domenica 30 aprile 2017

L'anno che non caddero le foglie


L’anno che non caddero le foglie
“Il vento è così, non ci può far niente: essendo vento, gira ovunque e vede ogni cosa. Soffia intorno, ci avvolge, ci sospinge. È il testimone di tutte le nostre azioni, e a volte anche il motore. Purtroppo noi, il più delle volte, lo riteniamo solo un fastidio, qualcosa che ci fa venire mal di testa. Oggi c’è vento, diciamo, meglio non uscire. Che sbaglio! Dovremmo corrergli incontro, e prendercelo in pieno addosso; dovremmo metterci nel bel mezzo di dove soffia e farci travolgere, portar via, scompigliare i pensieri, rivoltar la testa. Dovremmo lasciargli fare il suo lavoro, che è quello di cambiarci la vita”.
Il vento parla e soprattutto vede, ascolta… Un po’ ce lo immaginiamo.
Più difficile immaginarsi cosa fanno le foglie. Anche loro sembra siano particolarmente chiacchierine. “D’altronde, che altro possono mai fare le foglie? Non hanno mani, non hanno piedi; non possono abbracciarsi né scambiarsi doni; non possono farsi una cenetta né guardarsi un film; non possono andar lontano, e nemmeno tornar vicine. Sono come barche per sempre ancorate a un molo. Non partiranno mai e non torneranno mai. Hanno solo le parole, le foglie: per questo si parlano molto”.

Così almeno si rassicura Paola Mastrocola nel libro che ho appena letto, d’un fiato: L’anno che non caddero le foglie. Lei sembra intendersene, visto che nel libro precedente, Una barca nel bosco, gli alberi gradualmente invadono la casa del protagonista e diventano loro i protagonisti.
È una favola meravigliosa con alberi e foglie, scoiattoli e volti, un gufo e un tarlo, il vento e la pioggia… tutti che dialogano tra di loro.
È soprattutto una storia meravigliosa d’amore, o meglio di amori che si incrociano, quello festoso e dichiarato tra Lina (foglioLina) e Ippi (foglia di ippocastano) e quello timidissimo e nascosto tra Squirri (scoiattolo) e Volto (volpe), che maturano fino alla pienezza del dono di sé, pronti a morire perché l’amore dell’altro viva.
Una favola che fa riflettere sulla natura e sugli umani interrogativi.


sabato 29 aprile 2017

Resta con noi, Signore


«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 13-34).

Al termine della settimana spesso andiamo a Messa, la domenica, carichi, se non schiacciati, degli eventi dolorosi con cui i mass media ci hanno bombardato: stragi familiari, disastri ambientali, guerre, atti terroristici, frodi, violenze, menzogne, disimpegno… Anche il nostro cuore a volte ci appare inquinato, succube del male che ci circonda, quando noi stessi non ci scopriamo operatori di male. Le prove, piccole o grandi, non risparmiano neppure noi e ci trafiggono come spade o come spine. Anche a noi capita di camminare avvolti dalla mestizia e sfiduciati, proprio come i nostri due diretti a Emmaus: “col volto triste, stolti e lenti di cuore a credere”.

Se non avessimo Gesù, che ci cammina a fianco, che si interessa di noi… Ben venga il suo rimprovero, segno della tua vicinanza, comprensione, condivisione. Che domenica sarebbe se Egli non venissi a spezzare per noi il pane della parola e del suo corpo! Che settimana sarebbe senza la domenica!
Ogni domenica Gesù ci fa ascoltare la sua voce, ci ridice il suo Vangelo e getta luce sul buio o almeno sull’opacità del nostro vivere quotidiano. Ogni domenica a Messa ci ripete cose che già sappiamo: “Non bisogna soffrire per entrare nella gloria?”. Cose che sappiamo, ma che non capiamo mai abbastanza e abbiamo bisogno di sentircele dire ancora una volta e di vedere come lui le vivi, per imparare a viverle.
Così rischiara le nostre tenebre, getta luce su cose e fatti che altrimenti non sapremmo comprendere, infonde speranza e il coraggio e la forza per riprendere il cammino. Riaccende la fiamma e fa ardere di nuovo il cuore: l’ideale torna a brillare.
Ogni domenica si siede a mensa con noi. È presente tra noi, sul nostro cammino, per tramutare tristezza in gioia, tenebra in luce, paura in speranza. Egli può compiere il miracolo, basta soltanto chiederglielo: “Resta con noi, Signore, ora che attorno si fa buio…”.

Resta con noi, Signore,
perché senza di te non possiamo capire
né vivere.
Resta con noi, Signore,
perché senza di te ogni giorno è grigio,
senza sole.
Resta con noi, Signore,
perché senza di te non giungeremo alla meta.
Grazie della tua Parola
che illumina il cammino.
Grazie del tuo Pane
che infonde vigore.
Resta con noi, Signore.


venerdì 28 aprile 2017

Mario Borzaga: Ogni giorno il suo atto di eroismo puro



29-30 aprile 2017: Trento è in festa per celebrare la beatificazione di padre Mario Borzaga e gli altri 14 martiri del Laos.
Per l’occasione ho scelto alcuni brani delle lettere indirizzare alla sorella Lucia, di poco più giovane di lui: due ventenni che si aiutano a seguire Gesù. Eccone una brevissima sintesi.

1953
La nostra vita sarà breve, e dovremo in poco tempo fare moltissimo bene per noi e per gli altri, sacrificandoci per Gesù come egli si è sacrificato per noi, il premio poi verrà abbondante in Paradiso.

Luglio 1955
La vita si vive una volta sola, vale la pena viverla con un inte­gralismo, con un energico assolutismo che elimina ogni cosa che sa di vano, di fugace, di transitorio… Coraggio, cara Lucia; ogni giorno passa trascinandosi con sé mille occasioni buone per ascendere in alto, ogni giorno ar­reca con sé nuovi insospettati tesori, ogni giorno vuole il suo atto di eroismo oscuro: non lasciarti sfuggire nulla… bada all’essenziale di ogni cosa e di ogni avvenimento: il re­sto già te ne accorgi è un fragoroso torrente di nulla…

San Giorgio Canavese, 13 gennaio 1956
Immaginati di dover scrivere il romanzo della tua vita, come meglio ti piace. con tutti gli avve­nimenti più lieti e più consolanti di tuo gusto, e che come l’hai scritto così in realtà ti dovesse poi accadere; credi tu di aver scritto un romanzo migliore di quello che Gesù ha già scritto e preparato per te? No di certo!


