mercoledì 31 maggio 2017

Visitazione: la Madonna che apre la strada

Quando sette anni fa mi chiesero di prendere in mano gli studi oblati non sapevo da che parte rifarmi. Chiesi alla Madonna che mi aprisse qualche strada. Quella che si aprì per prima fu l’invito a far parte di del gruppo dei rettori delle nostre università e centri superiori di studio. Negli incontri annuali ho sempre certato di interessare al mio settore. Così, piano piano, siano arrivati a questo momento, nel quale il tema dell’incontro sono espressamente gli studi accademici sul carisma, la spiritualità, la storia degli Oblati. Siamo venuti appositamente a San Antonio nel Texas perché qui, nella Oblate School of Theology, inizierà un ricchissimo programma di corsi sul mondo degli Oblati, organizzato dalla Cattedra di studi oblati, in coordinazione con il Centro di Roma a me affidato, e con quello di Aix in Provenza, con il coinvolgimento di tutte le nostre istituzioni accademiche. Un altro sogno che si realizza. La Madonna ci ha pensato!

La Madonna! È la sua festa: 31 maggio, la Visitazione
Perché Maria si mise in viaggio, “in fretta”, verso Ein Karim per andare da Elisabetta? L’evangelista non lo dice. Mi piace assecondare la lettura tradizionale che vede Maria spinta dalla carità e dalla volontà di servizio verso la parente anziana. Maria, scrive Ambrogio di Milano, «si avviò in fretta verso la montagna, non perché fosse incredula della profezia o incerta dell’annuncio o dubitasse della prova, ma perché era lieta della promessa e desiderosa di compiere devotamente un servizio, con lo slancio che le veniva dall’intima gioia». Lo stesso Paolo VI, nell’enciclica Marialis cultus, accoglie questa interpretazione quando scrive che la festa della Visitazione «ricorda la beata vergine Maria, che porta in grembo il Figlio e si reca da Elisabetta per porgerle l’aiuto della sua carità e per proclamare la misericordia di Dio salvatore» (n. 7). Il primo intento è il servizio, la conseguenza è la proclamazione di quanto Dio ha operato. «Maria va per fare il bene – scrive Enzo Bianchi – e finisce per portare Cristo».
La Vergine nella Visitazione assurge a icona di quel dialogo e di quell’annuncio a cui tutta la Chiesa è chiamata. Non possiamo tenere per noi stessi la Parola che in noi si è fatta vita, siamo chiamati a partecipare il dono ricevuto. Il Vangelo è uno scrigno prezioso che racchiude inestimabili tesori di luce: da esso non soltanto possiamo attingere costantemente per la nostra vita, ma possiamo anche distribuirne a tutti le inesauribili ricchezze, a mani piene.
Anche noi subito in piedi, con l’urgenza, la sollecitudine, la premura di farci prossimi, di servire, di condividere la Parola di Dio ricevuta e l’esperienza di fede che ne è nata.

La festa della Visitazione è per me anche il ricordo della partenza di mio padre per il cielo, 12 anni fa. Come non ricordare quanto ha lasciato scritto?
“Oggi sarai meco in Paradiso;
Oh! il Paradiso!;
Prendimi, Signore;
Grazie Signore;
Vedrò Maria, La Madonna, Vergine bella più bella di tutte;
Sarà Santo come tanti altri;
Andrò in Paradiso, di Lassù pregherò per i miei famigliari”.

La Madonna che apre la strada: verso Ein Karim, verso l'evangelizzazione, verso gli studi oblati… verso il Cielo!


martedì 30 maggio 2017

Ritorno a San Antonio nel Texas


Tornando a San Antonio, dopo sette anni, trovo tante cose nuove, a cominciare dalla costruzione del Whitly Theological Center, che ha duplicato gli ambienti dell’OST, la nostra Scuola di teologia. I nuovi edifici sono ben mimetizzati nel parco, pieni di luce, attrezzati con le nuove tecnologie. Magnifica la grande sala nella quale si tengono convegni e le più diverse iniziative.

Questo è il decimo incontro annuale dell’AOIHL (Associazione oblata di istituti superiori). Siamo 14, rappresentanti dei centri universitari degli Oblati in Congo, Sud Africa, Canada, USA, Filippine, Sri Lanka, India, Polonia. Tra noi anche il superiore provinciale degli Oblati negli Stati Uniti e p. Warren Brown, che guida dall’inizio l’Associazione. Personalmente rappresento il Servizio generale degli studi oblati della casa generalizia. Partecipano anche quattro professori dell'OST.


Fa gli onori di casa Ron Rolheiser, rettore dell’OST e uno degli Oblati più conosciuti nel mondo di lingua inglese. Grande teologo di spiritualità, oltre ad essere un conferenziere molto richiesto nel mondo intero, oltre alle sue numerose pubblicazioni, ogni settimana scrive una paginetta che appare su numerosi giornali e riviste.
Mi ha particolarmente colpito quella dell’altro ieri, che ha preso spunto dalla festa dell’Ascensione e dalle parole di Gesù: “Vado a prepararvi un posto”.

