giovedì 30 aprile 2020

Femmine sul Covid 19



«Cara Giuseppina – scrive don Milani a una delle bambine della scuola di Barbiana il 9 maggio 1966 – mi rivolgo a te perché come sai l’unica differenza tra i maschi e le femmine è che le femmine capiscono qualcosa nei fatti altrui mentre i maschi capiscono solo nei loro propri».

Ecco perché a discernere e decidere sul Covid 19 accanto ai maschi ci vorrebbe un po’ più di femmine... soprattutto se hanno un sorriso come queste bambine della scuola di Barbiana.


mercoledì 29 aprile 2020

Le parole del Risorto / 7 / Non sono un fantasma, sono proprio io



Dopo il saluto di pace, la parola che il Risorto rivolge agli Undici e agli altri discepoli è un invito a credere in lui.
Quando se l’erano visto improvvisamente in mezzo a loro, erano rimasti “sconvolti e pieni di paura”. Pensavano che fosse un fantasma.
Un’altra volta, quando Gesù era venuto loro incontro sul lago, di notte, lo avevano scambiato per un fantasma: “è un fantasma, gridarono dalla paura”. Così raccontano gli altri due Sinottici. Allora Gesù li rincuorò: “Coraggio, sono io, non abbiate paura” (Mt 14, 26; Mc 6, 49). Era già una scena di risurrezione!
Luca ripresenta quella scena nel cenacolo. Anche questa volta Gesù vuole infondere pace e gioia al posto dell’agitazione e del timore: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” (24, 38).
Sconvolti, pieni di paura, turbati, dubbiosi: quattro parole che richiamano la tempesta sul lago, l’animo dei discepoli agitato come le onde, squassato dal vento forte…

Il Risorto ora si rivela nella sua identità più profonda: “Sono proprio io”. Solitamente questa autorivelazione, “Sono Io”, Ego eimi, la sentiamo esprimere da Gesù nel Vangelo di Giovanni, ed ha il valore forte di quell’“Io sono” con il quale Dio si fa conoscere a Mosè. Gesù è l’Io di Dio, è il Signore Dio.
Ma quale Dio! Un Dio crocifisso! “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io” (24, 39). Per farsi riconoscere mostra i segni della passione. Colui che è lì presente è l’identico Gesù che è stato crocifisso.
L ‘“Io sono”, il Dio di Gesù Cristo, è un Dio che ha amato fino a morire per noi. Il Risorto non è un altro, è lo stesso Crocifisso.
Se lui, Iddio, è qui, “sta in mezzo” a noi, come afferma Luca narrando l’incontro del Risorto con i discepoli, ed è espressione di un amore infinito, da Dio, che cosa c’è più da temere?

Luca, al pare di tutti gli altri evangelisti, a questo punto dice che i discepoli non credettero. Ma Luca è l’evangelista della misericordia e anche in questo momento non si smentisce: “per la gioia non credevano” (24, 41).
Gesù sbarazza comunque ogni dubbio: “Toccate e guardare; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho” (24, 39).
Anche Giovanni, nel racconto della risurrezione, riporta le stesse parole, ora rivolte a Tommaso: toccare e guardare.
Addirittura, in Luca, Gesù chiede di poter mangiare, per far vedere che non è un fantasma: “Avete qui qualche cosa da mangiare?” (24, 41).  Gli esegeti mettono subito le mani in avanti e spiegano che non è che proprio Gesù si sia messo a mangiare il pesce come racconta il Vangelo, sarebbe soltanto un modo per esprimere in maniera realista la realtà corporea di Gesù. 
Comunque all’inizio della seconda parte della sua opera, gli Atti degli Apostoli, Luca scrive che quella sera “si trovava a tavola” con i discepoli (1, 4). Più avanti riporta le parole di Pietro che racconta: “Noi abbiamo e mangiato con lui dopo la sua risurrezione» (10, 41).

Quel “toccate e guardate” è di una bellezza straordinaria. Tutti hanno bisogno di toccare, le donne, la Maddalena, Tommaso. Come lo capiamo, adesso che siamo in piena pandemia! E guardare… non soltanto su uno schermo, ma dal vivo!
Sono due parole che dicono la verità e la profondità di un rapporto che tutti vorremmo avere con Gesù. Un rapporto che ci libera dai tanti fantasmi che sconvolgono la nostra pace. Un rapporto che fa riconoscere dietro il velo di quanto ci fa paura, il volto splendente del Risorto, e trasforma le nostre piaghe in amore, come le sue.


martedì 28 aprile 2020

Ricomincia

Questa mattina, dalla mia finestra...


Anche questa mattina
la vita ricomincia.
Ricomincia ogni mattina.

lunedì 27 aprile 2020

L’esperienza di p. Ermanno a Loppiano / 5


Un'altra pagina della meravigliosa avventura di p. Ermanno Rossi.