San Giorgio Canavese, 2 luglio 1956
Ricordati del valore enorme che può avere la tua vita e con quale facilità e indifferenza si possa sciupare di giorno in giorno. Il bene che non s’è fatto oggi, non si rifà più.

San Giorgio Canavese, 18 maggio 1957
In quanto poi al metodo per diventare santi bisogna anzitutto volerlo: poi bisogna amare, amare con la A maiuscola Gesù e i propri fratelli che sono le sue membra indistintamente: per dimostrare il proprio amore a Gesù bisogna fare momento per momento tutto il giorno la sua volontà: non manca la forza e la grazia nella preghiera, nella preghiera a Maria, nella Comunione…

Paksane, 2 aprile 1958
Io ti consiglio di fare così: devi vivere ogni giorno momento per momento nell’amore e nella volontà di Dio; accetta tutto quello che ti capita, che ti dispiace, che ti urta, come un dono speciale del suo Amore per te… Io ti avverto, fin d’ora, puoi andare dove vuoi, entrare in qualsiasi Ordine o Congregazione, in qualsiasi Istituto secolare o altro, ma la vita e la formazione è come uno se la vuol fare, la santità è un fatto personale… Niente storie, ansie, incubi, pensieri,

Paksane, 18 giugno 1958
Quello che più sta a cuore è che non ti metta in ecces­sive preoccupazioni. Nella vigna del Signore c’è posto per tutti con qualsiasi carattere e con qualsiasi bagaglio di doti e di di­fetti. Perché il fine dell’uomo e in modo particolare di qualsiasi vita religiosa è di amare e servire Dio in unione alla sua divina Volontà.

Kiucatian, 28 dicembre 1958
Qui il missionario non è uno che si chia­ma Tizio, Caio, Sempronio, ma è una persona, un oggetto do­nato totalmente alla Chiesa, la sua giornata non gli appartiene, il suo tempo le sue cose non sono sue, ma sono della Chiesa ossia di chi dirige la missione; ciò domanda un distacco com­pleto da tutto, una abnegazione disinvolta e serena, uno spirito soprannaturale come quello dei Santi. E non credere che questo sia dell’eroismo né una cosa difficile a farsi, è invece una cosa del tutto normale, non può essere che così. E per realizzare tutto questo basta solo un minimo di buona volontà. Te lo posso assicurare io che lo ho esperimentato e lo esperimento tutt’ora.

Luang Prabang, 17 agosto 1959
In mezzo a tutte le faccende della tua giornata esamina bene la tua vo­cazione. Chiedi al Signore che cosa vuole soprattutto da te, co­mincia fin d’ora a formarti una mentalità di apostola, di Missio­naria della Chiesa del Cristo, non accontentarti delle mezze mi­sure, o tutto o nulla, sta ben attenta dì non formarti una men­talità mezza borghese, un sistema di vita spirituale facile e me­diocre.

Luang Prabang, 3 novembre 1959
Non aver paura, di difficoltà ne incon­trerai ancora e parecchie, talvolta grandi, quasi insormontabili. Non avere paura, il Signore ti aiuterà sempre in ogni momento anche se per provare la tua fede e il tuo amore permetterà che la sua voce non sia sentita e che il suo amore appaia tanto lontano. Non vale la pena scoraggiarsi, ci si perde sempre. Vale la pena invece combattere, faticare, penare, creder nell’avvento del Regno di Dio completamente nelle anime degli altri e nelle anime nostre.


giovedì 27 aprile 2017

Ricordando il card. Miloslav Vlk


Praga, 8 marzo 2003. All’arcivescovado mi ha preso in consegna sr. Halina, mia ex allieva all’UPS, e mi ha portato al terzo piano, nella casa del cardinale. Il cardinale è a Istambul; anche il monsignore che vive con lui è assente… Sono ospitato in una suite principesca: è per gli ospiti del cardinale, tutta gente del suo pari e quindi adeguata al rango. Altre al salotto, cucinetta e bagno planetario, comprende, naturalmente, la stanza da letto, che è molto più di una stanza da letto. È una sala ovale di una bellezza straordinaria, con tre finestre ovali su altrettante pareti: una dà nel giardino dell’episcopio, una sul castello, una su Praga. Roba da incanto. Da qui questa mattina ho visto la piazza animarsi di turisti e il cambio della guardia presidenziale…
Così iniziava il diario della mia visita nella Repubblica Ceca, su invito del card. Miloslav Vlk, che arrivò il giorno seguente. Subito partimmo per Hejnice, nel santuario mariano, dove passammo una settimana insieme di intensa comunione.
Ieri non potevo mancare, nella basilica di santa Croce in Gerusalemme, alla messa in suo ricordo. Particolarmente toccante il ricordo evocato dal card. Giovanni Battista Re. Ne riporto alcuni passi:

Il cardinale Vlk ebbe una fanciullezza disagiata, ma fin dai primi anni ricevette un’educazione profondamente cattolica. La sua grande aspirazione di diventare sacerdote si scontrò con una capillare persecuzione contro la Chiesa, per cui, dopo aver lavorato nei campi passò a essere operaio in una fabbrica di automobili; interruppe questo lavoro per la chiamata al servizio militare. Il desiderio di diventare sacerdote lo portò a utilizzare tutti i momenti liberi per studiare. Finalmente nel 1964 riuscì a frequentare la facoltà di teologia dei Santi Cirillo e Metodio, che di fatto era un seminario sotto il controllo statale. In questo contesto il giovane Miloslav Vlk ebbe occasione di incontrare il movimento dei Focolari, che per lui fu di grande sostegno umano, morale e spirituale. Fra l’altro i focolarini gli procuravano libri da leggere, che per lui erano molto utili e che lo aiutarono a maturare la propria spiritualità, caratterizzata dall’imitazione di Gesù abbandonato sulla Croce. «Come Cristo si sentì abbandonato, ma continuò a portare la sua croce — spiegherà quando era cardinale — così io continuai a portare la mia croce negli anni bui e duri della mia vita».