Ron racconta di sua sorella, morta giovane, di cancro, lasciando una numerosa famiglia.
Per il suo funerale lei stessa aveva scelto proprio il Vangelo nel quale Gesù dice che sarebbe andato a preparare un posto, spiegando perché: “Alla nascita di ognuno dei miei figli, prima di andare in ospedale, a casa preparavo tutto con cura per il bambino in arrivo, la culla, i pannolini, i vestitini, la stanza… Poi portavo a casa il bambino, nel posto che avevo preparato con cura. Adesso vado ancora una volta a preparare un posto per loro”.


lunedì 29 maggio 2017

Il segreto per farsi amare


Da Dallas ieri il viaggio è proseguito per San Antonio, dove torno dopo sette anni. Nel 2010 ho passato tre mesi in questa splendida cittadella oblata del Texas, ricca di tanti centri e attività. La trovo più bella che mai. A confine tra Stati Uniti e Messico spero diventi sempre più città sul monte, capace di irradiare luce evangelica.
Torno a vedere con gioia la casetta nella quale ho abitato, mentre adesso sono alloggiato come un principe al Renewal Center.

Piove a dirotto, con un bel caldo umido tropicale, una benedizione per una regione al confine col deserto. E poi oggi si festeggia padre Gerard; la preghiera della messa in sua memoria si rivolge a Dio, "che dona la pioggia": anche in Lesotho è una benedizione di Dio, come nel giorno della sua beatificazione, quando si aprirono le cateratte del cielo e la gente, assieme a Giovanni Paolo II, ritennero quel diluvio una grazia del nuovo beato.

Anche qui oggi si celebra la festa del beato Giuseppe Gerard, uno degli Oblati più amati, perché sapeva amare per primo, come scrive lui stesso: 


"Si catturano più mosche con una goccia di miele che non con un barile di aceto. Per convertire qualcuno bisogna anzitutto conquistarsi il suo cuore. Presso gli indigeni non si può ottenere nulla se non si conquista il loro cuore. Se riuscirete a farvi amare, avrete conquistato la persona che avvicinate...
Il segreto per farsi amare è quello di amare. Vale per i Basotho, i Matobele… Vedendoli uno può domandarsi che cosa fare per convertirli. La risposta si trova in tutte le pagine del Vangelo: amarli nonostante tutto, amarli sempre. Il buon Dio ha voluto che si faccia del bene all’uomo amandolo. I1 mondo appartiene a chi lo ama di più e ne dà la prova…
Penso volentieri a un sacerdote, a un missionario Oblato di Maria Immacolata in una missione. È uno che osserva tutto con i suoi occhi, conosce con il suo cuore, porta la gioia con la sua presenza, si fa tutto a tutti per guadagnarli a Cristo… Ma non si accontenta di rapporti impersonali, sacerdote di tutti ma non abbastanza sacerdote di ognuno. Occorre cogliere l’occasione per dare a ognuno in particolare attenzioni personali, dirette del suo zelo, di modo che ognuno sia certo di essere amato da lui personalmente”.

  

Viaggio in America con Kennedy



“Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese. Cittadini del mondo, non chiedete cosa l’America può fare per voi, ma cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo”.

Era il 20 gennaio 1961 quando John Kennedy pronunciò queste parole nel discorso di insediamento. I tempi sono decisamente cambiati, purtroppo.
Leggo questo testo in prima pagina del domenicale del “Sole 24 ore” di oggi, nel ricordo della nascita di Kennedy, 100 anni fa, il 29 maggio.

Sbarco proprio a Dallas, la città nella quale egli fu ucciso, e in aereo ho potuto vedere il film Jackie, che ricorda il funerale del Presidente.
Il mio viaggio americano inizia quindi nel ricordo di questo mito della mia giovinezza.


sabato 27 maggio 2017

Discepoli per sempre



In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Gesù si avvicinò e disse loro: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Mt 28, 16-20)

Se c’è un giorno nel quale gli Undici meritano il titolo di “apostoli”, ossia “inviati”, sarebbe proprio oggi, il giorno dell’Ascensione, perché oggi, quando Gesù sale al cielo, li invii a tutti i popoli. Il Vangelo invece, li chiama “discepoli”. Li vede ancora legati strettamente a loro Signore, attenti alle sue parole, alla sua persona, pronti a seguirlo ovunque. È come se il Vangelo di Matteo dicesse: adesso che stanno per partire, ora più che mai devono restare uniti al Maestro; mai si dimentichino che la loro identità è tutta nel rapporto con il loro Signore.
Andranno per il mondo intero, ma guarderanno sempre a Gesù, rimarranno costantemente alla sua scuola per sapere da lui cosa dire, come fare.
Oggi il Maestro li manda a “fare discepoli” tutti i popoli, ma non per questo essi diventano maestri. Non hanno una loro dottrina da insegnare. Devono semplicemente trasmettere quello che a loro volta, in quanto discepoli, hanno ricevuto, quello che ancora imparano, giorno dopo giorno. Più che una dottrina devono comunicare una vita: insegnare ad “osservare”, dunque a vivere. Ed insegnare a vivere è frutto di una vita.
Devono “fare discepoli”, ossia portare anche gli altri all’incontro con il Maestro, ricreando le condizioni per quello stesso incontro che in essi aveva segnato l’inizio di un rapporto unico con lui. È comunicazione di un’esperienza, l’unica capace di provocare un’esperienza analoga. È testimonianza di un vissuto.
Come, stando con Gesù, si erano sentiti immergere nella vita di Dio, così d’ora in avanti dovranno “battezzare” i popoli, immergerli nella vita del Padre, del Figlio, dello Spirito, fino a far loro sperimentare l’amore e la comunione trinitarie.

