martedì 31 agosto 2021

Aquila e Priscilla: un'eccezione?

 


Aquila e Priscilla: questa coppia cristiana costituisce un’eccezione? Piuttosto è l’esempio della novità che il cristianesimo ha portato nella vita coniugale. In una società che ammetteva il divorzio e tollerava le relazioni extraconiugali, il matrimonio cristiano esige l’indissolubilità e la fedeltà. Non solo, ma come scriveva Aristide nella sua Apologia, «i cristiani si astengono da ogni unione illegittima e da ogni azione impura» (15, 6). La santità coniugale perseguita nei primi secoli non si limita comunque alla fedeltà reciproca. I Padri della Chiesa propongono mete alte ai coniugi. Da loro si richiede una autentica comunione spirituale, quale espressione e compimento dell’amore reciproco. Il loro stato di vita viene dichiarato santo e la loro unione garantita dalla presenza di Gesù in mezzo a loro: «Chi sono i due o i tre riuniti in nome di Cristo, in mezzo ai quali sta il Signore? - si domanda Tertulliano - Non sono forse l’uomo, la donna e il figlio dal momento che l’uomo e la donna sono uniti da Dio?». Il matrimonio cristiano raggiunge così una dignità incomparabile: «Là dove vi è una sola carne, vi è un unico spirito».

Sempre Tertulliano, nella lettera alla moglie, descrive il rapporto tra i coniugi cristiani: «Essi sono fratelli l’uno per l’altro e si servono reciprocamente; nessuna distinzione fra carne e spirito. Anzi sono veramente due in una carne sola e dove la carne è una è uno anche lo spirito. Insieme pregano, insieme s’inginocchiano ed insieme digiunano; l’uno insegna all’altro, l’uno esorta l’altro, l’uno sostiene l’altro. Sono uguali nella chiesa di Dio, uguali al banchetto di Dio, uguali nelle angustie, nelle persecuzioni e nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno è per l’altro di peso. Con libertà visitano i bisognosi e sostengono i poveri. Le elemosine sono senza tormento e i sacrifici senza scrupoli, la diligenza quotidiana non ha impedimento. Il segno di croce non si fa di nascosto; la lode non è timorosa, la benedizione non è silenziosa; i salmi e gli inni cantano a due cori e fanno a gara per cantare meglio al loro Dio. Cristo vede questo e nell’ascoltare gioisce. A loro manda la sua pace».

Allo schema tradizionale della famiglia in cui l’uomo è capo e padrone indiscusso, si sostituisce l’immagine della chiesa domestica, dove regna la carità, la concordia, il camminare insieme verso Dio. Basterà ricordare alcuni insegnamenti di Giovanni Crisostomo: «la casa diventi una chiesa (…). Vi riposi la grazia dello Spirito Santo e ogni pace e concordia difenda gli abitanti». «Gli sposi facciano qualsiasi cosa come se avessero una sola anima e fossero un solo corpo. Questo è il vero matrimonio, quando così grande è la concordia tra di loro, quando così sono concatenati tra di loro dal vincolo della carità».

Assistiamo al passaggio dal concetto di patria potestas a quello di paterna pietas: non è più lecito l’aborto, l’esposizione dei neonati, la vendita dei bambini. «Ogni padre di famiglia - scrive Agostino - si senta impegnato, a questo titolo, ad amare i suoi con affetto veramente paterno. Per amore di Cristo e della vita eterna, educhi tutti quelli di casa sua, li consigli, li esorti, li corregga, con benevolenza e con autorità». E Giovanni Crisostomo: «Io non cesso di esortarvi di pregare, di supplicarvi che prima di ogni altra cosa voi curiate per tempo l’educazione dei vostri figli. (…) Alleva un atleta per Cristo. (…) Ciascuno di noi, padri e madri, come i piccoli che noi vediamo lavorare ai loro quadri, alle loro opere con grande attenzione, presti tutte le sue cure a queste ammirabili opere d’arte».

lunedì 30 agosto 2021

La missione delle coppie cristiane


Dopo aver scritto ieri sul blog di Aquila e Priscilla, mi sono imbattuto nel discorso di papa Francesco all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana il 25 gennaio dello scorso anno. In quella occasione il Papa ha offerto una riflessione “sul ruolo primario della coppia di sposi Aquila e Priscilla come modelli di vita coniugale”. Giustamente si domanda come mai questo modello di sposi itineranti non abbia avuto, nella pastorale della Chiesa, una propria identità di sposi evangelizzatori per molti secoli. “Gli sposi cristiani dovrebbero apprendere da Aquila e Priscilla come innamorarsi di Cristo e farsi prossimi alle famiglie, prive spesso della luce della fede, non per la loro colpa soggettiva, ma perché lasciate al margine della nostra pastorale: pastorale d’élite che dimentica il popolo”.

Il Papa li descrive “carichi di coraggio fino al punto di svegliare dal torpore e dal sonno i pastori”, “mai fermi, sempre in movimento, certamente con prole”.

La conseguenza è lampante: “i Pastori si lascino illuminare dallo Spirito anche oggi, affinché si avveri questo annuncio salvifico da parte di coppie spesso già pronte, ma non chiamate. Ci sono… sposi entusiasti e innamorati della loro fede nel Risorto, capaci di una nuova rivoluzione della tenerezza dell’amore, come Aquila e Priscilla, mai appagati o ripiegati su sé stessi…”

Davvero dobbiamo lasciare il posto alla famiglie, che compiano la missione che il battesimo ha affidato loro.

domenica 29 agosto 2021

Aquila e Priscilla: che coppia!