Con la Conferenza Episcopale Ceca alla quale diedi gli esercizi spirituali
Nel 1968, durante la primavera di Praga, fu ordinato sacerdote. Aveva 36 anni. Come è noto, quella primavera durò ben poco per l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, che soppressero il governo di Dubček. Miloslav Vlk incominciò a essere malvisto dalle autorità comuniste per la troppa influenza che esercitava sui giovani. Fu confinato in un paesino lontano dalla città, ma anche in quella zona sperduta nella campagna, fu dal regime giudicato pericoloso. Gli fu ingiunta l’assoluta proibizione di esercitare il ministero sacerdotale. Dovette pertanto ritornare al lavoro, che fu quello di lavavetri nella città di Praga, dove contemporaneamente in forma clandestina esercitò il ministero sacerdotale, confessando e celebrando la messa di nascosto in casa di amici.
In quel periodo entrò nella prima comunità del movimento dei Focolari in Cecoslovacchia, figurando esternamente come laico, anche se tutti ne intuivano lo spirito sacerdotale. La spiritualità focolarina lo ispirerà parecchi anni dopo anche nella scelta del motto episcopale: Ut omnes unum sint.
Nel 1990 fu nominato vescovo della diocesi di České Budĕjovice, vacante da 18 anni, e nell’anno seguente, 1991, arcivescovo di Praga e nel 1994 cardinale. Così le strade di Praga che per otto anni lo avevano visto passare come lavavetri, pochi anni dopo lo videro passare come arcivescovo e cardinale. Nel 1995 lo poterono ammirare a fianco del Papa Giovanni Paolo II. Quanti lo avevano guardato con simpatia umana come lavavetri, lo apprezzarono negli anni seguenti come pastore zelante e generoso, impegnato in un autentico rinnovamento spirituale ed ecclesiale, nell’assillo di indicare a tutti la via che porta al cielo. La forza della fede, che lo sostenne negli anni difficili, divenne incontenibile ansia pastorale e desiderio di rendere vivo il Vangelo nella società e di fare del bene a tutti.
La lezione della sua vita non deve cadere nell’oblio. Il cardinale Miloslav Vlk resterà nella storia della Chiesa e dei popoli slavi fra le figure luminose che con la forza della loro fede hanno testimoniato piena fedeltà a Cristo in tempi e in situazioni difficili. 



mercoledì 26 aprile 2017

Taccuino - La mia vera personalità


La personalità nostra è non avere personalità, così da essere soltanto Gesù, per poter pensare come Gesù pensava, per poter vedere leggere gli avvenimenti con l'ottica stessa di Gesù.
Essere un nulla che si proietta su Gesù in modo che Lui sia impresso dentro di noi: non più la nostra personalità, ma la sua.
La nostra personalità è la trasparenza: essere totalmente limpido, talmente nulla da essere Lui.
Per essere Gesù occorre essere costantemente il nulla di Lui: Gesù abbandonato, che non ha più personalità, l'impersonale. Tutto va perso per poter essere ritrovato. Come può entrare Lui in noi se siamo pieni di noi? Come ci darà la sua personalità se teniamo gelosamente la nostra?

E quando avremo assunto la sua personalità egli si rivestirà della nostra.
Il mio nome è non avere nome: strumento di Dio e del suo amore per ogni uomo.
Il mio tempo è non avere tempo, è l'eternità, è avere Dio.

Tra noi è la medesima dinamica. Se ognuno afferma se stesso non c'è più spazio per Gesù tra noi. Che volta acquisterà la comunità? quale la sua identità? E' lui che dà fisionomia alla nostra comunità.
Sarà Gesù con i volti di ciascuno, diversi gli uni dagli altri.
Ritroveremo la nostra personalità, come singoli e come comunità, ma sarà quella trasfigurata, luminosa di Cristo in noi e tra noi.
(Appunti, 22 ottobre 1983)


martedì 25 aprile 2017

La Mariapoli pazza di Villa Borghese

  
Mi sento come l’evangelico “operaio dell’ultima ora” che viene pagato come gli operai che hanno lavorato e faticato tutti il giorno.
A differenza dello scorso anno gli impegni mi hanno impedito di partecipare alla Mariapoli svoltasi per cinque giorni, anche quest’anno a Villa Borghese e al Pincio. Sono stato soltanto oggi. Ma basta mettere piede anche solo un attimo nel “Villaggio della terra”, allestito per l’occasione, per essere coinvolti nel clima di festa che cresce da uno stand all’altro, da proposte per tutti i gusti e tutte le età (i bambini e i ragazzi sembrano i privilegiati) e dal vortice di molteplici eventi di grandi interesse. Come quello del pomeriggio, nella tenda dei convegni: “Madri della terra. La cura del creato vista dalla prospettiva femminile delle grandi religioni”.


Sette donne, musulmane, ebree, indù, cattoliche, ortodosse (alcune le incontravo per la prima volta, altre amiche di vecchia data) hanno condiviso con un numeroso uditorio come le rispettive religioni si pongono davanti alla natura, evidenziando, in modo particolare, l’apporto tipico della donna. Mi sembrava d’essere lontano milioni d’anni luce dagli scenari di guerra, dai sospetti, diffidenze, violenze in nome delle differenze religiose, da cui ogni giorno siamo circondati ogni giorno. Le religioni, da quel palco, e dallo sguardo limpido delle donne che parlavano, e da quelle che danzavano e cantavano, sembrano tutta un’altra cosa, autentiche vie di pace e di armonia… È lo sguardo divino della Mariapoli!