Ne saranno capaci?
Gesù sa quanto sono deboli e incerti, dibattuti tra fede e dubbio.
Per fortuna rimarranno sempre discepoli di un Signore che li precede ovunque essi andranno. Saranno sempre e soltanto discepoli di Gesù e lui con loro, per sempre, come sulle strade della Galilea. Sala al cielo ma non li abbandona: è l’Emmanuele, il Dio con loro.
Noi come gli Undici. Inviati, senza mai allontanarci dal Maestro; annunciatori e sempre discepoli; dispersi nel mondo, con lui tra noi, senza mai sentirci soli.


venerdì 26 maggio 2017

La costa amalfitana in dono


Il mio abituale lavoro di guida turistica, oltre che di taxista, oggi mi ha portato lungo la costa amalfitana.
Sono partito da Vietri sul mare, con le caratteristiche ceramica che ricoprono le pareti delle case e rendono festose le vie. Un’autentica piacevole rivelazione.
Poi ad Amalfi passando Maiori, Minori, e la minuscola Atrani, il comune più piccolo d’Italia eppure un gioiello.


Amalfi appare un po’ pesante con suo rigurgitare dei turisti, sembra artificiale, fatta solo per loro.
Basta però entrare nel Chiostro del Paradiso per vedersi proiettati in una storia antica e gloriosa; è proprio un paradiso.
Lo stesso quando si entra nella basilica del Crocifisso, l’antica cattedrale.
I restauri hanno pulito dal barocco ridondante e hanno restituito la primitiva sobrietà medievale.
Sono soprattutto gli affreschi, anche solo quel che ne resta, a indurre alla preghiera, come si addice a questi luoghi.


Quante cose belle hanno saputo fare i nostri antichi e quale ricchezza d’arte e di fede ci hanno consegnato.
Ma il dono più bello rimane quello che ha creato Dio: la costa amalfitana! Il passaparola di oggi era: “Prendersi cura del creato”. Mi pare che oggi il creato si sia preso cura di me.


giovedì 25 maggio 2017

Una corsa in compagnia


Maria Maddalena de’ Pazzi racconta: «Io vidi che Gesù si era congiunto in stretta unione con la sua Sposa. Aveva poggiato il capo sul capo della sua innamorata, gli occhi su quelli di lei, la bocca, le mani, i piedi, le membra tutte su quelle di lei, cosicché la Sposa era divenuta una cosa sola con lui, voleva tutto ciò che voleva lo Sposo, vedeva e gustava tutto ciò che vedeva e gustava lo Sposo… E allorquando l’anima posa il capo sul capo di Gesù, non può più volere altro che unirsi a Dio e bramare che Dio si unisca a lei».
Ho riportato questa frase di santa Maria Maddalena de’ Pazzi nel libro Dove sei? Mi sono chiesto “dove fosse” questa frase, ma non ho saputo darmi risposta. L’avevo letta chissà quando e chissà da quale parte. L’ho riportata comunque perché ero sicuro che fosse proprio di lei. Me l’ha adesso confermato Bruno Secondin, il massimo conoscitore della mistica fiorentina. La frase si trova nei Quaranta Giorni, dai manoscritti originali (ed. 1960) pp. 121s; nella nuova edizione delle Opere (Feeria 2016), p. 41s.
Maria Maddalena de’ Pazzi, oggi è la sua festa.
Ma oggi è anche la festa della Madonna di san Luca, a Bologna, dove andai in pellegrinaggio per la prima volta a 4 anni.
Anche la festa di san Gregorio VII (la via parallela a quella dove vivo è intitolata a lui!), mirabilmente narrato da Igino Giordani nel romanzo La città murata.
È anche la festa di Beda il Venerabile, antico ricordo degli studi di storia, come pure di Sofia Barat, contemporanea e amica di sant’Eugenio de Mazenod…
Ogni mattina presto, mentre scendo le scale per andare in cappella, scorro l’email che mi dice le decine di santi che si commemorano durante il giorno: una piccola passeggiata in Paradiso che mi ricorda che lassù tanti fanno il tifo per me, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei: “circondati da tale moltitudine di testimoni… corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù…”.


mercoledì 24 maggio 2017

Tre frati ribelli


Olindo Crespi mi ha regalato un libro. Cose che capitano! E mi ha regalato proprio un bel libro, di quelli che si lasciano leggere d’un fiato e che invitato ad essere letti ancora, segno che sono un classico (I classici, diceva Italo Calvino, sono quei libri di cui senti dire: “Sto rileggendo”, e non: “Sto leggendo”).
È un libro di Marcel Raymond. Per quanto abbia cercato non ho trovato notizie dell’autore, se non che è un monaco trappista; segno che è davvero un monaco trappista, che fa parlare poco di sé e dà invece voce ai grandi. Trappista nella famosa trappa del Getsemani nel Kantucky, fondata nel 1849. Famosa, almeno per me, soprattutto grazie a Thomas Merton. Si vede che a metà Novecento era un autentico cenacolo di iniziative, cultura, spiritualità.
Raymond ha composto, in più volumi, una saga sulle origini dei cistercensi. Come non ricordare L’uomo che si vendicò di Dio? (Bisognerà che “rilegga” anche quel libro).