Cripta della chiesa di santa Priscilla (Prisca)

 

Nell’anno 52 l'imperatore romano Claudio, che si opponeva all'introduzione di nuovi culti in Roma, ordinò di espellere gli Ebrei dalla città, come spiega lo storico Svetonio: "Scacciò da Roma gli Ebrei che tumultuavano per incitamento di Cresto". È un chiaro riferimento alla divisione sorta ormai all’interno del giudaismo, e non soltanto nella capitale, tra i rappresentanti dell’antica religione e quelli che nel suo seno seguivano l’insegnamento di Cristo, quel “Cresto” di cui i pagani avevano poche e confuse notizie. È difficile pensare che tutti gli Ebrei fossero espulsi: erano a Roma da almeno 200 anni, ne avevano ricevuto la cittadinanza, ed avevano raggiunto il ragguardevole numero di 40.000 persone. In ogni caso Aquila e Priscilla, una delle tante coppie di giudeo-cristiani, dovette abbandonare la loro bella casa sull’Aventino e trovare rifugio a Corinto, in Grecia.

Fu lì che li trovò l’apostolo Paolo, proveniente da Atene, come ricordano gli Atti degli Apostoli: «Qui trovò un ebreo, di nome Aquila, oriundo del Ponto, giunto di recente dall'Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma». I due lo accolsero nella loro casa e gli offrirono un lavoro, infatti «erano del medesimo mestiere… fabbricanti di tende» (18, 1-3). Quando l’apostolo poté dedicarsi a tempo pieno “alla Parola” (18, 5), provvidero lo stessi alle sue necessità materiali e Paolo rimase con loro per 18 mesi. Il legame che si instauro tra loro deve essere stato molto profondo se, dovendo lasciare Corinto, Paolo chiese ai due di chiudere il laboratorio e di seguirlo. Così «Paolo... navigò verso la Siria, con Priscilla e Aquila... giunsero a Efeso» (18, 18-19). Lì lasciò in città perché continuassero il suo lavoro apostolico mentre egli proseguiva per Gerusalemme. La coppia di sposi romana compì la missione che Paolo le aveva affidato e la loro casa divenne luogo di incontro della nascente comunità cristiana. Lo testimonia la prima Lettera ai Corinzi, scritta da Efeso in quel periodo: «Le Chiese di Asia vi salutano. Aquila e Priscilla, con la Chiesa che si trova nella loro casa, vi salutano molto nel Signore» (16, 19). Nella loro opera di evangelizzazione aiutarono anche un grande teologo come Apollo a conoscere «più esattezza la via di Dio» (Atti, 18, 26).

Dopo uno o due anni, con la morte dell’imperatore Claudio, poterono tornare a Roma, dove continuarono l’annuncio della Parola di Dio, aprendo ancora una volta la loro casa alla comunità cristiana. Quando Paolo nell'anno 58 scrive una lettera ai cristiani della città chiede infatti: «Salutate Priscilla ed Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo, che hanno rischiato la loro vita per me; a loro non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni. Salutate anche la chiesa che si riunisce in casa loro» (16, 3-5). Può esserci testimonianza più bella? Paolo li considera autentici “collaboratori” suoi e del Vangelo, al punto da rischiare la vita. Nella seconda Lettera a Timoteo li troviamo ancora una volta: adesso sono tornati a Efeso per rafforzare la fede dei cristiani di quella città (4, 19), quali autentici missionari, capaci di lasciare casa e lavoro per porsi totalmente a servizio del Vangelo.

A Roma si può visitare la chiesa di santa Prisca sull'Aventino, sorta sulla casa di Aquila e Priscilla...

sabato 28 agosto 2021

Coerenza o conversione del cuore?


“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. È quindi ipocrita.

Ipocrita: “Così appellarono i greci un Attore, il quale colla voce e col gesto imitava e rappresentava un qualche estraneo personaggio…”. È quanto leggiamo nel leggendario Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani.

Quando pensiamo all’ipocrita difficilmente viene alla mente l’attore, colui che, letteralmente "interpreta un personaggio sotto la maschera": ypo-krites! Eppure questa immagine è efficace. Si gioca una parte che non è la nostra. Gesù denuncia la schizofrenia di chi di chi si comporta in maniera diversa da quello che è. Cosa che ci capita spesso. Chissà cosa c’è davvero nel cuore, dietro la maschera. E Dio guarda il cuore, non l’apparenza.

Verrebbe da pensare che il centro del discorso di Gesù sia la coerenza, ma la cosa non funziona sempre: se fossimo coerente col cuore chissà che disastro il nostro
comportamento! L’elenco dei sentimenti che albergano il cuore umano è deludente:
“impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”.

Mi sembra che il messaggio di Gesù punti direttamente al cuore, prima ancora che alla coerenza di vita: alla conversione del cuore. A quell’elenco negativo, Paolo può così proporre l’immagine di un cuore rinnovato dallo Spirito Santo:  amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; (Gal 5, 22).

venerdì 27 agosto 2021

Sono il sogno di Dio

 


“Ciò che solo pienamente ci soddisfa è sempre rivederci là dove Dio ad aeterno ci ha sognati”.

A fine settembre dovrò tenere un breve corso sulla spiritualità e la teologia spirituale. Questa mattina, leggendo il brevissimo testo “Passeranno i cieli e la terra” nel libro Meditazioni di Chiara Lubich, di cui quella che ho appena riportato e che tanto mi ha colpito è la seconda di appena tre frasi, ho pensato che inizierò il corso proprio da qui: “Ciò che solo pienamente ci soddisfa è sempre rivederci là dove Dio ad aeterno ci ha sognati”.

La spiritualità nasce infatti da un anelito alla pienezza di vita, al pieno compimento del proprio essere. È questo che accomuna tutte le spiritualità, sia religiose che atee. La spiritualità cristiana ha, in particolare, la caratteristica di rispecchiare la propria persona nel Verbo – che poi è il Gesù fatto uomo, nel quale siamo stati “sognati” da Dio, per poter diventare, in lui, quello che siamo e che siamo chiamati ad essere.