Proprio una Mariapoli pazza questa Mariapoli romana. Immischiata con decine di altri gruppi e organizzazioni che in questi giorni hanno portato avanti eventi comuni e distinti, dialogando tra di loro, cercando cammini comuni e convergenze per rendere vivibile la città, far crescere la fraternità, tendere all’unità.
L’anno scorso il Papa, visitandola a sorpresa, colpito, come io quest’oggi, da questo tipico clima di fiducia reciproca e di collaborazione, aveva detto che gli sembrava di vedere il deserto trasformarsi in foresta e aveva l’aveva proposto quasi come un programma.
Quest’anno, entrando nel villaggio all’ultima ora, mi è sembrato che la foresta fosse particolarmente viva, popolata di tante persone fatte un’unica famiglia.
Una Mariapoli pazza e festosa, con due bande che percorrono Villa Borghese, dal Galoppatoio al Pincio, con una gioia chiassosa, sbandieratori, bambini che impazzano, famiglie serene, slogan di pace… ma dove siamo? In Mariapoli!


lunedì 24 aprile 2017

I primi sei mesi… senza parlare. La storia di Prescelto



In Pakistan: Prescelto è l'ultimo a destra in alto
Nel 2003, durante un mio viaggio in Pakistan, incontrai Giuliano Ricchiardi, detto Prescelto. Ne scrissi un lungo articolo di cui riporto qualche stralcio, in occasione della sua partenza per il cielo, il 21 di questo mese.

Rawalpindi. L’ora pigra del dopo pranzo è la più adatta per lasciarsi sfuggire le confidenze. Prescelto (nome di battaglia!) ha già sulle spalle una lunga giornata: si è alzato alle 3 del mattino, ha pregato, ha riordinato la casa, è stato al mercato, ha preparato i pasti… Quando gli altri cominciano la giornata lui l’ha già quasi terminata! Lo colgo quindi nel momento propizio, quando, stanco, non può opporre resistenza ed acconsente a raccontarmi la sua storia. Un italiano in Pakistan, di questi tempi! Sono così pochi… E poi non ho ancora capito se è un religioso, se è un prete, se è un focolarino o se è tutto questo insieme o altro ancora.

“Partiamo dalla fine, mi dice: sono proprio un focolarino, e ho conosciuto il Movimento tanti anni fa, grazie ad un prete, don Pierino. Siamo tutti e due di Torino. Lui adesso è nelle Filippine e io qua in Pakistan. Era il 1957 ed allora ero un religioso, un Fratello delle Scuole Cristiane”. Avrebbe voluto diventare sacerdote, ma suo papà non se ne dava ragione. “Ti conosco bene, gli diceva, non ce la farai. Sei un tipo difficile! Ti farai prete, ma resisterai poco e ti sposerai subito dopo”. C’era già stato un prete in famiglia che aveva lasciato il sacerdozio e il papà non voleva un altro scandalo. “Forse è meglio che diventi Fratello, un religioso, senza diventare prete, così quando poi ti sposerai nessuno si meraviglierà e non sarà uno scandalo”. Così Giuliano Ricchiardi si era riprovato dai Fratelli delle Scuole Cristiane, con il segreto desiderio di diventare prete.
Laureato in pedagogia, chiese di poter studiare teologia per completare la sua formazione dottrinale (ma forse, inconsciamente, c’era sempre quel desiderio nascosto del sacerdozio). Ed eccolo così a Roma, dal 1962-65, per la licenza in teologia al Laterano.


Nel frattempo il vescovo domenicano di Faisalabad, in Pakistan, aveva dato vita ad una scuola di formazione per catechisti laici, un corso residenziale di due anni sovvenzionato da Misereor. L’ente tedesco aveva tuttavia posto una condizione, che il direttore della scuola fosse qualificato dal punto di vista teologico e pedagogico. Il vescovo si rivolse allora ai Fratelli delle Scuole Cristiane, nello Sri Lanka. Ma nessuno di loro era pronto per questo compito. Il superiore generale, venuto a conoscenza della richiesta, si rivolse all’assistente generale per l’Italia che pensò subito a fratel Giuliano. “Mi mandò a chiamare – racconta Prescelto – e mi fece la proposta di andare in Pakistan. Capisco, mi disse, che non è un lavoro normale per uno della provincia di Torino, ma pensaci… Mi sono consigliato con Chiara, che nel frattempo avevo conosciuto a Fiera di Primiero, nel 1959, durante l’ultima delle Mariapoli sulle Dolomiti.  Lei naturalmente mi ha incoraggiato a dire subito di sì ai superiori.
“Prima di partire chiesi di poterla incontrare. Ricordo ancora quel momento di luce. Le dissi che ciò che più mi costava era dover perdere i rapporti così ricchi che avevo con tanti membri del Movimento. E lei: “E’ l’esperienza di Maria, chiamata a perdere il Figlio suo. Anche lei deve perdere la cosa più bella che ha”. Infine mi disse se poteva darmi un consiglio. “Nel Pakistan il nostro Movimento non è ancora conosciuto. Per almeno sei mesi non parli del Movimento, si faccia solo voler bene e si faccia stimare professionalmente. Tutto il resto verrà dopo”. Partii con gli indirizzi dei simpatizzanti del Movimento che erano allora presenti in Asia e con un po’ di bobine registrate per far meditazione. Ero tutto contento di avere con me le registrazioni delle belle conversazioni spirituali di Chiara. Ma quando uscii trovai Valeria Ronchetti, una delle sue prime compagne, che da poco era tornata dalla Russia. E lei mi dice: “Bello che si porti via le bobine, però se posso darle un consiglio, quando sarà là da solo si metta davanti a Gesù Eucaristia e ascolti lui… chieda a lui cosa fare, perché non avrà nessuno del Movimento vicino con cui confrontarsi (era la sua esperienza in Russia)”. Prescelto, che mi racconta tenendoci in mano la testa calva e bruciata dal sole, mi guarda ora con un sorrisetto scherzoso: “Sai cosa ho pensato subito? Questo Gesù che parla non l’ho ancora sentito, andrà bene per lei che è una santa…, ma per me… E invece quando sono arrivato qui in Pakistan ho provato a fare come lei mi aveva detto e ha funzionato! Quando invece pensavo di sapere già bene da solo le cose che dovevo fare e quindi mi sembrava superfluo consultarmi con Gesù Eucaristia, venivano fuori le difficoltà”.