Quello che ho appena letto è Tre frati ribelli, sui fondatori di Citeaux. Un libro del 1946. Un’autentica epopea.
Da parte mia non mi sento tanto portato dalla parte di Roberto di Solermes, che ha un’idea di ritorno alla lettera della Regola nella quale non mi ritrovo molto. Sono piuttosto dalla parte dei suoi avversari, o almeno dell’amico Mauro, per il quale lo sviluppo non è deviazione: “Crescita è segno di vita. Ma crescita significa cambiamento…”. Roberto invece no, vuole la “lettera”, che sola può custodire lo “spirito”: è un radicale.
I dialoghi sono un incanto per forma e contenuto. Si sente un autore appassionato di Dio e del Vangelo, un uomo navigato nella vita spirituale. Nello stesso tempo nessun indugio al pietismo, piuttosto una grande robustezza, che dà spessore al libro.
Una trama che appassiona, un pensiero che fa pensare…
Un libro che non basta leggere. Bisogna rileggerlo, come ogni buon classico.

martedì 23 maggio 2017

Il Bambino delle mani e la sua Mamma



Sabato scorso la notte dei musei mi ha regalato la mostra sul Pintoricchio ai Musei Capitolini. Nel 2011 a Chiusi della Verna avevo visto il “Gesù Bambino delle mani”, frammento di un affresco che papa Alessandro VI aveva fatto dipingere nella sua stanza. L’ho rivisto adesso in questa nuova esposizione, con accanto – ed è la prima volta che appare in pubblico – anche la Madonna che lo sorregge. La tradizione, frutto dei soliti pettegolezzi, ha sempre tramandato che quella Madonna fosse il ritratto dell’amante del Papa. Questo ha fatto sì che il quadro fosse distrutto, salvando però, distintamente, Madre e Bambino. Soltanto all’inizio del 2000 i due quadri sono stati riconosciuti come parte dell’unico dipinto da cui manca, per sempre papa Borgia.
Una copia di quel quadro eseguita prima della distruzione, mostra infatti Alessandro VI in ginocchio davanti al Bambino, di cui tocca un piedino, e da cui riceve la benedizione, quasi l’investitura pontificia.


Il confronto con altre immagini di Madonne del Pintoricchio lasciano capire l’infondatezza della tradizione maligna: quella non è Giulia Farnese, ma proprio una stilizzata astratta Madonna, di una bellezza certamente superiore a quella di Giulia. La leggenda, che ha portato alla distruzione dei quadro, pur salvando i due frammenti  preziosi, è completamente sfatata.
Chissà che la contemplazione quotidiana di quell’immagine sacra non abbia qualche volta faccio breccia nel cuore di quel povero Papa…
A me è piaciuto contemplarli e m’hanno toccato il cuore. Sono due piccoli gioielli, che da soli valgono una mostra. Piacerebbe anche a me averli accanto al letto…  Almeno la riproduzione del Bambino l’ho tenuta per un anno intero!


lunedì 22 maggio 2017

Ma alla fine cos’è che rimane?

  
Nella mia conferenza di ieri, in occasione della festa di sant’Eugenio, ho messo in luce il contrasto tra quanti ne hanno condannato la memoria e quanti ne hanno conservato il ricordo come di un santo.
La fama di santità era viva soprattutto tra il popolo, come ho già avuto modo di scrivere, grazie ai mille piccoli gesti di carità. Tra questi sono ricordate anche le visite nelle case dei malati, nei quartieri più poveri, per dare la cresima.

Oltre alle tante testimonianza ci sono parecchie pagine del suo diario nel quale lui stesso annota:
“Per la terza volta in questa settimana sono andato a cresimare nei nostri quartieri peggiori. Ma esco sempre edificato da questi tuguri, sede della miseria” (Diario, 23 novembre 1838).
“Cresima di un fanciullo morente. Son dovuto salire al quinto piano. Ma quale compenso per un vescovo che sente la sua paternità spirituale vedersi attorniato da una folla di gente povera, ma buona! A ogni piano tutti davanti alla porta con lumi, ricevono la benedizione in ginocchio, la camera del malato parata come il Sepolcro, piena di vicini...” (Diario, 16 ottobre 1838).
“Otto gennaio 1859. Torno da cresimare un’ammalata in via l’Echelle (la via più miserabile del più miserabile quartiere)... Era una gara di attenzioni perché non scivolassi, sorpresi che il vescovo non avesse a schifo tanta miseria. N’era rapita massimamente l’inferma: non sapeva la brava donna che io mi sentivo più felice di lei, in mezzo ai più poveri dei miei figli, e che la classe dei più miserabili è agli occhi miei più degna d’affetto che non i più ricchi e potenti del mondo” (Diario, 8 gennaio 1859).