Nella seconda metà degli anni 60, assieme ad altri due religiosi - un cappuccino ed un domenicano francese - fui chiamato ad insegnar teologia morale all’Istituto Mystici Corporis del Movimento dei Focolari, presso Firenze, in una località chiamata Loppiano.
Presto il padre cappuccino ci lasciò perché eletto provinciale della sua provincia religiosa di Trento. Rimanemmo così soli, Michel ed io.
La convivenza fu subito difficile. Eravamo due tipi opposti per temperamento, mentalità ed estrazione sociale. Questa difficoltà si esprimeva anche nelle piccole cose. Ad esempio, mentre spazzavo mi si avvicinava e mi diceva: “La scopa non si tiene così, Ermanno, ma così”. Andavo nel bagno, e lui mi faceva notare le goccioline sullo specchio. Dicevamo il Rosario e lui osservava: “Un mistero lo enunci tu ed uno io…”, perché non apparisse la mia superiorità… (io ero il responsabile di questa mini comunità).
Fu una specie di rieducazione…
Un giorno, come risposta ad una sua osservazione biricchina - “Ermanno, non ti avrei mai scelto per moglie” - gli dissi: “Eppure, Michel, il Signore - per iniziare quest’esperienza - ha preso noi due, te dal nord della Francia e me dal sud dell’Italia. Sono convinto che quando riusciremo ad essere uno, il Signore ci separerà e tu verrai a cercarmi dove sono”. Fece un’esclamazione che esprimeva tutta la sua incredulità. Egli aveva una grand’esigenza di libertà: questo è un atteggiamento tipicamente francese.

Fu un'esperienza di quattro anni. Quattro anni per fare i primi passi nella via dell'amore.
Una delle prime cose che compresi fu che dovevo perdere tutto per amore del fratello: egli diventava la misura per me.
Capii, inoltre, che la causa del disagio non proveniva da lui, ma da me: la misura del mio amore era troppo piccola per lui; egli non ci si trovava comodo. Occorreva, dunque, dilatare l'amore.
Fu una scoperta progressiva.

Al termine di questi quattro anni, il Signore ci separò. Affidò a me un altro compito, un'altra avventura. Michel è tornato più volte da me per chiedermi di riprendere l’esperienza; ma ormai la volontà di Dio era un’altra.
Fui incaricato della Segreteria Internazionale del Movimento dei Religiosi, con sede in Roma. Un'esperienza nuova, forte. Per quattro anni ho girato tutta l’Europa libera. Ho visto rinascere la speranza in tanti religiosi. Ho visto il fiorire di comunità nuove. Tanta luce.
Poi per me è di nuovo tutto cambiato.
È cominciato un nuovo ciclo nella mia vita. Ho perduto tutto, tutto quello che avevo di più caro. Ma due cose ho vive nell'anima, immensamente più radicate: la certezza dell'amore di Dio, più forte della morte - quella morte che tante volte sento in me, nella mia carne - e il valore della Parola di Vita se la viviamo.


domenica 26 aprile 2020

Lingua italiana, battaglia persa


Davanti alla mia finestra volteggiano le Frecce tricolore: 25 aprile, viva l’Italia.

Sulla prima pagina del Corriere della Sera noto l’annuncio che al settimanale del giornale è allegata la bandiera tricolore. Il mio piccolo battito di orgoglio patrio viene subito represso quando leggo bene l’annuncio: troverò il tricolore nel “magazine”. Perché “magazine”, proprio per allegare la bandiera italiana? Non sarebbe più appropriato che distribuisse la bandiera inglese o americana?

Mi viene in mente quando salgo sul treno Italo (quando salivo… ormai!). Subito viene annuncia, in italiano, che per qualsiasi evenienza sarà bene contattare il “train magager”. Perché lo chiamano Italo e non Anglo? Abbiamo perso per sempre il capo treno, che dava tanta sicurezza…

Ricordo che a un aeroporto, nell’annuncio diramato in italiano per altoparlante, l’Alitalia aveva usato una terribile parola ricalcata sull’inglese. L’ho fatto notare al banco della Compagnia. La signora si è un po’ risentita difendendo il termine. Poi mi ha fatto gli occhi dolci e con un sorriso di commiserazione mi ha detto: “Lei è un professore, vero?”. “Sì, sono un povero vecchio professore”.
Scusate. Anzi: Sorry.

sabato 25 aprile 2020

È apparso a Simone



Questi giorni dopo Pasqua sto meditando sulle parole del Risorto. Qualcosa metto sul blog. Ma bisognerebbe meditare anche sui suoi silenzi.
Un silenzio è quello del Vangelo di questa domenica.
Ieri ho riportato le parole del Risorto ai due di Emmaus. Quando, pieni di gioia, tornarono a Gerusalemme, trovarono una sorpresa: “Davvero il Signore è risorto – dissero loro gli Undici e gli altri discepoli riuniti – ed è apparso a Simone” (Lc 24, 34). “Come?”, si saranno chiesti e avranno chiesto i due di Emmaus. “Se il Signore stava con noi come poteva essere anche qui a Gerusalemme?”. Piano piano tutti iniziano a prendere coscienza che Gesù non è più limitato dal tempo e dallo spazio, ma contiene in sé tempo e spazio, ed è presente ovunque e sempre: è il compimento della sua incarnazione.

Gesù è dunque apparso a Simone. “Apparve”, un verbo caratteristico della risurrezione, ōphthē, si fece vedere: un’autentica rivelazione che sconvolge la vita.
Secondo l’evangelista Luca, Pietro è il primo a cui Gesù risorto si fece vedere. Lo fa intendere anche Marco (16, 7) e, prima di lui, lo stesso per Paolo, che riporta una antica formula tramandata dall’inizio, che egli ha ricevuto e ha trasmesso a sua volta:
“che Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15, 3-5).
E cosa disse a Pietro?