Spesso spiego che ognuno di noi è stato pensato da Dio da sempre, nel momento stesso in cui egli pensa il Figlio suo: “dice” la nostra parola, il nostro verbo, in nostro essere, nell’atto di pronunciare la Parola, il Verbo, il Figlio suo e in lui siamo suoi figli, chiamati all’esistenza con la vocazione ad essere in lui dio come lui è Dio. E spesso avverto una reazione da parte di chi mi ascolta, urtato dal fatto che Dio, agendo così, avrebbe così già fatto tutto, condizionandoci, privandoci della libertà di diventare quello che vogliamo. Questo mi meraviglia, perché a me sembra così bello – oltre che così vero – sapere che Dio mi ha da sempre pensato e amato, come un bambino che, prima ancora di nascere, è già pensato e amato dalla mamma la quale, così facendo, non lo condiziona, o meglio, lo pone in maniera più adeguata nella condizione di diventare veramente se stesso.



Oggi il testo mi è venuto incontro e mi aiuterà a spiegarmi meglio, perché non dice che “Dio ad aeterno ci ha pensati”, ma che “ci ha sognati”.

Leggendo l’edizione critica del libro Meditazioni, che riporta il testo, Maria Caterina Atzori, la curatrice, fa notare che si tratta di una lettera scritta a Igino Giordani, che nello scritto viene chiamato familiarmente “Focherello”, parola omessa, per cui adesso si legge: «Ed io […] m’accorgo sempre più che “passeranno i Cieli e la terra…” ma il disegno di Dio non passa», dove quel […] sta per la parola “Focherello”. Che rapporto amichevole e dolce traspare da questo vezzeggiativo! Eppure, nonostante o proprio grazia a questa intimità, Chiara guarda a Igino Giordani nella sua realtà più vera, in quel disegno che Dio ha su di lui e che non passerà mai, perché lo costituisce in tutta la sua dignità e, se egli è fedele nell’attualo, lo soddisferà, lo appagherà pienamente; è ed la “sola cosa” che può appagarlo, mentre tutto il resto lascia dei vuoti, non porta alla pienezza.

Ciò che più mi ha sorpreso, nell’apparato critico, è vedere come in tutte le edizioni a stampa del testo, a cominciare dalla prima volta che appare nel ciclostilato “48 ore di Unità”, sempre è stato scritto che “Dio ad aeterno ci ha pensati”, mentre l’originale – ora riportato nella nuova versione critica – è “Dio ad aeterno ci ha sognati”. A me sembra una grande bella differenza! D’ora in poi, ogni volta che parlerò del disegno di Dio su di noi non dirò più che è stato “pensato” da lui, ma che è stato “sognato”: sono oggetto di un desiderio piuttosto che di una determinazione inappellabile. Sono il sogno di Dio! Allora la spiritualità sarà esaudire il sogno di Dio…

giovedì 26 agosto 2021

Quell'amicizia unica fiorita ad Annecy

 


Quando si incontrarono la prima volta nel marzo 1604, lui aveva 36 anni ed era vescovo da un anno e mezzo, lei ne aveva 32 ed era vedova da pochi anni. Il primo biglietto, a un mese dall’incontro, indica già l’inizio di «un’amicizia sublime» che, a dire di Ravier, «siamo in grado soltanto d’ammirare, non già di spiegare». Le lettere di lui a lei testimoniano una sorta di «storia di due anime». Essi sono uniti dalla carità e da una «vera amicizia cristiana», che porta ad una intensa comunione dei beni spirituali, al superamento del “mio” e del “tuo”, al punto da avere le medesime ispirazioni; ognuno dei due si sente là dove è l’altro, pur se in luoghi diversi. La lettura anche di un solo brano consente di intravedere l’itinerario di santità perseguito in unità:

“Le anime che Dio ha rese una cosa sola sono inseparabili; chi può separare, infatti, quello che Dio ha unito? (…) Dal momento che Dio è l’unità del nostro cuore, chi ce ne separerà mai? No, né la morte né la vita, né le cose presenti né le future potranno mai separarci né dividere la nostra unità. Andiamo dunque, Figlia mia cara, con un solo cuore, dove Dio ci chiama; infatti la diversità delle strade non determina in noi nessuna differenza, perché è verso un unico traguardo e per una sola ragione che noi andiamo”.



Il fitto carteggio, di cui Giovanna Chantal ha conservato le lettere di Francesco di Sales a lei e ha distrutto le sue a lui, testimonia il profondissimo rapporto affettivo e spirituale che si è intessuto e consolidato per 18 anni, fino alla morte di lui. Forse è Chantal la Filotea cui Francesco si rivolge nell’Itinerario alla vita devota, ed è certamente ispirato alla sua esperienza mistica il Trattato sull’amore di Dio. Veramente il cammino a due ha fruttato due grandissime santità, oltre a opere di alta letteratura spirituale, senza tuttavia circoscrivere la santità ai due. Oltre ad essere fonte di sapienza per tutta la Chiesa, ha aperto la via ad un nuovo cammino di santità seguito da migliaia di Suore della Visitazione, non ultima santa Margherita Maria Alacoque.



Nel mio viaggio di ritorno dalla Francia, domenica pomeriggio sono passato per Annecy, una città che conoscevo solo di nome e solo in rapporto a Sales e Chantal. Non immaginavo fosse una città così bella. Varrà la pena visitarla una volta o l’altra. Questa volta mi sono limitato a salire al santuario della Visitazione dove i due sepolti, uno accanto all’altra, uniti in morte come in vita.

 

mercoledì 25 agosto 2021

Testimoni della gioia

 

“Le sfide della vita consacrata oggi”. È il tema che la Comunità monastica di Gerusalemme mi ha chiesto di trattare. Così oggi ho incontrato un centinaio di monaci e monache. Ma cosa dire a persone tanto brave? Ho trattato a lungo il mio tema, ma ho finito col dire le solite cose. Ossia che rimane fondamentale la radicale scelta e testimonianza di Dio. Mostrare Dio è forse la principale sfida richiesta alla vita consacrata nella Chiesa. È la sfida di sempre, ma il contesto attuale lo domanda forse come mai prima d’ora.

E soprattutto testimoniare la gioia.