Al termine della mia conferenza qualcuno mi ha avvicinato e mi ha detto: “Ma alla fine che cosa rimane? Sant’Eugenio ha costruito chiese, istituito associazioni, fondato opere… ma nel cuore delle gente non sono rimaste questi grandi cose, sono rimasti i piccoli gesti d’amore”.
Davvero, alla fine che cosa rimane?


domenica 21 maggio 2017

Sant’Eugenio de Mazenod: pregava come un bamino


La festa liturgica di sant’Eugenio è il 21 maggio ma quest’anno, essendo domenica di Pasqua, viene spostata al 22.
Perché la gente lo riteneva un santo? Per come era vicino a loro, per come amava i poveri, ma anche per come pregava. Significative alcune testimonianza durante il processo di beatificazione

Molti ricordano la maniera di celebrare, con grande solennità e insieme con profonda immedesimazione: “All’altare era un angelo! Dalla consacrazione alla comunione non era più di questa terra: la voce, l’atteggiamento, spesso le lagrime abbondanti tradivano la commozione interiore. Beato chi poteva assistere alla sua messa!”. “Dopo la celebrazione del Santo Sacrificio, faceva mezz’ora di ringraziamento. Lo si vedeva completamente assorto nella preghiera; tutto il tempo in ginocchio, immobile, col capo sulle mani giunte. M’è capitato di sorprenderlo così nella sua cappella e d'inginocchiarmi accanto a lui senza che se ne accorgesse. Alla fine dava un lieve sospiro, come se fosse uscito da un’estasi d’amore” (Can. S. Brieugne ).

“Durante la preghiera appariva come trasfigurato, soprattutto davanti al Santissimo Sacramento esporto e all’altare”. “La sua devozione per l’eucaristia giungeva fino all’estasi” (Agostino Boisgelin).

“M’inteneriva fino alle lagrime mirarlo nelle chiese dove si teneva l’adorazione perpetua. Non tralasciava mai di recarvisi e vi passava mezz’ora, un’ora, in ginocchio, immobile”. E la signora Anna Gazel: “Verso la fine della vita, benché fosse senatore e un grande uomo, anche secondo il mondo, e nobile davanti agli uomini, appariva molto umile e pregava come un bambino”.


sabato 20 maggio 2017

La comunione con i Tre


«Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14, 15-21).

Il Cielo oggi si riversa sulla terra. Gesù prega il Padre ed egli manda lo Spirito e con lui egli stesso si muove incontro a noi, mentre lo stesso Gesù giunge con il Padre e lo Spirito. Tutta la santissima Trinità viene a prendere stabile dimora tra noi.

L’amore soltanto sa vedere e cogliere questa presenza. Il “mondo”, invece, dove è assenza d’amore, non vede e non crede. Spesso noi stessi viviamo come fossimo orfani e ciechi. La pienezza della luce, della vita e della gioia, da parte nostra, è infatti condizionata dalla volontà e dalla capacità di accoglienza: “Se mi amate… Chi accoglie i miei comandamenti…”. Possiamo amare o non amare, c’è chi ascolta e chi non ascolta… Dio ci dona questa tremenda possibilità di accoglierlo o di rifiutarlo, di aprirci a lui o di rinchiuderci in noi: ci ha resi liberi.

Anche Dio è libero, ma in lui la libertà lo apre sempre e solo all’amore e al dono. È certo che il Padre dona lo Spirito, è certo che lo Spirito rimane con noi, è certo che Gesù ci ama e ai manifesta a noi. Dalla sua parte possiamo essere sicuri: non ritira mai la sua promessa, il suo amore non viene mai meno, non nasconde mai la sua presenza. È da parte nostra l’incertezza, la sospensione. Il tradimento è sempre in agguato, come il dubbio, la stanchezza della sequela, l’assuefazione.

Come vedere, sentire, riconoscere Gesù presente tra noi? Se mi amate… Chi accoglie i miei comandamenti…”. La condizione è un amore fatto di concretezza, non di parole soltanto o sentimenti. L’amore, quello vero, spinge a vivere come Gesù ha insegnato e vissuto. Se lo amiamo veramente si accende il desiderio di essere come lui, di dargli gioia nel volere ciò che egli vuoi. Ed è aderendo ai tuoi insegnamenti che, a sua volta, s’accende l’amore e impariamo ad amare.

Se così avviene ecco il miracolo: Gesù è tornato al Padre ed è presente tra noi, è nel Padre e noi in lui e lui in noi.
Siamo veramente in Gesù e Gesù in noi come egli è nel Padre e il Padre in lui? La stessa comunione? Anche lo Spirito è in noi come è in Gesù e nel Padre? Anche il Padre ama noi come ama Gesù, fino a generarlo e a generarci? L’umanità avrebbe mai potuto pensare una simile immanenza, sperare una intimità così profonda, sperimentare una amicizia tanto sincera?
Gesù ci fa vivere come egli vivi, della tua stessa vita: l’amore circolante tra le Tre divine Persone, che nasce dall’Unità di Dio e fa Uno la Trinità; l’amore che ci coinvolge nella loro unità e genera anche tra noi l’unità.

venerdì 19 maggio 2017

Roma sorprendente: la casa di santa Francesca Romana



Mi chiamano ad incontrare una minuscola comunità a Trastevere, in via dei Vascellari (dove una volta c’erano i vasai, che producevano appunti i “vaselli”). Entro dal portone del grande palazzo e all’interno, come spesso capita, eccomi tra scale consumate, anditi angusti, appartamenti con poca luce. Fin quando vengo introdotto nel piano nobile, che si spalanca in splendide sale. Ma dove sono? 