Partì per il Pakistan nel 1965, d’agosto, il mese più caldo. Era appena scoppiata la guerra indo-pakistana. Il momento meno adatto! Il vescovo lo mandò al centro catechistico, che era situato in un villaggio cristiano, Khushpur (il villaggio della gioia). “Devi farti stimare professionalmente”, si ripete. Comincia quindi a studiare la lingua. Dopo un mese faceva già scuola in urdu. Lavora con impegno e veramente conquista la stima di tutti i vescovi che mandano i loro studenti al centro di formazione. Nei primi sei mesi, fedele alla consegna, non parla del Movimento.
Poi le vacanze a Murree sulle montagne, senza libri (“altrimenti che vacanze sono”, mi dice)… Il secondo giorno incontra il vescovo di Rawalpindi. “C’è un congresso catechistico qui a Murree devi partecipare”. Va al congresso. Il coordinatore lo invita a parlare. Chiede a una suora italiana di aiutarlo nella lingua e dà un pensierino sulla “parola di vita” come metodo catechistico: riassumere l’insegnamento in una parola del vangelo e, la volta successiva, raccontare le esperienze che nascono da quella parola vissuta. Nasce il primo gruppo della Parola di Vita, che presto si dilata.


Dopo due anni rientra in Italia: i Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino lo avevano “prestato” al Pakistan per due anni soltanto. Va quindi dal Fratello visitatore (il provinciale), gli parla del lavoro svolto e gli manifesta il desiderio di tornare per completare la missione per un anno o due. Può tornare per altri due anni. Fa venire i focolarini da Manila e iniziano gli incontro per giovani, ragazzi e ragazze… nascono i gen.
Nel 1969 Giuliano ha un infarto. Si riprende, torna al villaggio, e di nuovo una ricaduta. La dottoressa lo consiglia di partire prima della stagione calda. Il giorno di san Giovanni Battista de La Salle, suo fondatore, riparte per l’Italia.

In Italia le condizioni migliorano decisamente. Riprende l’insegnamento a Torino. Ma ormai qualcosa è cambiato in lui. In Pakistan, davanti alla difficile situazione della Chiesa, era maturata la vocazione al sacerdozio, già avvertita nella adolescenza e tornata di nuovo durante gli studi di teologia. Dopo il Concilio Vaticano II il Capitolo generale dei Fratelli si era interrogato sulla possibilità per alcuni di loro di accedere al sacerdozio. Le conclusioni erano state categoriche: nessuno dei Fratelli sarebbe potuto essere ordinato, neppure per il servizio interno all’Istituto. Pertanto quelli che si sentivano chiamati al sacerdozio venivano invitati a trovare soluzioni al di fuori dell’Istituto. Giuliano sente l’invito rivolto a lui personalmente: se uno vuole diventare sacerdote deve uscire dai Fratelli e trovare una nuova famiglia. Quale altra famiglia se non il Focolare? I superiori lo lasciano libero di seguire la chiamata. 


Nel 1970, subito dopo l’ordinazione, Prescelto torna in Pakistan. Il vescovo lo manda prima in una cittadina, Sahiwal, poi in un’altra parrocchia missionaria, Chak Jhumra, dove nessuno voleva andare: prima c’erano stati degli scandali, poi la chiesa era stata assalita e data alle fiamme... Attorno c’erano più di 100 villaggi da visitare. In ogni villaggio un piccolo gruppo di poveri cristiani, contadini, 2, 4, 5 famiglie ghettizzate in un angolo per paese. C’era anche una piccola scuola, con solo 40 studenti musulmani: i cristiani non avevano accesso. Prescelto la rimette in sesto. Costruisce un dormitorio per 20 bambini dei villaggi attorno, tutti tubercolotici per malnutrizione, così che possano frequentare la scuola. Dopo due mesi gli alunni sono 200, 5 i maestri.
Un giorno arriva una ragazza sul carrettino scortata dalla zia (le ragazze non possono viaggiare da sole). Vuole diventare focolarina. Lui vende la chitarra e altre robette, prende un po’ di soldi che gli sono arrivati da una zia e compra il biglietto aereo per far andare questa ragazza nelle Filippine dove intanto era sorto il centro del Movimento per l’Asia. La comunità cristiana si allarga. I contatti con i sacerdoti si fanno sempre più profondi…
Ma è ormai tempo di lasciare il Pakistan per altri lidi: sette anni a New York, un anno a Trento, due a Roma, quattordici in Africa a Nairobi. Ed ora, dal 1999, eccolo qui di nuovo nel suo Pakistan, come un vecchio patriarca.


domenica 23 aprile 2017

Una fede che si tocca



Dopo la Risurrezione, nel Vangelo di Matteo, le donne “abbracciarono i piedi” del Risorto (28, 9).
Nel Vangelo di Luca Gesù invita gli Undici: “toccatemi” (24,38), lo stesso nel Vangelo di Giovanni, quando si rivolge a Tommaso (20, 27).

Pensiamo sempre la fede come qualcosa di cerebrale. Essa nasce invece dal toccare, oltre che dall’ascoltare e dal vedere; effetto di un Dio che si è incarnato; e che è voluto rimanere tra noi in elementi altrettanto materiale come il pane e il vino i quali, ancora una volta, vanno non soltanto toccati, ma addirittura presi e mangiati e bevuti: “prendete e mangiate, prendete e bevete…”.

Mi piace questa fede concreta, corporea, legata al toccare.


sabato 22 aprile 2017

Credere senza vedere


Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20, 19-31).