Durante l’anno santo del 1975 destò stupore che Paolo VI, un papa anziano e già ammalato, che appariva sempre molto serio, scrivesse una Esortazione apostolica sulla gioia: Gaudete in Domino. Era un messaggio rivolto a tutti i membri della Chiesa, tuttavia è facile notare che, quando propone esempi di gioia, i Papa enumera una serie di testimoni della vita religiosa «che hanno fatto scuola sul cammino della santità e della gioia: sant’Agostino, san Bernardo, san Domenico, Sant’Ignazio di Loyola, san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila, san Francesco di Sales, san Giovanni Bosco», fermandosi in maniera particolare sull’esperienza di Francesco d’Assisi, Teresa di Lisieux, Massimiliano Kolbe» (n. IV).

Quattro anni prima, quando in Evangelica testificatio invitava religiosi e religiosi alla testimonianza della gioia, ad essere aperti alla «gioia divina» (n. 53), aveva già anticipato, in un certo senso, il dettato di quel documento. In concreto li supplicava: «conservate la semplicità dei più piccoli del Vangelo» (n. 54). Raccomandava «di custodire la gioia di appartenere a Dio per sempre» (n. 55).

L’invito a testimoniare la gioia del Vangelo ha fatto strada, fino alla Lettera apostolica rivolta da papa Francesco a tutti i consacrati in occasione dell’anno della vita consacrata, quando ricordava che «“Dove ci sono i religiosi c’è gioia”. Siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici (…). Che tra di noi non si vedano volti tristi, persone scontente e insoddisfatte, perché “una sequela triste è una triste sequela”».

Sono felici i religiosi? L’ho chiesto a una di loro che mi ha risposto: «Certamente, però lo sanno dissimulare molto bene!». No, non abbiamo paura di mostralo!

martedì 24 agosto 2021

Un dagherrotipo di sant’Eugenio de Mazenod

 



Il dagherrotipo è stato il primo processo fotografico nella storia della fotografia dal 1839 al 1860. Prende il nome dall’inventore Louis Jacques Mandé Daguerre e consiste in un’immagine unica su lastra di rame argentato.

In archivio ne conserviamo uno di sant’Eugenio de Mazenod. Che sia quello fatto da una delle postulanti delle suore di san Giuseppe dell’Apparizione?

Oggi è la festa di san Bartolomeo, ma come ogni giorno, i santi del calendario sono numerosi. Oggi ad esempio è anche la festa di santa Giovanna Antida Thouret. Ma la santa che oggi ha più attirato la mia attenzione è Emilia de Viallar. Già, chi era costei? Dal mio punto di vista, diciamo semplicemente che era una grande amica di sant’Eugenio.

Dopo aver fondato le Suore dell’Apparizione ha aperto tante case a Malta, Cipro, Tripoli, Beirut, andando fino in Australia. Ma ha avuto tante difficoltà da parte dei vescovi presso i quali ha vissuto, a cominciare da quello di Algeri e da quello di Tolosa, che volevano mettere le mani nelle Costituzioni e orientare a loro modo la nuova famiglia religiosa. Finalmente Madre Emilia emigra a Marsiglia dove trova sant’Eugenio che, come scrive il primo biografo della santa, «l’accolse di tutto cuore e la comprese… e sempre la sostenne in tutte le sue iniziative, grazie alla sua intelligenza delle cose di Dio e alla sua squisita carità». Approvò le Costituzioni e face in modo che l’Istituto ricevesse l’approvazione dal governo. Santa Emilia de Viallar rimase a Marsiglia dal 1852 al 1856, anno della sua morte.



Il 28 marzo 1854 ella scrive a una delle sue suore: «Il vescovo è venuto a celebrare e a dare la cresima ad alcune delle nostre; poi ha parlato delle nostre care missionarie con grande zelo e ha dato lui stesso l’abito di vestizione. È per noi un vero padre. Siccome una postulante fa dei ritratti con il dagherrotipo, il vescovo ha volentieri acconsentito alle nostre richieste e ci ha lasciato prendere il suo ritratto. Mons. de Mazenod ha poi chiesto alla postulante di fare dei ritratti dei padri che partono in missione perché vuole la loro immagine sotto gli occhi “per averla sempre in cuore”».

lunedì 23 agosto 2021

La gioia del Vangelo splenda sul vostro volto...


 

È un nome un po’ lungo quello che si sono dati i monaci che ho incontrato sabato scorso, anzi sono tre nomi!  Famiglia monastica di Betlemme, dell’Assunzione della Vergine Maria e di san Bruno.

Di Betlemme perché fu una stalla che ospitò la prima cappella delle monache, che iniziarono prima dei monaci, ed era facile pensare alla stalla di Betlemme…

Dell’Assunzione perché la prima idea era nata da un piccolo gruppo di pellegrini francesi giunti in piazza san Pietro a Roma per la proclamazione del dogma.

Di san Bruno per la vicinanza fisica e la consonanza spirituale con la certosa fondata da san Bruno, di cui hanno preso l’abito.

Ormai i loro monasteri sono sparsi in varie parti del mondo. Sono 600 donne e 60 uomini.


Sono stato nel primo monastero, vicino a Saint Pierre de Chartreuse. Ho visto due monaci soltanto, e appena fuori monastero. Non so quindi come vivono… Certo che hanno un sorriso straordinario che promette molto! Mi tornano alla mente le parola di papa Francesco a noi Oblati il 7 ottobre 2016: «La gioia del Vangelo risplenda innanzitutto sul vostro volto, vi renda testimoni gioiosi» (7 ottobre 2016). Quasi quasi i due monaci mi sono sembrati Oblati…

domenica 22 agosto 2021

I frutti maturi del popolo di Dio


 

Si chiama “Popolo di Dio”, il Centro Mariapoli di Saint Pierre de Chartreuse. E ben a ragione. L’ho visto in questo periodo il popolo di Dio riunito, proveniente da tante parti della Francia. Prima, a luglio, ragazzi, bambini e genitori giovani. Adesso una cinquantina di persone anziane, i nonni e le nonne, ma anche un gruppetto di giovani provenienti da Vietnam, India, Togo, Senegal. Sposati, sacerdoti, missionari in Malawi e Kenya, religiose e religiosi, consacrati laici… C'erano anche due Apostoliques, della Famiglia oblata; una di loro ha vissuto 14 anni ad Haiti e 18 in Ciad, portando là la vita dell'Ideale. Davvero una bella rappresentanza di popolo di Dio. La predominanza d’anzianità di questo secondo gruppo ha reso l’incontro ancora più bello. Ho ascoltato a lungo storie di vita, ammirando la generosità, la fede pura, la tenuta in mezzo alle prove. È stato come cogliere i frutti maturi di una lunga stagione.