Nella casa dove visse e morì Francesca Bussa, santa Francesca Romana, detta "Ceccolella". Si sposò a soli 12 e venne a vivere qui con marito, suoceri e la famiglia del cognato. Tre figli, dei quali uno solo sopravvisse. Il palazzo divenne un ritrovo per poveri ed affamati che Francesca, assieme alla cognata, accudiva attirandosi l’ira della famiglia. Dopo aver fondato le Oblate di Monte Oliveto a Tor de’ Specchi – le Oblate di santa Francesca Romana! – nel 1440 fu costretta a ritornare a casa per assistere il figlio malato di peste. Anche lei ne fu contagiata e morì dopo alcuni giorni, il 9 marzo 1440.

Da allora il palazzo ha subito mille traversie, fino a diventare, nel 1800, un centro di animazione giovanile. Ci veniva anche il giovane Giovanni Mastai Ferretti, che poi vi tornò più volte da papa, come Pio IX. Giovanni XXIII venne a dare la comunione a 40 bambini...

Ricordo di essere stato qui, casualmente, qualche anno fa per assistere ad un concerto di strumenti antichi… ma che fosse la casa di santa Francesca Romana… In una stanza, dove è morta, c'è il suo bellissimo crocifisso. Una sala è adibita a cappella, con un dolce quadro di Maria Madre di Misericordia.

Quante sorprese riserva la nostra bella Roma.

giovedì 18 maggio 2017

Fratel D’Orazio racconta la sua storia


“Da piccolo andavo spesso con la mamma nei santuari di Maria. Per arrivare a Monte Odorisio, nel santuario di Santa Maria delle Grazie, ci volevano 3 ore a piedi, a quello di Santa Maria dei Miracoli a Casalbordino, 5 ore”.
Il bambino è Beppino e la mamma Rosa. Il nostro Giuseppe D’Orazio era nato a Gissi, in provincia di Chieti, il 24 febbraio 1920.
Dopo la quarta elementare iniziò a lavorare in campagna, fino ai 19 anni, per aiutare i genitori con 5 figli.

Nel gennaio 1939 nella sua parrocchia – Maria SS Assunta e san Bernardino –  arrivano gli Oblati per la missione popolare. Vengono dal convento San Pasquale in Vallaspra, ad Atessa. Giuseppe legge la  “Voce di Maria”, la rivista degli Oblati portata dai missionari. “È il primo soffio, molto leggero, del Signore, che chiama quando vuole. Andai a visitare i padri ad Atessa, 2 ore a piedi. I padri furono molto gentili e mi invitarono a pranzo. Vedendo i cuochi pensai che fossero dei domestici. Poi li vidi uscire a passeggio vestiti da prete e con la croce oblata… Domandai al padre che mi spiegò la vocazione del Fratello Oblato. Gli disse subito: Posso venire anch’io? Mi dette l’indirizzo del Provinciale, gli scrissi e ricevetti la risposta positiva. Era il segno chiaro che Gesù mi chiamava alla vita religiosa.
In agosto andai pellegrino a San Gabriele dell’Addolorata e a Loreto perché mia madre e i parenti non volevano farmi partire. Al ritorno ricevetti il permesso.

Il 16 ottobre 1939 alle 6 di mattina, partii per Atessa poi la sera, alle 20.00 proseguii per Pescara, Torino. A San Giorgio Canavese mi aspettavano per il pranzo, ma persi il treno due volte. Così, dopo aver visitato un po’ Torino, la sera arrivai finalmente a San Giorgio. Il 12 giugno 1941 pronunciai i primi voti, assieme ad altri cinque Fratelli. Padre Rossetti era superiore e padre Morabito maestro dei novizi".

Nella stesura di questo racconto, in occasione dell'anniversario dei suoi voti, ha omesso un particolare che più volte ci ha raccontato. Dopo il noviziato tornò qualche giorno in famiglia. Così scoprì che la mamma era morta e che il papà nel frattempo si era risposato. A quei tempi le notizie viaggiavano lente o semplicemente non viaggiavano. Fu per lui un momento difficile che lo portò alla decisione che d'allora in poi Maria sarebbe stata davvero sua mamma. Si spiega così il suo forte attaccamento alla Madonna e la devozione a lei, espressa in mille modi.

