeta per comporre nuovi versi da aggiungere ai canti e agli inni che generazioni di cristiani, in ogni secolo, hanno innalzato in suo onore.
Vorrei, vorrei... forse dico una sola parola: Bellezza! Sì, perché Dio, oltre che Buono, è Bello. «Tu sei Bellezza», cantava a Dio san Francesco.

È bello lo Spirito Santo? Non lo so perché non si vede!
Quello che so è che attorno a me ci sono tante cose belle. Quelle sì le vedo. Mi incantano i colori dei tramonti, la vastità del mare, la dolcezza della luna, la maestosità delle cime. Dio stesso dopo aver creato il cielo e la terra vide che tutto era «bello e buono». La Bibbia dice che anche il sole, mentre appare nel suo sorgere, esclama: «Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo» (Sir 43, 2).
L’uomo e la donna, culmine del creato, sono più belli ancora. Dopo averli plasmati Dio vide che non solo erano «belli e buoni» come le altre cose, ma «molto belli e buoni». «Come sei bella, amica mia», canta lo sposo della sposa (Cant, 1, 15; 4, 1). «Tu sei il più bello tra gli uomini», le risponde la sposa (Sal 45, 3)....
Ma cos’è che fa belle le cose e le persone? Esse sono belle, ma non sono la bellezza. La bellezza è una luce che è dentro di loro, che sprigiona da loro e che, nello stesso tempo, è più grande di loro.
Davanti allo stupore che ci prende contemplando la bellezza della creazione, il libro della Sapienza ci invita ad andare alla fonte stessa della bellezza: se sono belli «il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo», pensa a quando più bello è il loro Signore, «perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13, 3).
Quell’ordine e quell’armonia che tiene in rapporto d’amore tutte le cose, quella luce che da esse si sprigiona e le fa apparire belle, è il sigillo dello Spirito Santo, lui che aleggiava quando tutto fu creato, lui il soffio che tutto tiene in vita. Le cose belle mi parlano di lui e mi sussurrano che la bellezza è lui.
Anche Gesù è bello. Sul monte Tabor Pietro Giacomo e Giovanni videro splendere il suo volto e ne furono talmente rapiti che venne loro spontaneo esclamare: «È bello per noi stare qui» (Mt 17, 4). Non dissero è bene. Dissero proprio è bello! (E i vangeli non sono scritti in ebraico, ma in greco che ha termini distinti per indicare bello e buono). Vedevano infatti splendere sul volto di Cristo una bellezza mai vista prima. Quella luce che emanava da lui, quella bellezza, così come quella nube che tutti li avvolgeva in un’atmosfera sovrumana d’incanto, era lo Spirito Santo.
La bellezza di Gesù, quella che rimane fissata per sempre nella luce del Risorto, mi dice che lo Spirito Santo è bellezza.
Una bellezza non soltanto come oggetto estetico da contemplare e da godere. È una bellezza che mi rimbalza dentro e mi investe e mi trasforma. San Paolo l’ha espresso con una frase densissima, nella quale fa vedere come il raggio della bellezza di Dio prima risplende nella creazione, si riflette sul volto di Cristo per poi penetrare dentro di noi: «E Dio che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6).
Quel raggio di luce e di bellezza è lo Spirito Santo.

Siamo fatti per il bello!
Istintivamente ho sempre avvertito come negativo tutto quanto è sciatto, trasandato, volgare, sguaiato, tetro, quasi avesse a che fare con il diavolo. Invece il suo contrario - il bello, in una parola - mi riporta al divino. George Braque, un grande pittore contemporaneo, scrive: «Il mistero risplende con la luce; il misterioso si confonde con l’oscurità».
Non diversamente doveva pensarla Paolo quando, ad esempio, contrappone quelle che lui chiama «le opere della carne» al «frutto dello Spirito». Quelle sono impurità, libertinaggio, stregonerie, discordie, gelosie, dissensi, divisioni, orge..., ma anche volgarità, insulsaggini, trivialità (cf. Ef 5, 3); questo invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé... (cf. Gal 5, 19-23). San Paolo ritiene che chi va dietro al male e alle opere delle tenebre «rattrista lo Spirito Santo», mentre invece chi è nella luce - il cui frutto è bontà giustizia e verità - «è gradito al Signore» (cf. Ef 4, 17 - 5, 20).
Una delle conclusioni che san Paolo trae da questa visione è che noi dobbiamo cercare «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode». Questo deve essere oggetto dei nostri pensieri (Fil 4, 8).
Che pena quando vedo dei giovani che hanno perso il gusto per la bellezza!
Lasciati inondare dalla freschezza dello Spirito. Lui, che ha trapunto il cielo di stelle, ha rivestito i prati di margherite, ha raddolcito l’umanità con occhi di bambini, vuole disegnare in te ricami di luce ed accenderti alla bellezza che non tramonta.
«Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini...». È quanto ha detto il Concilio rivolgendosi agli artisti. Non ti senti anche tu un po’ artista? Mostrare la bellezza è allora anche la tua missione.