Ci sono altre persone, racconta Paolo, a cui Gesù si è rivelato: a cinquecento “fratelli”, a Giacomo “fratello del Signore” che reggerà la comunità di Gerusalemme (1 Cor 16, 6-7). E cosa ha detto loro? Come per l’incontro con Pietro, non ci è tramandata alcuna parola del Risorto.
Ma soprattutto è apparso a Paolo, l’unico, tra tutti i testimoni, che racconta il fatto in prima persona. La sua testimonianza torna di frequente nelle sue lettere:
- “Non ho visto Gesù, nostro Signore?”, grida nella prima lettera ai Corinti (9, 1)
- “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto” (15, 8)
- “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2 Cor 4, 6).
- “Dio si compiacque di rivelare a me in Figlio suo” (Gal 1, 16)
- Paolo ha conosciuto Cristo e “la potenza della sua risurrezione” (Fil 3, 10).
Chiamata, rivelazione, conoscenza, splendore, visione…, tante parole per dire l’evento, ma non una parola da parte del Signore, né a Paolo, né a Pietro, né ai cinquecento, né a Giacomo…

Sicuramente avrà loro parlato, ma il suo apparire è un’esperienza così straordinaria, così sconvolgente, che non ha bisogno di parole. È egli stesso la Parola! È l’evento che conta, non la sua spiegazione.
È un contatto diretto, immediato tra il Risorto e la persona a cui si rivela, capace di provocare un’unità indicibile, che cambia per sempre la vita.
La forza di affrontare le persecuzioni e la morte, la costanza nelle prove, il coraggio dell’annuncio del Vangelo, l’efficacia della testimonianza vengono da questa esperienza profonda. È questo rapporto personale a dare sapore e senso alla vita.

venerdì 24 aprile 2020

Le parole del Risorto / 6


Il secondo incontro di Gesù con i suoi, Luca lo colloca a Gerusalemme, dove i due discepoli provenienti da Emmaus sono tornati di corsa.
Questa volta nessun verbo di moto: il Risorto “stette in mezzo a loro” (24, 36). Gesù non viene da di fuori, non appare (come invece traduce la versione della CEI). Semplicemente “stette” (éstē). Era già lì, presente, anche se non lo vedevano.
È la nuova realtà della Chiesa, che è tale perché il Signore “sta” in mezzo ai suoi (Mt 18, 20), costantemente (Mt 28, 20), come ha ricordato Matteo.
Il “miracolo”, se così vogliamo chiamarlo, non consiste nel fatto che essi vedono Gesù, ma nel fatto che, pur presente, non lo vedono! C’è e abitualmente non lo vedono; c’è sicuramente, sia che ne avvertano la presenza, sia che non l’avvertano.
Adesso, nella sera del primo giorno, si mostra per insegnare loro a riconoscerlo presente comunque e ovunque.
E parla: “Pace a voi”.

Il Vangelo di Luca si è aperto con gli angeli che, alla nascita di Gesù, augurano la pace in terra, ora termina con Gesù che dà la pace promessa.
“Shalom”, la “Pace”, era il dono atteso per gli ultimi tempi. Il Messia era sospirato come “Principe della pace” (Is 9, 5). Si sapeva che avrebbe portato la giustizia e rappacificato l’uomo con se stesso, riconciliandolo con Dio e con gli altri, dando vita a un’umanità che non avrebbe più conosciuto l’arte della guerra (Is 2, 4), perché pace e giustizia si sarebbero baciate (Sal 85, 11).

“La nostra pace” ormai ha ormai un nome, è Gesù, il Risorto (Ef 2, 14). Egli ci ha “riconciliati nel corpo della sua carne, per mezzo della sua la morte” (Col 1, 22).
Per questo Paolo saluta abitualmente i suoi augurando “la pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo”, e parla del “Dio della pace” (1 Tess 5, 23), del “Signore della pace” (2 Tess 3, 16), e designa la pace come “la pace di Cristo” (Col 3, 15).
“Pace a voi”. È il dono del Risorto, il frutto della sua presenza in mezzo a noi.

giovedì 23 aprile 2020

Il perdono di padre Ermanno - 4

A un incontro di religiosi,
Rocca di Papa, febbraio 1975

Nel libro Sarai tutta sua, Luigina Nicolodi racconta un episodio vissuto con p. Ermanno Rossi.


Dietro richiesta di un giovane domenicano, padre Ermanno Rossi, mi recai nella sua città, Nocera Inferiore. Il primo viaggio lo facemmo insieme; in treno mi raccontò di quanti avrei conosciuto, voleva presentarmi la sua famiglia e il gruppo che aveva invitato.

M’interessai dei suoi familiari e durante il viaggio padre Ermanno mi narrò storie di dissapori con i suoi parenti che si trascinavano da anni, per piccole cose o per pochi metri di terra. Tra noi in focolare era così vivo il senso del chiedere perdono in ogni circostanza, che gli feci una proposta, sarei rimasta da sua madre mentre lui sarebbe andato a chiedere perdono per le faccende di cui mi aveva accennato e solamente dopo mi avrebbe raggiunto a casa sua per cominciare assieme la riunione, che non si poteva tenere se “noi non abbiamo fatto il primo passo”, gli dissi.
Padre Ermanno rimase sbalordito da quell’idea, ma convenne che era l’unica cosa evangelica da farsi e sulla quale poggiava la diffusione della spiritualità dell’unità a Nocera.