Caravaggio l'ha ritratto mentre introduce il dito nella piaga - una scena da ribrezzo. Non dissimili, anche se meno realisti, tutti gli altri pittori.
Io non me la immagina così la scena, troppo inverosimile. Gli è bastato vederlo ed è crollato in ginocchio

Quella di Tommaso diventa così la più alta professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio”. Una fede partecipata, personale, appassionata. Non la fede in qualcosa oggettivamente presente ma discosto, frontale, lontano; no, una fede viva e personale: sei il “mio” Signore, il “mio” Dio.
Credere nel Risorto è lasciarlo entrare nella “mia” vita, riconoscere un rapporto che unisce intimamente, in una reciproca appartenenza: Egli è “mio” perché io sono suo, mi ha acquistato a caro prezzo, con il suo stesso sangue, testimoniato dal segno dei chiodi e della lancia che non ha voluto cancellare perché sempre, per tutta l’eternità, vi leggessimo il suo amore infinito.
Tommaso lo proclama “il” mio Signore, “il” mio Dio, proprio con l’articolo (così in greco), a sottolineare che è l’unico, il tutto, senza possibilità di parcellizzare l’appartenenza e l’amore.

Al vederlo i suoi discepoli furono pieni di gioia. “Beati i vostri occhi perché vedono”, aveva proclamato loro una volta. Sì, veramente beati. Che gioia sarebbe vederlo! Potessimo essere stati lì anche noi, a porte chiuse, e nell’intimità di quella sera vederlo.
Ma questo nostro tempo è il tempo della Chiesa ed Egli, asceso al Cielo, è stato sottratto ai nostri occhi. Eppure Egli, che è l’Onnipotente, non potrebbe compiere ancora il miracolo e mostrarsi ai nostri occhi? Allora, dopo la risurrezione, si è fatto vedere alle donne per strada, a Maria di Magdala nell’orto, a Cleofa e al suo compagno nella casa di Emmaus, ai discepoli nella stanza superiore, sul lago… Egli che si è mostrato in luoghi tanto diversi e tanto comuni, non potrebbe mostrarsi anche a noi?

Forse è proprio questo l’insegnamento: Egli può apparire ovunque perché ovunque è presente: in casa, al lavoro, per strada, nei posti più impensati. È il Risorto, il Vivente, non più legato a un luogo, a un tempo.
Il miracolo non è quando Egli appare, come quella sera davanti a Tommaso. Il miracolo è che egli è qui, realmente presente, e non si fa vedere!
Siamo beati anche noi che non lo vediamo, come lo erano i suoi discepoli che lo vedevano. Anche noi, come loro, siamo pieni di gioia perché Egli c’è, ed è sei, qui, accanto, in mezzo a noi, il mio Signore e il mio Dio.


venerdì 21 aprile 2017

La Via e la Meta di apa Pafnunzio



Dai Detti di apa Pafnunzio:

Colui che si è fatto Via al Cielo
e sembra sparire ad indicar la Meta,
è il Cielo stesso,
il Mare dove il fiume si perde.

Il Mediatore che si fa nulla
per traghettare al Padre
è là sull’altra sponda,
termine ultimo di mediazione.


giovedì 20 aprile 2017

Mi piace, non mi piace: "Non mi piace"


Ieri ho postato un mio pensiero su “mi piace, non mi piace”.
Mi è arrivata una risposta da una persona che non conosco e che comunque si firma:

Gentile Dott. Ciardi,
prima di premere invio mi sono confrontato con mia figlia (che la pensa diversamente da me) a proposito dell'articolo "mi piace, non mi piace" che mi è parso incompleto e per certi versi, a mio modesto parere, sbagliato, perché non ha considerato le altre opzioni che tutti i social offrono: commenta e condividi. La combinazione delle quattro opzioni dà al lettore un'ampia possibilità di espressione al contrario di quanto da lei sostenuto nella prima parte dell'articolo. Che poi nella società vi siano derive relativiste e che i social sono mal utilizzati da moltissime persone è vero, ma il suo articolo, forse solo per come è stato assemblato, sembra paventare il "lupo nero" nei social come se vi fosse un disegno oscuro per portare la società verso il male ecc. E' un po' la tendenza e la retorica tipica cattolica molto spesso utilizzata - a mio avviso - del tutto fuori luogo e diseducativa.
Con stima e cercando il dialogo.

Chissà se ci sono altre opinioni in merito…


mercoledì 19 aprile 2017

Mi piace, non mi piace


“Mi piace, non mi piace”. La scritta conclude spesso articoli, notizie, video che appaiono sui media, spesso accompagnata o sostituita da un’icona dal pugno con il pollice recto o verso. Basta un click e il pezzo è promosso o bocciato. Non viene lasciata un’alternativa del tipo “Mi piace però penso che…”. Non c’è neppure la domanda sulle motivazioni: perché piace, perché non piace? Poiché non ci viene mai chiesto, diventa sempre più arduo giustificare le proprie scelte e, lentamente, disimpariamo a farlo. Soprattutto non passa per la mente di chiedere o di chiedersi se quel messaggio sia vero oppure falso. La “dittatura del relativismo” della ragione, contro la quale si è battuto energicamente Benedetto XVI, è ormai scomparsa per lasciare il posto alla dittatura del relativismo del sentimento. L’affermazione “è vero” viene sostituita da “mi piace”, così come “non è vero” da un semplice “non mi piace”: è vero ciò che piace, è falso ciò che non piace. Si è così spalancata la porta alla post-verità e alla manipolazione delle coscienze e delle masse.
È una analisi troppo semplicista e forse troppo negativa. Di fatto si tratta di un fenomeno che pervade sottilmente le differenti aree del vivere quotidiano, dalla politica che invita ad agire “di pancia” invece che di testa, alle più impegnative scelte etiche.
All’imperante e popolare “mi piace, non mi piace” potremmo imparare a sostituire altre parole come “argomentare” e sviluppare l’arte dei “perché”, proprio come fanno i bambini quando si risveglia l’intelligenza e, a modo loro, vogliono investigare, entrare dentro le cose. Si tratta di pesare i pro e i contro, di ascoltare le ragioni di chi la pensa diversamente. Ed ecco spuntare un’altra parola dimenticata: “dialogo”, per cercare insieme la verità; parola sostituita dallo sterile “dibattito” dove ognuno afferma la propria opinione – possibilmente gridando e insultando – senza curarsi di ascoltare quella dell’altro.
Forse è tempo di rispolvera l’antico motto dell’illuminismo kantiano, “Sapere aude”, abbi il coraggio di conoscere, o l’evangelico: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