"Ho vissuto 3 anni a San Giorgio Canavese - continua il racconto - e 5 a Oné di Fonte. Poi il Padre generale, Leo Deschâtelets, mi diede l’obbedienza per Roma. Quando il superiore generale mi vide… gli cascarono le braccia! Rimasi a Via Vittorino da Feltre per 3 anni. Il 15 agosto 1950 venni a Via Aurelia 290 e poi… la storia di questi 67 anni la conoscete”.


mercoledì 17 maggio 2017

Fratel D'Orazio, sulla breccia fino alla fine


1950: Fratel Giuseppe accoglie a Ciampino
la "Madonna pellegrina"
e l'accompagna in città
Fu il primo a venire ad abitare in via Aurelia 290, agli inizi del 1950, quando la casa era ancora in costruzione. Per tutto questo tempo è rimasto al suo posto, tra mille incombenze, mentre generazioni di Oblati andavano e venivano. Questa notte è partito, zitto zitto, dopo più di sessant’anni nella stessa comunità, caso più unico che raro per un missionario.

Mi ricordava san Giuseppe Benedetto Labre che, nel 1700, per anni si era aggirato per Roma, da una chiesa all’altra, in un pellegrinaggio perenne, senza fissa dimora. Fratel Giuseppe D’Orazio la dimora ce l’aveva ben fissa, ma anche lui era in moto perpetuo, non soltanto perché visitava le famiglie dei missionari di mezza Italia e oltre, ma soprattutto perché quotidianamente si aggirava per Roma dove, con la scusa delle commissioni, visitava chiesa per chiesa, era presente ad ogni celebrazione di santi, ricalcava tutte le tradizioni popolari. Conosceva tutti e tutti lo conoscevano, credendolo magari un barbone.
In casa si era monopolizzato la cappellina della Madonna della fiducia trasformandola in un santuario personale, con devozioni a volontà, espressione di una fede sincera e appassionata.

Ricordo quando veniva a visitarci a Vermicino: appariva d’improvviso, all’ora meno impensata, e mai a mani vuote: dolci, immaginette e rosari; ne faceva incetta chissà dove e chissà come perché gli piaceva avere sempre qualcosa da donare. È un ricordo comune a tutti e ovunque. Ricordo quando una volta stavo prendendo il volo per non so quale Paese e, nascosta sotto una immagine, mi fece scivolare tra le mani un biglietto da 10 dollari. Anche questo è un ricordo comune a tutti i missionari…
Sabato l’ho accompagnato ancora una volta in Vaticano per le solite commissioni, dispiaciuto di non poter prendete il bus, come faceva di solito, con l’aiuto del suo fedele bastone e di qualcuno che si prestava a porgergli il braccio.

Ieri mattina la novità delle flebo, che per lui non avevano senso, se non l’inconveniente di tenerlo bloccato in letto per mezza giornata, senza che potesse andare in città come aveva programmato. Non si è comunque rassegnato a starsene in stanza e nel pomeriggio, una volta liberato dall’ago, ha citofonato al superiore generale: “Questa mattina non sono potuto andare a messa, può celebrarla adesso per me?”. “Ma veramente, a quest’ora… io ho già celebrato”. Non ci sono santi che tengono, fratel Giuseppe scende in cappella e il superiore deve scendere anche lui a celebrare la messa. Poi a cena con gli altri come sempre.
Finisce così, a 97 anni, nella semplicità d’ogni giorno, una vita spesa per Dio.


martedì 16 maggio 2017

Un santo semplice per gente semplice


Mi preparo alla festa di sant’Eugenio, il 21 maggio, leggendo alcuni piccoli episodi che la gente amava raccontare a suo riguardo. Lo considerava un santo perché vicino a loro.

D’inverno, vestito da semplice prete, incontra per la città un poverello. Un sacerdote, senza essere notato, lo vide togliersi le scarpe, obbligare quello a calzarle, prendere frettoloso la via del vescovado, cercando di coprirsi i piedi con la veste.

Il nipote Boisgelin racconta: “Andando per la diocesi in carrozza s’imbatte in un carrettiere che suda e bestemmia senza riuscire a trarre il carro da un pantano. Scende, si mette di fianco ai cavalli e getta tali grida che questi prendono l’abbrivo”.

P. Lemius racconta che in un quartiere della vecchia Marsiglia una popolana si trova Monsignore accanto alla culla del suo piccino, intento a calmarne gli strilli: passando lo aveva sentito e non aveva saputo resistere.

E il vecchio Gérangier: “Avevo undici anni (1857) e coi compagni del quartiere andavo a giocare a la Tourelle. Spesso quando usciva dal vescovado veniva a piedi verso di noi e con una tenerezza tutta paterna, ci parlava in dialetto. Ci sembrava di vedere Gesù che si avvicinava ai bambini dicendo: Lasciate che vengano a me”.

Un modo per incontrare la sua gente, specialmente quelli dei quartieri poveri della città, era andare a conferire la cresima. Giuseppe Geronimo Gabriel racconta in proposito: “Aveva una dedizione e commovente carità per i poveri. L’ho visto penetrare nelle più umili case, contento di consolare gli sventurati e soccorrerli con abbondanti elemosine. Metteva una grande alacrità nel recarsi dai malati che non avevano ricevuto la cresima, per amministrare loro questo sacramento. Era molto buono al riguardo, ne sono stato testimone molte volte”. “Bisogna vedere come amava i poveri, ai quali ha consacrato la vita”.