Fu così che mentre lo attendevo insieme a sua madre, ai suoi familiari e a un nutrito gruppo del vicinato, si diresse da una sua zia, suonò il campanello con un batticuore da non dirsi, si trovarono di fronte, rimasero muti e imbarazzati. Padre Ermanno balbettò delle scuse: la controversia doveva considerarsi acqua passata tra loro. La zia si commosse, lo abbracciò e, come conclusione, gli offrì pure una fetta di torta.

Padre Ermanno arrivò raggiante di felicità, ci raccontò per filo e per segno come era andata e così, in mezzo a una gioia che non si può descrivere, cominciammo il nostro primo incontro a Nocera Inferiore.

mercoledì 22 aprile 2020

Le parole del Risorto / 5


Il terzo evangelista mostra il primo apparire del Risorto “fuori contesto”: non nei luoghi abituali, siano essi Gerusalemme o la Galilea, non alle persone più vicine come le donne e gli Undici. L’incontro avviene banalmente per strada e nemmeno una di quelle battute normalmente dal Maestro, e con due personaggi oscuri, di cui la tradizione ha tramandato un nome soltanto, Cleofa.
I due si allontanano dal cuore dell’evento di Pasqua e dal gruppo dei discepoli, quasi una scissione, un gettare la spugna. A questa nota di divisione con gli altri si aggiunge la divisione tra loro due: “discutevano… dibattevano l’uno con l’altro”. In una parola, erano “tristi” (24, 15.17).

Gesù “si avvicinò” e “camminava con loro”. Anche in Luca i primi due verbi del Risorto sono verbi di movimento.
Loro si allontanano e lui si avvicina. Sembra il buon pastore che va in cerca della pecora smarrita e la trova su una strada di periferia. Si avvicina e fa la strada con loro. Solitamente è il contrario: egli è il Maestro che tutti seguono. Ora, per amore dei due dispersi, smarriti e tristi, egli si fa discepolo e li segue sulla loro strada. L’amore mette l’altro al primo posto e si pone a suo servizio. Come il buon Samaritano, Gesù si fa prossimo.

Al gesto fa seguito la parola: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino? Che cosa è accaduto?” (24, 17-18).
Gesù si interessa davvero a loro, entra nel loro dolore. È il primo passo necessario per poi offrire la sua luce.
Ed ecco la seconda parola: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (24, 25-26). 
Ora che s’è fatto “uno” con loro, può far renderli coscienti di quanto siano sciocchi e tardi di cuore. È un rimprovero che fa loro bene, che li scuote. Lo accettano volentieri perché proviene da qualcuno che si è interessato sinceramente a loro, che li ha ascoltati, che ha condiviso il senso di frustrazione e di fallimento. Lo sentono vicino e amico.

Allora il Risorto comincia a parlare e, partendo “da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (24, 27).
Gesù che spiega le Scritture! Davvero il Maestro! Camminavano lungo la strada e insieme camminavano lungo le Scritture e a mano a mano che il Risorto le commentava il cuore si scaldava fino ad ardere in petto.
Luca non riporta l’excursus biblico. Ma quei riferimento del Signore sono divenuti patrimonio della Chiesa. Nella seconda parte della sua opera, gli Atti degli Apostoli, l’evangelista riporterà, fin dal primo discorso di Pietro il giorno di Pentecoste, le parole della Scrittura che si riferiscono al Cristo. È una luce che, grazie anche allo Spirito che Gesù manderà, illuminerà le profezie e in tutta la Bibbia risuonerà il mistero di Cristo morto e risorto.

Alla fine i due sono fusi in uno dal fuoco che ha acceso il loro il Risorto e, uniti tra di loro, si riunisco ai discepoli facendo il cammino a ritroso, tornando da quanti si erano separati.

È la vita della Chiesa di sempre, di ieri come di oggi. Gesù che ci raggiunge là dove siamo, anche nei luoghi più periferici e più comuni, nella vita d’ogni giorno. Non va necessariamente da persone importanti, va da un Cleofa qualsiasi, da una persona anonima come il suo compagno, come lo siamo anche noi.
Ovunque possiamo trovarci – anche nel peccato – cammina con noi, condivide ogni sofferenza e delusione, ci illumina con la sua presenza e con la sua parola per ricondurci sulla buona strada, all’unità.


martedì 21 aprile 2020

Le parole del Risorto / 4



Il Vangelo di Marco si interrompe misteriosamente con l’annuncio dell’angelo alle donne. Il racconto prosegue comunque con un testo del II secolo, accolto dalla Chiesa come ispirato e parte integrante del Vangelo.
Secondo questa aggiunta, il Risorto si rende visibile a Maria di Magdala, ad altre due persone in cammino verso la campagna e finalmente agli Undici.
È bello come questi vengono designati al versetto 16, 10: “quanti erano stati con lui”. È il senso vero del discepolato: stare con Gesù.  Era quello che Gesù voleva fin dall’inizio quando li chiamò a sé “perché stessero con lui” (3, 14). Lo era per gli Undici, lo è per noi oggi.
Gesù li trova a tavola, quasi a ricordare a tutti i cristiani, che il luogo d’eccellenza per incontrare il Risorto è la mensa del Signore, quando la comunità si ritrova insieme per spezzare il pane.
A loro egli rivolge la parola:

“Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”.
Il luogo angusto nel quale i discepoli si sono rifugiati si spalanca sul mondo intero. Ripiegati su se stessi, “in lutto e in pianto”, vengono ora liberati e partono, andando dappertutto, senza più paura, perché “il Signore agiva insieme con loro” (16, 20).
È l’attuazione della promessa con cui si era chiuso il Vangelo di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28, 20).
Anche il mandato di Marco ha, nel testo greco, per due volte la parola “tutto”: tutto il mondo, tutta la creazione.
Nel Vangelo di Matteo Gesù inviava ad andare a “tutte le nazioni”, adesso l’orizzonte si dilata su “tutte le creature”. Il Risorto è Signore di tutto il creato: tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui e tutto è destinato ad essere ricapitolato in lui (Ef 1, 10). A lui appartiene “il primato su tutte le cose”, e al Padre piacque “riconciliare [in lui] tutte le cose” (Col 1, 19-20). Paolo lo aveva ben capito: il suo vangelo “è stato annunciato in tutta la creazione” (Col 1, 23).
Non a caso in questo brano di Vangelo, Marco chiama il Risorto: “Signore Gesù” (16, 19), unica volta in tutti i Vangeli. Egli è davvero il Signore della gloria, che riempie di sé “tutto il creato”.

“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo – continua Gesù –, ma chi non crederà sarà condannato” (16, 16).
Fede e battesimo, adesione piena alla morte e risurrezione di Gesù, sono la nostra salvezza, ci introducono nel mondo nuovo, nella nuova creazione operata dal Signore.
Condanna a chi rifiuta l’annuncio della risurrezione.
È il dramma della lotta tra luce e tenebre, tra vita e morte: “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già condannato” (Gv 3, 17).

“E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18).
Sono promessi cinque miracoli. Alcuni li ritroviamo già lungo gli Atti degli Apostoli: la cacciata di demòni (Atti 5, 16; 8, 7; 19, 12), il parlare le lingue (Atti 2, 4.11), la liberazione da veleno e serpenti (Atti 28, 3-6), la guarigione dei malati (Atti 5, 16; 19, 11-12).
Al di là dei singoli episodi, Gesù invita ad operare “nel mio nome”, quel nome “che è al di sopra di ogni altro nome”, davanti al quale “ogni ginocchio si piega nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2, 9-10). Ancora una volta Gesù si mostra Signore della storia e del creato. Niente è impossibile se è compiuto nel suo nome, se è lui che opera in noi.
Egli è presente nei suoi inviati, nella Chiesa di ieri e di oggi. Salito al cielo e assiso alla destra del Padre, egli rimane con noi e opera in noi: “il Signore agiva insieme con loro”.


lunedì 20 aprile 2020

O felix culpa?



100 religiosi da tutto il mondo. 100 perché il programma di collegamento internet non ne consentiva di più. 100 amici, tanti dei quali non li vedevo da anni. 

Di colpo questo pomeriggio me li sono trovati sullo schermo, tutti insieme, vicini, come se ognuno fosse nella mia stanza, con me, seduto attorno allo stesso tavolo.
Ci siamo detti poche cose, ma quello che si dice a volte non ha importanza. L’importanza è sentirsi uniti, fratelli, legati oltre le barriere dello spazio: uno!

Grazie coronavirus che ci hai consentito di fare un’esperienza così bella di unità.
Grazie coronavirus? Affermazione assurda? Ma non abbiamo cantato nella notte di Pasqua, su ispirazione di sant'Agostino, quella contradictio in terminis: “o felix culpa”?
Anche dal male può venire il bene? Non so, sicuramente il male ci obbliga a rientrare in noi stessi, a cercare il bene nascosto, a farlo rifiorire e a condividerlo per un bene più grande.

domenica 19 aprile 2020

L’incontro di padre Ermanno con Graziella / 3


Con p. Ermanno a Cadice in Spagna
Il racconto del primo incontro di p. Ermanno Rossi con il Focolare.

La prima notizia [del focolare] mi è giunta, nel '50, attraverso una lettera. Allora ero giovane sacerdote (Sono stato ordinato nel '49).
P. Tovini - un mio confratello di Pistoia - aveva conosciuto la Graziella, quando ella si recava a trovare Pasquale Foresi, e l’aveva invitata a parlare ai terziari di cui era assistente spirituale. N’era rimasto scioccato. Ha comunicato, allora, la sua scoperta a me, che ero ad Arezzo, e al p. Valentino Ferrari, che viveva a Roma.
Con Tovini e Valentino avevamo vissuto assieme prima del sacerdozio. Eravamo molto uniti tra noi, desiderosi di far qualcosa per il nostro Ordine.