Ho cercato di dare alle mie conversazioni una intonazione semplice, gioiosa, il più possibile aderente alla vita, ma anche propositiva, cercando di infondere una speranza realista. Mi sembra che siano rimasti contenti, come se di giorno in giorno rifiorissero. E questo ha dato gioia anche a me.

sabato 21 agosto 2021

Una Parola che dà vita: i frutti


 

22 agosto. La memoria di Maria Regina quest’anno lascia il posto alla celebrazione della domenica. Ascoltiamo così Gesù che qualifica le sue parole come “spirito e vita”, capaci di far nascere la vita nuova.

Mi vengono immediatamente alla mente due frutti della parola di Gesù.

Il primo 70 anni fa. A Firenze si teneva il ritiro delle zelatrici dell’AMMI. In quei giorni alcune giovani fecero una esplicita domanda a p. Gaetano Liuzzo, scritta su un foglietto: “Padre, come fare per diventare perfettamente sorelle degli Oblati e vivere più strettamente la loro spiritualità?”. Il padre rispose: “Diventare in pieno oblate in veste secolare. Anzi diventare Sorelle degli OMI”.  



Al termine del ritiro, il 22 agosto 1951, allora festa del Cuore Immacolato di Maria, nella basilica della SS. Annunziata, davanti alla celebre immagine del Duecento, ricordando e rivivendo il “Sì” di Maria, diciotto delle trentasei giovani formulano la loro consacrazione alla Madonna: erano nate le COMI.


Un altro frutto della parola di Gesù. Il 22 agosto 1959, nel pieno della “guerra fredda” che contrapponeva il blocco occidentale a quello sovietico, i partecipanti alla Mariapoli di Fiera di Primiero, provenienti da ben 27 nazioni, decisero di consacrare a Maria sé stessi ed i propri popoli d’appartenenza. La formula fu letta in nove lingue presenti.



Pochi giorni dopo, il 30 agosto 1959, Chiara scriveva: “Se un giorno gli uomini, ma non come singoli bensì come popoli, se un giorno i popoli sapranno posporre loro stessi, l’idea che essi hanno della loro patria, i loro regni, e offrirli come incenso al Signore, (…) e questo lo faranno per quell’amore reciproco fra gli Stati, che Dio domanda, come domanda l’amore reciproco tra i fratelli, quel giorno sarà l’inizio di una nuova era, perché quel giorno, così come è viva la presenza di Gesù fra due che si amano in Cristo, sarà vivo e presente Gesù fra i popoli (…)”.

È un’utopia? Proprio in questo momento nel quale assistiamo impotenti alla tragedia dell’Afganistan e a quelle quotidiane e capillari che flagellano l’Africa, occorre credere a quel sogno.


Nel Messaggio inviato alla quinta Assemblea della WCRP, la Conferenza mondiale delle religioni per la pace, Chiara afferma: “Alla fine di questo millennio e all’approssimarsi del terzo, l’amore dovrebbe diventare sempre più costume nostro e di molti. L’amore è la forza più potente, feconda, sicura che può legare ogni società. L’amore, diffondere l’amore, insegnare ad amare... Dopo millenni di storia in cui si sono sperimentati i frutti della violenza e dell’odio fra i fratelli, sarebbe ora di sperimentare oggi i frutti dell’amore. E non solo dell’amore fra singoli, ma anche fra popoli. I popoli stessi sono chiamati non più ad ignorarsi e tanto meno a combattersi l’un l’altro, ma ad amarsi. È necessario che l’amore reciproco diventi legge per ogni comunità, civile o religiosa che sia”.

Nel 1959, lassù sulle Dolomiti, non si organizzò una tavola rotonda o un summit internazionale per risolvere i problemi del mondo, ma si innalzò una preghiera per l’unità dei popoli. Certo, occorrono interventi decisivi e che la politica agisca con competenza e responsabilità. Intanto noi preghiamo, uniti, per la pace e l’unità dei popoli.

venerdì 20 agosto 2021

Arcabas: una chiesa tutta per sé

 


Arcabas, a 25 anni cercava una chiesa da affrescare. Finché arrivò a Saint Hugues de Chartreuse (qua tutto è Chartreuse), a pochi chilometri da dove mi trovo in questi giorni. Tra una conferenza e l’altra sono andato a piedi a visitare questa chiesa. Un capolavoro. Arcabas vi ha lavorato, a più riprese, per 25 anni, ed è evidente l’evoluzione dello stile.




Si entra e si è avvolti da un mondo fortemente biblico e insieme fantasioso, figurativo e insieme astratto, colori forti, libertà espressiva. Opera personalissima che include ogni aspetto, dal tabernacolo all’altare, dagli arredi alle vetrate. Qualcosa di unico, che dona il senso del sacro. È una chiesa e insieme un museo. Un potente inno silenzioso…

giovedì 19 agosto 2021

Questo è il mio corpo


All’inizio della meditazione del mattino ho chiesto se qualche signora poteva dirci il menu del pranzo di nozze di uno dei suoi figli. Quattro hanno raccontato. Siamo molto lontani dai nostri pranzi di nozze italiani; c’è sempre da imparare. “E il pane c’era?”, ho chiesto. “Certo!”. “E perché non l’avete detto?”. Già, il pane. È così normale, così quotidiano che a nessuno viene in mente di nominarlo quando si racconta di un pranzo. Anche qui, questi giorni, nel menu affisso all’entrata della sala da pranzo, non si legge mai che ci sarà il pane.