Padre Gandar: “Un giorno, abbandonato il suo lavoro, lasciò la seguente nota: Devo uscire per andare a confessare un anziano di 86 anni, che vuole solo me”.


lunedì 15 maggio 2017

Taccuino - Rivivere Maria


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In questo mese dedicato a Maria ognuno di noi e tutti insieme siamo chiamati a riconsacriamo interamente a Maria.
Le diciamo “totus tuus” con tutto il cuore, ci affidiamo interamente a lei perché ci affidi meglio che può a Gesù.
Noi infatti, proprio perché Oblati di Maria Immacolata, siamo chiamati ad avere, per vocazione, una particolarissima unità con Maria. Lei ci ama con un cuore di predilezione e si è costituita questo suo “corpo” perché sia oggi nella Chiesa, in questa umanità sbandata, la sua presenza di misericordia e di corredenzione.
Siamo chiamati d un’unità particolarissima perché le, attraverso di noi, vuole rivivere in mezzo agli uomini: Madre di misericordia, corredentrice del genere umano.
Ecco perché Maria ci è nostra Madre, nostro ideale, nostro Modello, nostra forma, nostro dover essere.

Come essere lei? La Regola ce la presenta tutto una triplice dimensione:
Docile allo Spirito, ella si è consacrata interamente, come umile serva, alla persona e all’opera del Salvatore” (C 10).
“In unione con Maria Immacolata, serva fedele del Signore, sotto la guida dello Spirito, approfondiranno la loro intimità con Cristo” (C 36).
Maria Immacolata, con la sua risposta di fede e la disponibilità totale alla chiamata dello Spirito, è il modello e la custode della nostra vita consacrata” (C 13).
- Serva
- Consacrazione = Cristo
- Spirito Santo

Serva: Maria di appare completamente espropriata, serva, interamente disponibile… non ja più i suoi progetti, le sue esigenze, il suo mondo…
Consacrazione: Maria, tutta consacrata all’opera di Cristo, a Cristo stesso, Non ha un suo progetto, un suo ideale, una sua personalità, perché ha sposato in tutto il progetto, l’ideale, la personalità del figlio.
Spirito Santo: Maria ha compiuto pienamente tutto questo perché docile allo Spirito.

Noi come lei. E per essere come lei, occorre essere lei.
Ecco il senso del nostro affidamento, della nostra consacrazione: donarsi a lei, completamente, perché in noi si compia il mistero che in lei si è compiuto: Cristo.

Tutti Maria per diventare tutti Cristo. (31 maggio 1984)

domenica 14 maggio 2017

Vaticano nascosto: san Pellegrino



Ho accompagnato il nostro vecchio fratel Giuseppe in Vaticano. Sono ormai settantasette anni, o forse più, che vi va regolarmente per i suoi piccoli traffici, tra la farmacia, l’ufficio per le benedizioni… Ora occorre accompagnarlo perché le gambe non lo reggono più.
Così parcheggiò in via del Pellegrino (non sapevo neppure esistesse una via del Pellegrino), sbrigo le partiche mentre il fratello rimane in macchina, e prima di risalire vedo proprio davanti a me la modesta facciata di una chiesetta; neppure di questo conoscevo l’esistenza, ci sono ben altri monumenti in Vaticano! È la chiesa di san Pellegrino. Entro e non credo ai miei occhi. Silenzioso, nella penombra, mi appare un grande Cristo nell’abside dietro l’altare. Ne sono come magnetizzato tanto è bello. Gradatamente scorgo gli altri affreschi. Sono entrato in un tempio d’arte e di storia.

Nell’antichità e nel medioevo vi giungevano i pellegrini provenienti dal Nord, lungo la via Cassia, che li portava a Siena, Bolsena, Vetralla, Sutri. Arrivati sul Monte Mario potevano finalmente contemplare la città santa. Si rimettevano in cammino per l’ultima tappa fino alla via che introduceva nella basilica di san Pietro e che giustamente si chiamava, come oggi, via del Pellegrino, fermandosi alla chiesa di san Pellegrino, ormai a cento metri da piazza san Pietro.

Ascolto Antonio Paolucci, fino a poco tempo fa direttore dei Musei Vaticani:
“Qui i pellegrini ringraziavano il Signore per il buon esito della loro avventura, qui negli ospizi e nelle infermerie annesse trovavano accoglienza e conforto: un pasto caldo e un giaciglio, cure per i malati, consigli per la visita alle basiliche, alla Scala Santa, alle infinite prodigiose reliquie di cui brulicavano le chiese di Roma. In ginocchio di fronte al Cristo Pantocratore affrescato nel catino absidale e oggi dopo infinite ridipinture e restauri ridotto all'ombra dell'ombra di quello che era, i cristiani d'Italia e d'Europa capivano che la felicità è la fine del viaggio, che il viaggio è metafora della vita, che il Paradiso attende ogni credente sotto il cielo”.
La chiesa in seguito divenne la cappella delle Guardie Svizzere, poi un pollaio, ora la cappella della Gendarmeria vaticana.

Un gioiello piccolo, nascosto, nell’immenso tesoro vaticano. Rimane un luogo nel quale si può pregare e contemplare, come gli antichi pellegrini, quel Cristo glorioso che è la vera meta di ogni viaggio.