Il mio primo incontro diretto con Graziella l’ho avuto, però, solo nell'estate di quell’anno a Roma, mentre mi recavo per andare a casa.
Andai al focolare femminile di Via XXI Aprile, guidato dal P. Valentino.
Questi – dopo aver ricevuto la lettera di p. Tovini - aveva preso contatto con Chiara che viveva, in quel tempo, alla Garbatella. N’era rimasto affascinato. Così quel giorno mi condusse nel focolare femminile…
Venne ad aprirci la Vale, giovanissima: ricordo un viso luminosissimo! C’introdusse nel salottino; poi scomparve. 
Venne Graziella. Anche essa mi diede un'impressione di luce fortissima.
Feci molte domande d’approfondimento, ma l’annuncio dell’Ideale non mi procurò alcuna difficoltà. Ero un libro aperto.

In quel momento non compresi da dove proveniva il fascino; dopo, ho capito che la fonte era Gesù in mezzo. Quelle ragazze vivevano nella carità reciproca; si realizzava, così, la promessa di Gesù: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi…”.
Con la sua presenza tutto acquistava significato.

In due occasioni ho avuto modo di trascrivere quanto p. Ermanno mi raccontava di ciò che l’Ideale dell’unità aveva portato nella sua vita di religioso:

sabato 18 aprile 2020

Le parole del Risorto / 3



Dopo l’incontro con le donne, Matteo prosegue il suo racconto spostando l’azione in Galilea, per il secondo e ultimo incontro del Risorto, questa volta con gli Undici.
Le donne avevano loro riferito l’invito di Gesù ad andare in Galilea, dove li aspettava e dove lo avrebbero visto (28, 10). Così, terminate le festività della Pasqua, essi erano tornati nella loro terra. Nessun accenno da parte dell’evangelista ad incontri con il Risorto a Gerusalemme.

Perché Gesù attende i suoi in Galilea, su un monte che aveva loro fissato? (28, 16).
Forse perché occorre sempre ripartire dalle origini. Prima di spandersi nel mondo l’albero della Chiesa deve tornare a fissare le radici. In Galilea i discepoli hanno imparato a seguirlo. Ora devono tornare lì per un nuovo inizio, per imparare a seguirlo in un modo diverso. Con la risurrezione niente è più come prima, non possono più seguire Gesù lungo le strade della Galilea e della Giudea come avevano fatto fino ad allora. Egli ha superato le barriere del tempo e dello spazio... Vive in una dimensione diversa, quella dello Spirito, e lo si seguirà nello Spirito.

Dà ai tuoi discepoli, e a noi, appuntamento in Galilea perché quella prima irrepetibile esperienza di cammino dietro a lui, che da lì ebbe inizio, rimane paradigmatica per i secoli, per ogni generazione. Sempre dovremo leggere e ascoltare le prime parole pronunciate in Galilea: “Vieni e seguimi”. Sempre abbiamo da lasciare reti, barca, padre e deciderci per lui. Sempre dobbiamo riprendere il cammino verso Gerusalemme per imparare, nell’ascolto attenti di ogni sua parola e con lo sguardo ad ogni sua azione, ad amare e a donare.

Mentre sono sul monte – il monte della trasfigurazione? Non era quell’evento l’annuncio della risurrezione? – Gesù si avvicina. L’angelo alle donne aveva detto di annunciare ai discepoli che il Signore i avrebbe “preceduti”: un altro verbo di movimento, simile a quello che lo fece andare incontro alle donne. Gesù ci precede sempre. Ovunque andiamo è già lì che ci attende. L’ignoto non c’è più, c’è una presenza.
È l’azione tipica del Risorto: “si avvicinò” (28, 19), si rende vicino! Lo è come quando camminava con i discepoli lungo le vie della Galilea. Lo è di più ora di allora. E consegna loro le ultime sue tre parole.

“Mi è stata data tutta l’autorità (exousia) in cielo e in terra” (28, 18).
Tutta! Per quattro volte, nelle parole del Risorto rivolte ai discepoli, torna il termine “tutto”: tutta l’autorità, tutte le genti, tutto ciò che Gesù ha insegnato, la sua presenza per tutti i giorni. È come se la pienezza pasquale ormai strabordasse in una totalità che tutto avvolge.
Prima di affidare ai discepoli una missione che sembra impossibile, il Signore li assicura: andranno perché egli li rende partecipi della sua forza e della sua potenza. Egli ormai è entrato nella gloria, è il Signore della storia, l’onnipotente, il suo amore può tutto.
Gli Undici sono consapevoli della loro fragilità, inadeguatezza, sperimentata nel rinnegamento, nel tradito, nell’abbandonato del Maestro. Ma adesso Egli si fa nuovamente presente, li ha convocati dal Risorto per offrire loro l’opportunità di ricominciare, non come se nulla fosse accaduto, ma proprio perché tutto è accaduto.
Nessuna presunzione nelle proprie capacità, ma solo la fiducia nella forza del Signore che sostiene ogni debolezza. In Lui adesso tutto è possibile, anche accogliere e obbedire alla seconda parola:

“Andate dunque e fate miei discepoli tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (28, 19-20).
Fare discepoli! Come Gesù aveva fatto con loro. Dovranno ripetere le parole udite dal Maestro, insegnando così a vivere le sue parole. Non è tanto una dottrina da insegnare, quanto una vita da trasmettere, introducendo in un rapporto personale con Gesù, fino a condividerne la vita.
È l’immersione (battesimo) nella vita del Dio rivelato da Gesù, un Dio amore, che è rapporto tra d’amore tra le tre divine Persone e nel quale siamo coinvolti, battezzati.
Missione impossibile? Non più, perché non vanno di propria iniziativa, li manda colui che ha ogni autorità in cielo e in terra, e li investe della sua stessa autorità e forza. Ormai egli sarà sempre con loro e sarà lui a guidarli e ad operare in loro. Siamo così alla terza parola:

“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28, 20).
Il Vangelo si era aperto con l’annuncio dell’Emmanuele, il Dio con noi (1, 23), a metà aveva promesso la sua presenza tra quanti fosse stati uniti nel suo nome (18, 20), ed ora l’assicurazione che Dio sceso tra noi rimarrà per sempre con noi.
È con questa parola che si chiude il Vangelo.
Il libro del Vangelo si chiude, ma Egli rimane, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

venerdì 17 aprile 2020

Le parole del Risorto / 2



La missione che il Risorto affida alle donne è di “andare ad annunciare ai miei fratelli…”.
Fratelli! Gesù li chiama fratelli. È la prima volta.
Aveva detto che nessuno di loro si facesse chiamare maestro, perché discepoli erano fratelli gli uni gli altri (23, 8). Aveva detto che considerava propri fratelli più piccoli le persone a cui facciamo del bene o del male, ma parlava in quanto Giudice dalla fine dei tempi (25, 40-45).
Matteo aveva riportato anche le sue parole in risposta a chi gli annunciava che i fratelli erano venuti a trovarlo. “Chi sono i miei fratelli?” aveva detto. Poi, “stendendo la mano verso i suoi discepoli” aveva continuato: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi… è mio fratello” (12, 46-50). Era un desiderio, un auspicio. Adesso è una realtà.

Il Crocifisso ha condiviso la nostra umanità fino in fondo, fino alla morte, alla sepoltura, alla discesa negli inferi. Si è fatto solidale in tutto, proprio come noi, uno di noi. In questo modo è diventato veramente nostro fratello, ha in comune con noi la carne e il sangue, la vita e la morte.
Non si vergogna di chiamarci fratelli, dirà la Lettera agli Ebrei (2, 11), come Giuseppe, divenuto signore in Egitto, non si vergognò dei suoi fratelli pezzenti che venivano a mendicare il pane. L’avevano venduto, non per questo Giuseppe li ripudiò. Anche i discepoli di Gesù, e noi con loro, hanno rinnegato e venduto e abbandonato il loro Maestro. Sono chiusi in casa, impauriti, vergognosi, umiliati, scoraggiati. E egli ora si vendica chiamandoli fratelli: “Andare ad annunciare ai miei fratelli…”.

Gesù è risorto, glorioso. È costituito Signore. Gli è resa la dignità di Figlio di Dio. Eppure si porta con sé la propria carne, non lascia il corpo nel sepolcro alla corruzione. Non arrossisce della propria umanità, con tutta la sua debolezza, non la ripudia. Si tiene stretta quella carne che gli abbiamo dato attraverso Maria, se lo porterà in cielo, dove siederà alla destra del Padre nella gloria.
Non sono mai stati suoi fratelli come ora che, con la sua morte e risurrezione è diventato “primogenito tra molti fratelli”, come dirà Paolo (Rm 8, 29).
“Fratello mio, sei carne della mia carne, sangue del mio sangue”, sembra dire a ognuno di noi. Non ci disconosce come fratelli. Camminiamo con un Fratello accanto, e che Fratello!

giovedì 16 aprile 2020

Le parole del Risorto / 1


Maria di Magdala e l’altra Maria s’erano sedute di fronte alla tomba appena chiusa dalla grande pietra. Furono le sole a restare, fin quando si fece sera. Una sepoltura troppo veloce. Non avevano avuto il tempo di piangere il loro Signore.
Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, tornarono al sepolcro. Volevano semplicemente visitare la tomba, stare vicino al loro Signore morto, sciogliere il lamento funebre.
D’improvviso il terremoto, la pietra rivoltata, l’angelo con un vestito bianco come la neve, l’annuncio della risurrezione, la corsa per dare l’annuncio ai discepoli.
Ed ecco per strada il Signore in persona: “Gesù venne loro incontro”.
È il primo dei due racconti di risurrezione che ci ha trasmesso Matteo.

Il primo verbo del Risorto è un verbo di movimento: Gesù “va incontro”. L’iniziativa, come sempre è sua. Il Signore ci viene incontro, sempre, anche quando non ce l’aspettiamo, quando più ne abbiamo bisogno.
È risorto per questo, per venirci incontro lungo la nostra strada.
Non siamo mai soli.

Si rivela innanzitutto a due donne, Maria di Magdala e l’altra Maria, che dal confronto col Vangelo di Marco potrebbe essere la madre di Ioses (15, 47) o di Giacomo (16, 1).
All’inizio del Vangelo si era rivelato agli uomini, alla fine alle donne, le discepole più fedeli, che più l’hanno amato, che mai l’hanno abbandonato.
Le donne, le prime!