Anche nell’ultima cena di Gesù doveva esserci un buon menu, con agnello arrosto, erbe varie… eppure Gesù, per fare l’Eucaristia, prese il pane, l’alimento più usuale, quello che aveva insegnato a chiedere nel Padre nostro: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. È così che ho iniziato la meditazione sull’Eucaristia, alimento d’ogni giorno, cibo normale…

Gesù non ha poi detto questo pane è la mia anima, il mio spirito, la mia parola… Ha detto “è il mio corpo”. Il suo corpo per il nostro corpo. Non vuole salvare soltanto la nostra anima, ma la nostra persona nella sua totalità, fino alla risurrezione della carne. Lui stesso, Verbo di Dio, s’è fatto “carne”. Che valore alto acquista il nostro corpo, così com’è, con le sue debolezze, le violenze subite, le sue ferite… La nostra storia è inscritta nel nostro corpo e il corpo di Gesù si congiunge al nostro corpo, lo assume, nella reciprocità del dono. Che valore il corpo! Con esso è tutta la creazione che torna al suo Creatore.

mercoledì 18 agosto 2021

Nella Grande Certosa


Qualche mese fa abbiamo avuto un incontro zoom tra tutti i consultori della Congregazione della vita consacrata del Vaticano. Accanto ai più vecchi, come me con consultore da 25 anni, erano presenti quelli di nuova nomina. Tra questi l’abate della Grande Certosa fondata da san Bruno nel 1084. Trovandomi a pochi chilometri dalla Certosa non potevo non andare a trovare il collega, tante più che la sua regola gli impedisce di uscire dalla Certosa.

Così, poiché in questi giorni è infortunato, non è potuto venire all’entrate, così, fatto raro, sono potuto entrare nel monastero, interdetto ai visitatori, e nella sua cella. Vive là dentro da 40 anni, assieme a 24 fratelli, di cui 4 novizi. Sembra una vita impossibile e invece è ancora viva dopo più di mille anni.



Sono stato nella Certosa di Firenze, ora ravvivata dalla comunità di san Leolino, e in quella di Serra San Bruno, in Calabria, fondata da san Bruno e dove il santo ha vissuto gli ultimi anni della sua vita. Non ero mai stato nella prima storica Certosa.

Dalla montagna di fronte, dove sono salito il mese scorso, la Certosa appare appena un puntino lontano, nella stratta vallata, a 1190 metri di altitudine sul massiccio della Chartreuse. Un vero “deserto”, come aveva sognato san Bruno, che vi aveva costituito sette capanne e un oratorio di pietra. Nel 1132, a causa di una valanga, la prima costruzione venne abbandonata per essere ricostruita qualche centinaio di metri avanti, in un luogo più riparato, dall’allora priore Guigo I, che stilò le “Consuetudines”. Poco dopo fu stabilito che il priore della Grande Certosa fosse il Generale dell’Ordine. Dopo otto incendi, due saccheggi e l’espulsione dei monaci durante la Rivoluzione Francese, la vita proseguì. 



Con la nuova espulsione a seguito delle leggi anticlericali del 1903 i monaci si rifugiarono nella certosa di Farneta in Italia, fino al 1940, quando decisero di ritornare alla Grande Chartreuse. (E' davvero "grande", grandissima, con edifici a non finire...)

Le “Consuetudini” fanno l’elogio della vita solitaria, “lodata da molti santi e sapienti la cui grande autorevolezza e le cui orme non siamo degni di calcare… Nell’Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l’estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine”.



Ed eccomi con l’abate, p. Dysmas: si chiama  come il buon ladrone del vangelo! Ed è proprio buono, semplice, nel suo bell’abito bianco. 

Lo confronto con le Consuetudini dei Certosini, dove è scritto: Il priore “sebbene debba essere di giovamento a tutti con la parola e con la vita e debba prendersi cura con sollecitudine di tutti, tuttavia ai monaci fra cui è stato scelto deve offrire soprattutto un esempio di quiete, di stabilità e di tutti quegli esercizi che sono consoni al loro genere di vita. (…) Egli, comunque, non esce mai dai confini del deserto. Il suo seggio, ovunque sia, e il suo vestito non differiscono da quelli di tutti gli altri per nessun segno di dignità o lusso, ed egli non porta nulla da cui appaia che è il priore. Ci si inchina davanti a lui – e leggermente – soltanto quando va o ritorna dal leggere la lettura, o quando si passa davanti a lui; e quando egli va da qualcuno, quegli si alza in piedi”.

Gli ho chiesto la benedizione; me l’ha dato dicendo, naturalmente, che non era la sua ma quella del Signore...

martedì 17 agosto 2021

Ad occhi chiusi e sulla barca

 


Eccomi nuovamente a St Pierre de Chartreuse, vicino a Grenoble. Domenica ho iniziato a guidare una settimana di ritiro a un gruppo abbastanza vario come tipologia di persone. Il mese scorso ero qui con famiglie giovani e ragazzi, adesso, con i nonni e le nonne. Come al solito ho preparato il libretto con le meditazioni in modo che ognuno abbia la sua copia e possa seguire meglio.

Mi sono venute in mente due immagini per descrivere il ritiro: gli occhi chiusi e la barca.