Allora? 

martedì 18 aprile 2017

Taccuino - Il Risorto, presente sempre e ovunque


Il Signore Risorto appare nel cenacolo in mezzo ai Dodici.
Gesù appare!
In questi giorni di Pasqua leggiamo i vangeli delle apparizioni.
Gesù lo vediamo apparire ovunque: per strada, sulla riva del lago, in casa…
Lo vediamo apparire in ogni momento: mentre i suoi camminano, mentre sono al lavoro, mentre stanno insieme in casa…
Cosa vuole insegnare Gesù con tutte queste apparizioni? Che lui c’è, lui c’è...
Prima della sua risurrezione la sua presenza era tanto limitata: un giorno era a Nazareth, un altro a Cafarnao, un altro sul lago, un altro sul monte, un altro a Gerusalemme…
E lo potevano vedere, toccare, ascoltare solo quei pochi che in quel momento si trovavano lì.
Ora invece no. Lui Risorto non è più condizionato dallo spazio e dal tempo.
Egli può essere presente ovunque, può apparire ovunque, anche a porte chiuse. Può apparire mentre si lavora, mentre si mangia, mentre si sta insieme a fare festa, mentre si studia…
Può apparire sempre, dappertutto.
Perché?
Perché ormai egli è presente sempre e ovunque in mezzo a noi. La sua promessa è vera: “Ecco io sono con voi sempre, ovunque, fino alla fine del mondo”.

Noi abbiamo bisogno di sentirci ripetere da Gesù: sono con te, sono con te sempre, ovunque.
Abbiamo bisogno di sentircelo dire perché abbiamo bisogno di sentircelo vicino.
Tante volte ci sentiamo soli, o tristi, o scoraggiati, o delusi, o avviliti. A volte angosciati, disperati…
Ed ecco che Gesù ti appare, lui, il Risorto, e ti dice: eccomi, ci sono, sono accanto a te, sono con te. Non mi vedi, non mi senti?
Gesù non ci appare agli occhi del corpo, ma beati noi che crediamo senza vedere.
Tommaso non ha creduto fino a quando non ha visto. Ma in lui noi tutti abbiamo fatto l’esperienza di fede.
Sì, Gesù, ci sei, sei con me, sei accanto a me.
E tu, tu solo, mi riempi di pace, di gioia, di amore. Tu solo colmi la mia sete di vita, tu solo mi dai la pienezza della vita! Tu solo mi fai risorgere!
(Pasqua 1984)


lunedì 17 aprile 2017

Lunedì dell’Angelo tra antiche pievi




Dopo i giorni intensi della Settimana Santa, il lunedì di Pasqua ci porta fuori porta, all’aria aperta, nella gioia della semplice vita con i familiari.




Sulle colline, tra pievi medievali, scorci di città e antichi borghi…
Non manca l’uovo sodo, benedetto a Pasqua triturato nel piatto con la forchetta e affogato nel brodo… “per benedizione”.



Ci vuole un giorno di pace… pregando per la pace.

 

domenica 16 aprile 2017

Ripartire dalla Galilea



Ed ecco, Gesù venne loro incontro alle donne e disse: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno». (Mt 28, 1-10)

Perché questo appuntamento in Galilea? Non è bastato che fosse l’angelo a dare alle donne la consegna di invitare i discepoli in Galilea. Gesù stesso si è premurato di incontrarle per confermare l’importante incombenza. Perché di nuovo in Galilea, là dove tutto era incominciato e da dove iniziò il cammino verso Gerusalemme? Forse perché i discepoli dovevano imparare a seguirlo in modo novo.
Con la sua risurrezione non è più come prima, non lo si può più seguire lungo le strade della Galilea e della Giudea. Ha superato le barriere del tempo e dello spazio, si rende presente nel cuore dei fedeli, ovunque essi siano. Vive ormai in una dimensione diversa, quella dello Spirito, ed è ad ognuno più intimo che mai.
Si mostra sul volto di ogni persona che incontriamo, si nasconde nella più banale circostanza della vita, ci è accanto in ogni nostra giornata. La novità del suo essere tra noi – non possiamo più vederlo con questi occhi, né udirlo con queste orecchie, né toccarlo con queste nostre mani – domanda un nuovo tipo di sequela. Ora dobbiamo imparare ad averlo presente e ad essergli presenti in ogni istante – come lo vedessimo con questi occhi, lo ascoltassimo con queste orecchie, lo toccassimo con queste nostre mani.

Attende i suoi discepoli in Galilea perché vuole offrire loro l’opportunità di ricominciare dopo il fallimento: lo hanno rinnegato, tradito, abbandonato… Si può ricominciare, con un nuovo inizio. Non come se nulla fosse accaduto, ma proprio perché tutto è accaduto. Ed è un ricominciare consapevoli della propria fragilità, senza più presunzioni (“Darò la vita per te”), fatti nuovi dalla sua misericordia, provocati dal suo amore (“Mi ami tu?”).


sabato 15 aprile 2017

Sabato Santo a Santa Croce in Gerusalemme


Quest’anno, il venerdì santo, ho seguito la via crucis nella basilica di santa Croce in Gerusalemme. È uno dei luoghi più raccolti di tutta Roma, dove si può davvero pregare.
Così ho deciso di tornarvi con calma anche nel pomeriggio del sabato santo.