La prima parola del Risorto è “Rallegratevi”: chairete, la stessa parola rivolta a un’altra donna, Maria di Nazaret. Allora era stato un angelo, ora è il Signore in persona che invita alla gioia. Allora era la gioia della venuta di Dio nel mondo, adesso del suo nuovo avvento nella luce della risurrezione.
Nel Vangelo di Matteo abbiamo ascoltato questa stessa parola, chaire, pronunciata come una bestemmia: “chaire, maestro”, gli dice Giuda baciandolo (26, 42); “chaire,
re dei Giudei”, gli dicono i soldati dopo averli posto sul capo la corona di spine (27, 29).
L’annuncio di Gesù Risorto è di una gioia vera. Se la morte si è trasformata in vita, ogni altre situazione di tristezza, di insicurezza, di sofferenza può trasformarsi e mutare in gioia. Gesù Risorto ne è la garanzia. 
L’apostolo Paolo se ne farà eco innumerevoli volte: “Siate lieti nella speranza” (Rm 12, 12); “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti” (Fil 4, 4); “Siate sempre lieti” (1 Tess 3, 9).
La gioia che provano le donne è evidente: cadono ai piedi di Gesù, lo abbracciano, lo adorano.

Poi un invito, che torna costantemente lungo tutta la Scrittura: “Non temete”.
È una parola rivolta a tutti i discepoli, aperta ai secoli futuri. Vi saranno le persecuzioni, le incomprensioni, gli sbagli… “Non temete”, perché lungo la strada, a ogni difficoltà, il Signore ci viene incontro.

Infine il mandato: “Andare ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28, 9-10).
L’incontro con il Risorto si risolve sempre in missione. La fede, la luce, l’esperienza vanno condivise.
Come ha fatto Paolo: “A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15, 3-4).
Tutti, sempre, missionari.


mercoledì 15 aprile 2020

Coronavirus, castigo di Dio?

"Siamo tutti nella stessa barca"

La pandemia sta mettendo in ginocchio il mondo intero. È un castigo di Dio?
È l’eterna domanda sullo scandalo del male, a cui non si possono dare risposte superficiali. La risposta giusta potrebbe darcela soltanto il diretto interessato, tutto il resto sono congetture.

In effetti il diretto interessato è già stato interpellato più volte in merito. Come quando, imbattendosi in un uomo cieco dalla nascita, «i suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Gesù rispose: “Né lui ha peccato, né i suoi genitori; ma è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui”» (Gv 9, 1-3). A commento di questo testo evangelico Papa Francesco definisce blasfema quel tipo di lettura della storia: «Gesù rifiuta radicalmente questo modo di pensare – che è un modo veramente blasfemo!» (9 marzo 2014).
Gesù stesso fu oggetto di giudizio: la crocifissione non era la più grande maledizione di Dio (cf. Gal 3, 13)? I sommi sacerdoti, i capi del popolo e i semplici passanti lo schernivano e lo insultavano: «Scendi dalla croce…». Non avevano cuore per capire che si stava adempiendo la profezia di Isaia, secondo la quale il “servo sofferente” è ritenuto «colpito, percosso da Dio e umiliato!» (53, 4).

Che idea ci siamo fatti di Dio? A volte lo ritraiamo “a nostra immagine e somiglianza”, come quando, più che giustizia, vorremmo vendetta e ci piacerebbe un Dio che punisce quanti fanno il male, soprattutto se sono gli altri. Forse il Dio di Gesù Cristo è diverso, somiglia più al padre della parabola che non manda fulmini dal cielo contro il figlio scapestrato che se n’è andato con il suo patrimonio, ma l’attende con trepidazione e lo accoglie a braccia aperte.
Il Dio di Gesù Cristo non taglia il fico che non produce frutti, ma lo coltiva con pazienza, “per un anno”. E quanto dura l’anno del Signore? Forse fino al suo ritorno. Soltanto allora dividerà il grano dalla zizzania. Prima è il tempo della sua scandalosa misericordia, non del castigo.
Il male c’è, viviamo in mezzo alle tragedie. Ma è Dio che le vuole? Tante volte ne siamo noi stessi la causa. Se invece che in armamenti investissimo in ricerca, se invece che navi da crociera costruissimo ospedali, se invece che chiuderci in inutili frontiere nazionali coltivassimo una politica di solidarietà, collaborazione e unità, forse avremmo a un mondo migliore. Dio ha messo il mondo nelle nostre mani, a noi gestirlo.
In ogni caso non permette le tragedie per punire le colpe. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?». E se Gesù è morto per noi chi ci separerà dal suo amore? Forse il coronavirus? «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati». Nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 31-38). «Tutto viene dall’amore – gridava Caterina da Siena –, tutto è ordinato alla salvezza dell’uomo. Dio non fa niente se non a questo fine» (Dialoghi, 4, 138)

Davanti a fatti di cronaca del suo tempo – una repressione cruenta da parte dei soldati romani che avevano ucciso all’interno del tempio e il crollo della torre di Siloe che aveva causato diciotto vittime – Gesù non perde tempo in disquisizioni: è un castigo di Dio oppure no? Egli invita a ricavare da questi fatti un ammonimento che riguarda tutti, perché tutti abbiamo bisogno di conversione: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13, 5).  
Il vero castigo sarà se, una volta terminata la pandemia, tutto tornerà come prima. Sarà stata vana la morte di tanti e le tragedie vissute. Se ci saremo “convertiti”, se avremo imparato a “riconvertire” i tipi di produzione e di ricerca, la distribuzione dei beni, i rapporti tra di noi… allora la pandemia sarà servita a qualcosa e potremo dire con l’apostolo Paolo: «Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28).