Possiamo immaginare il ritiro come un chiudere gli occhi e guardare dentro: chissà cosa ci troviamo! Penso è un bell’esercizio. Se il ritiro funziona, alla fine, quando li riapriamo, dovremmo vedere le cose tutte in un altro modo… con lo sguardo di Dio! Non sarebbe bello guardare persone e avvenimenti come li guarda Dio? Avremmo la sua stessa luce, la sua stessa cura, il suo stesso amore…


L’altra immagine è quella della barca, la barca sulla quale Gesù invitò i suoi a salire per riposarsi: «Egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”… Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte…” (Mc 6, 31-32). Bisognerebbe farlo in barca il ritiro (io invece vengo a farlo in montagna!). Chi è stato sul lago di Genezaret non può più dimenticare l’esperienza di pace che si prova quando la barca si ferma in mezzo alle acque. Il ritiro è un momento di “riposo”, ma un momento vissuto insieme, con Gesù tra noi: è lui il nostro riposo. Gesù portò fuori i suoi, in un luogo deserto, come quando Dio condusse il suo popolo fuori dall’Egitto per fargli ascoltare la sua parola, per nutrirlo con la manna, per dissetarlo con l’acqua dalla roccia. È come se Gesù ripetesse le parole del profeta Osea: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore». È un atto di predilezione il ritiro: «Venite in disparte, voi soli». Poi riappare la folla e riprende la predicazione e segue la moltiplicazione dei pani… Sì, ma dopo il “ritiro”.

lunedì 16 agosto 2021

La Sacra di san Michele

 


Sabato nel primo pomeriggio mi hanno preso all’aeroporto di Torino e ci siamo diretti verso la Francia. Imbroccata la strada della val di Susa ecco apparire su in alto, su un picco, la Sacra di san Michele. È la prima volta che la vedo. Non posso non chiedere una deviazione per salire fin lassù. Da quando sono stato a Mont Saint Michel ho imparato che quell’isola è legata a Monte Sant’Angelo sul Gargano e che a metà tra i due c’è la Sacra di san Michele: tre santuari dell’Arcangelo, luoghi che, secondo gli esoterici, hanno particolari forze vitali. Soprattutto un cammino di 2000 chilometri che i pellegrini hanno lungo i secoli.

Della Sacra di san Michele in val di Susa mi avevano a lungo parlato i Rosminiani quando ero stato da loro a Domodossola; re Carlo Alberto l’aveva infatti affidata ad Antonio Rosmini e da allora i Rosminiani ne sono i custodi. Mai avrei immaginato che un giorno vi sarei potuto andare. Sono quelle cose che accadono all’improvviso, completamente inaspettate, un dono che casca dall’alto gratuitamente.



Per certi aspetti ricorda Mont Saint Michel, ma forse è più “selvaggio”. Vi è la stessa ascesa faticosa, gradino dopo gradino, quasi una salita al cielo, ricompensata dalla bellezza delle architetture, della chiesa, dei suoi affreschi, degli antichi ruderi, del panorama… Tutto degno della vigilia dell’Assunta, tra l’altro raffigurata da un bellissimo affresco. La posizione del monastero e la ricca biblioteca hanno ispirato Umberto Eco per il suo romanzo “Il nome della rosa”. Don Carlo, rosminiano, mi regala un libro con la storia ultra millenaria del santuario, testimonianza di fede, di spiritualità, di intensa vita monastica. Ora mi rimane da visitare il luogo di origine della devozione a san Michele Arcangelo, il santuario della Puglia. Chissà…



Il viaggio riprende salendo verso il passo del Moncenisio. Il pensiero torna a quando l’ho attraversato 50 anni fa. Da allora penso di non averlo più percorso. Un bell’anniversario! Un viaggio indimenticabile, quello di allora, che da san Giorgio Canavese ci portò a Aix-en-Provence, perché per strada, su per quei tornanti, si guastò il pulmino che guidavo e rimanemmo due giorni su quelle montagne in attesa che fosse riparato. Erano proprio altri tempi…




domenica 15 agosto 2021

Ferragosto e l'Assunta

 


Mi sono arrivati vari messaggi con gli auguri di Ferragosto, con fette di melone, sdrai a mare… È vero, dal tempo dell’impero romano questi sono le “Ferie di Augusto”, Ferragosto. Speriamo che per tutti ci sia il meritato tempo di ferie…

Ma per noi cristiani oggi è soprattutto la festa di Maria Assunta in cielo. E mi sono arrivate anche belle immagini dell’Assunta… Speriamo che tanti se ne ricordino.

E tanti se ne ricordano! Penso all'ostensione della Cintola della Madonna a Prato, a Santa Maria a Vico, da dove p. Nicola mi scrive: Qui da noi l'afflusso delle persone alle messe è stato ed è consistente. Davvero la parrocchia sembra avvolta dall'amore materno di Maria".

Perché l’Assunta è la festa che fa guardare alla nostra meta, la stessa raggiunta da Maria, al nostro “destino”, ossia la nostra “destinazione” finale, nientemeno che il Paradiso.

È la festa che ci invita a rispettare il nostro corpo, nella certezza della risurrezione della carne: risorgeremo al corpo (inutile pensare alle modalità… quisquiglie, direbbe san Paolo, l’importante è la realtà del fatto), come col corpo è risorto Gesù ed è stata assunta Maria. Il nostro corpo non è, come diceva Platone, “la tomba dell’anima”, ma “il tempio dello Spirito Santo”. Che cura e rispetto per il nostro corpo e per quello degli altri, così come per tutte le realtà umane!

È la festa della “speranza che non delude”, come la chiamava san Paolo. Una speranza che diventa fiducia nell’aiuto di Maria Regina del cielo e della terra che ci vuole accanto a sé in cielo; una speranza che è certezza!

Durante il viaggio a Saint-Pierre de Chartreuse, dove sto iniziando a dare gli esercizi spirituali, ho visto questo bell’affresco dell’Assunta: in basso la morte di Gesù, sopra la morte di Maria, poi la sua assunzione e infine Maria piccolina, quasi una bambina, nelle mani della Trinità. È il nostro cammino.

sabato 14 agosto 2021

Madonna oblata


Il 15 agosto 1822 è rimasto, nella memoria degli Oblati, come il giorno della “Madonna del sorriso”. Secondo la tradizione la “bella statua” elevata “alla memoria [della Vergine] nella chiesa [della missione]”, davanti alla quale sant’Eugenio stava pregando, avrebbe “aperto gli occhi ed inclinato leggermente il capo verso il Fondatore”, colmando, con il sorriso, il suo cuore di una gioia e forza indicibile. Così ha raccontato p. Edmond Dubois al processo di beatificazione. Forse, più semplicemente, come scrive Lubowicki, si è trattato di un’esperienza tutta interiore.