Il palazzo Sessorio all’Esquilino, residenza imperiale, fu lasciato da Costantino alla mamma al momento di spostare la sede dell’impero a Costantinopoli. Gli scavi archeologici dei dintorni, assieme alle più tardive mura aureliane, creano un’atmosfera magica e lasciano intravedere la gloria dell’antica Roma.
Dopo il viaggio a Gerusalemme, dove rinvenne la santa croce, l’imperatrice Elena fece costruire nel suo palazzo una cappella per contenere le reliquie. Sotto il pavimento sparse la terra del calvario che aveva portato con sé. Nasceva così il primo nucleo nella basilica Eleniana, poi basilica di santa Croce in Gerusalemme.
Gli affreschi del 1500, di Antoniazzo Romano, che avvolgono l’abside, raccontano del ritrovamento della croce e delle vicende ad esso legate. È un romanzo e un capolavoro dell’arte.
La cappella sotterranea di sant’Elena, con i suoi mosaici, è uno dei gioielli di Roma. La statua dell’imperatrice è un’antica statua romana della dea Giunone a cui è stata cambiata la testa e il braccio che ora regge la croce. Per una delle tante assurdità della storia, la cappella, che pure era stata fatta costruire da una donna, era interdetta alle donne, pena scomunica; potevano visitarla soltanto il 20 marzo. Il divieto è stato tolto il 20 marzo 1935.
Dal 1930 le reliquie della passione portate dall’imperatrice sono nella Cappella delle Reliquie appositamente costruita. Comprendono pezzi del legno della Croce, un chiodo, due spine della corona, parte dell'iscrizione di Ponzio Pilato in latino, ebraico e greco, "Gesù di Nazareth re dei giudei", a cui si sono aggiunti frammenti della colonna della flagellazione, la spugna imbevuta d'aceto usata per dissetare Gesù ed uno dei 30 denari di Giuda. C’è anche il dito di san Tommaso apostolo e un pezzo della croce di Disma, il buon ladrone… Dal 2002 si è aggiunta una copia fedele della Sindone.

Reliquie vere? Domanda superflua. Sono un appello a rivivere il grande mistero dell’amore più grande e una risposta al bisogno di toccare, di vedere: siamo un po’ tutti come san Tommaso…
La basilica invita a immergersi nella purezza dell’arte, dai primi secoli cristiani fino al Novecento, a godere della bellezza; un invito a entrare in comunione con le generazioni di credenti che sono venuti qui in pellegrinaggio, in una tradizione ininterrotta e sentirsi parte di un popolo; e nasce il desiderio di tornare alle origini della nostra fede con la semplicità dei bambini e riviverle con la forza dei martiri.

Ed ecco la mia meditazione del Sabato Santo

Come avranno vissuto questo giorno gli apostoli?
Quando Gesù aveva parlato loro della sua risurrezione, il Vangelo annota espressamente che non capivano: “Si domandavano l’un l’altro cosa significasse risorgere dai morti”.
Quel giorno di sabato a tutto pensavano meno che alla possibilità che il Maestro potesse risorgere.
Non soltanto era morto, era stato addirittura sepolto.
Una volta sepolto non c’è proprio più alcuna speranza. Tutto finito. Ci mettiamo una pietra sopra!
Erano delusi e tristi come lo erano i discepoli che torneranno a Emmaus il giorno seguente.
Delusi: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”; “sciocchi e tardi di cuore nel credere”.
Tutto avrebbero pensato, meno che sarebbe finita in quella tragedia irreparabile. Un’illusione naufragata in un fallimento totale.
Tristi: “Col viso triste”, tristi da morire.
Pietro s’era azzardato a seguire il Maestro fino alla casa di Caifa, e l’aveva rinnegato.
Giuda s’era impiccato.
Giovanni lo aveva seguito fino ai piedi della croce, l’unico, ma anche lui dovrà aspettare il terzo giorno per credere.
Per il resto diserzione completa.
Chissà dove e quando si sono ritrovati dopo la dispersione?
Certamente non nell’orto degli ulivi, nella grotta presso il frantoio, dove erano soliti recarsi durante i loro soggiorni a Gerusalemme; troppo rischioso, ormai le guardie del tempio conoscevano il luogo. Tante meno Betania, dove Lazzaro era ricercato per essere ucciso. Forse, senza essersi dati appuntamento, si diressero al cenacolo, luogo scoperto appena la sera prima, ignoto agli altri, e quindi più sicuro. Saranno tornati uno dopo l’altro, mogi mogi, a testa bassa. Si saranno scambiati le notizie sentite o saranno rimasti in silenzio, pieni di vergogna e di sgomento, guardandosi con occhi pieni di interrogativi e di lacrime.

E Gesù, come ha vissuto questo giorno?
In piena attività, quella del chicco di grano che sotto terra, in silenzio, germoglia per dare vita alla spiga; quella del lievito che sta fermentando la pasta; quella del sale che si scioglie per dare a tutto sapore.
Cominciando dagli inferi…

E Maria, come ha vissuto questo giorno?
Dopo avere accolto in grembo Gesù, una volta deposto dalla croce, se l’è visto portare via, mentre tra lui e lei veniva fatta rotolare una grossa pietra, come una barriera invalicabile che separa i morti dai vivi.
Lei non sa come, non sa quando, ma sa che risorgerà.
È la sola che conosce chi è veramente suo figlio.
Dio glielo ha chiesto, lei glielo ha dato, ora sa che gli verrà restituito.
È Vergine come mai lo era stata, staccata da tutto, anche dal figlio, il suo Dio.
Era tutto per lei, ora che l’ha dato, lei è niente.
Non sa come, non sa quando, ma sa che lo riavrà di nuovo, in una Maternità feconda come mai prima d’allora.
È l’unica che crede, che spera, perché l’unica che continua ad amare veramente.
Ora ama Giovanni, il figlio che suo figlio le ha dato, e da lui si lascia accompagnare verso il cenacolo. Nella stanza superiore troverà i discepoli che tornano, uno dopo l’altro, dopo che lo scandalo li ha divisi. Non dirà loro nulla, Li accoglierà e li amerà uno per uno: sono i suoi figli, quelli che il figlio le ha generato, e una mamma non giudica. È la Madre della misericordia.
È l’unica che crede, che spera, perché l’unica che continua ad amare veramente.