Quel giorno, festa dell’Assunta, sant’Eugenio benedisse la bella statua che aveva comprato per la chiesa degli Oblati a Aix, una statua di legno completamente dorata nel più puro stile provenzale, e parlò di lei con tutta l’effusione del cuore, davanti a una folla numerosa. A sera la gente uscì in processione, mentre egli rimase in preghiera davanti all’immagine. Gli sembrò di vedere, di toccare con mano come la piccola famiglia di missionari, a cui aveva dato vita da sei anni, racchiudesse in germe virtù grandissime che si sarebbero sviluppate fino a operare un bene infinito. Trovò bella e buona la sua opera, le piacevano le Regole, il suo ministero gli pareva sublime. Ma vide anche la propria piccolezza e miseria, le prove e le difficoltà che la comunità avrebbe dovuto attraversare... Fu allora che sperimentò lo sguardo materno di Maria, pieno di tenerezza, e si sentì infondere una forza nuova. Fu certo, più che mai, che la sua opera veniva da Dio.

Quella statua è così cara agli Oblati che l’hanno portata sempre con sé nei loro vari spostamenti. Dopo l’espulsione dei religiosi dalla Francia giunse a Roma, prima nella casa vicino al Colosseo, poi qui in Via Aurelia. Ogni giorno la comunità si raccoglie attorno a lei e canta il Salve Regina: ella è sempre più la Madre che tutti ci raccoglie in unità.

Ma leggiamo un passo della lettera che la sera del 15 agosto 1822 sant’Eugenio scrisse all’amico p. Tempier:

«Mio carissimo e ottimo fratello, la funzione è finita, in casa regna il silenzio rotto appena dal suono lontano di una campana che annunzia l’uscita della processione solenne. Contento dell’omaggio sincero reso alla nostra Madre buona ai piedi della bella statua collocata in suo ricordo nella nostra chiesa, lascio ad altri la cura di onorarla con la pompa esterna di una sfilata che non offrirebbe nulla di edificante alla mia devozione, forse troppo esigente. Questo tempo, mio carissimo amico, sia utilizzato per ritrovarci insieme nelle dolci effusioni dei nostri cuori.

Come vorrei comunicarvi la consolazione profonda goduta in questo giorno bellissimo consacrato a Maria, nostra Regina. Da molto tempo non provavo tanta gioia nel parlare delle sue grandezze, nell’invogliare i cristiani a riporre in lei ogni fiducia, com’è accaduto stamani durante l’istruzione data ai membri della Congregazione [della Gioventù Cristiana di Aix]. Spero che mi abbiano capito, e stasera mi sono accorto che i frequentatori della nostra chiesa condividevano il fervore suscitato dalla vista della sua immagine e più ancora le grazie che lei ci otteneva dal suo divin Figliuolo, mentre noi ci rivolgevamo con tanto affetto a lei che è nostra Madre.

Io personalmente credo di esserle debitore di un sentimento non dico mai provato finora, ma certo non come al solito. Non potrei esprimerlo con precisione perché è composto di vari elementi, ma tutti si riferiscono a un solo oggetto: la nostra cara Società. Mi pareva di vedere e toccare con mano che essa racchiude in germe virtù altissime e potrebbe compiere un bene immenso. La trovavo una buona Società, e tutto in lei mi sembrava encomiabile: mi piacevano le sue Regole e i suoi Statuti, il suo ministero mi pareva sublime, come lo è effettivamente. Trovavo in lei mezzi sicuri di salvezza, anzi infallibili per come li vedevo.

Un solo motivo di dolore veniva a ridurre e a spegnere quasi la gioia alla quale mi sarei abbandonato: ero io stesso. Mi sono visto come il solo e vero ostacolo al grande bene che potrebbe operarsi; ma vedo soltanto in maniera confusa quel che dovrei fare per essere più utile alla Società e alla Chiesa» (Écrits oblats, 8, 98-99).

«Molti avvenimenti accaduti nella Congregazione dopo tale data – ha scritto Lubowicki a proposito di questa esperienza – indicano che Eugenio ha visto lo sguardo materno di Maria, pieno di tenerezza, posato su di lui; ha visto in Maria la Madre che prendeva lui e tutti gli appartenenti alla Congregazione. Tale esperienza non poteva essere definita in un modo migliore di come lo è stata: “il sorriso della Madre”. Un sorriso che – sperimentato da Eugenio in un momento di stanchezza morale, mentre avvertiva il peso delle prove che gravavano sulla Congregazione – infonde nel suo cuore nuova forza, per sopportare difficoltà più dure, che si presenteranno in seguito. Il Fondatore ha vissuto questo momento “con uno sguardo di fede”! Tale affermazione sembra essere la più vicina alla verità, nella quale le cose troppo straordinarie non sono capaci di trovare il loro posto. Tale verità – semplice e perciò profonda – è molto più bella!» (K. Lubowicki, Maria nella vita del Beato Eugenio de Mazenod e della sua Congregazione, Teresianum, Roma 1987, p. 147-148).

Per chi volesse saperne di più: B. L. Wittenbrink, The Oblate Madonna. An Essay on the Miraculous Virgin, “La Vierge au Miracle”, “Études Oblates” 1 (1942), p. 221-234. / Y. Beaudoin, Madone oblate, Dictionnaire historique…, I, p. 389-391. / A. Nsolo Habel, Notre Mère. Marie Immaculée dans la vie et les écrits de saint Eugène de Mazenod, Rome 2015, p. 101-116.

venerdì 13 agosto 2021

Il professore Upadhyàya ha raggiunto Ananda


Incontrai il professor Upadhyàya a Castelgandolfo durante un simposio Indù-Cristiano. La barba bianchissima e folta gli arrivava fino alla cintola, i capelli raccolti in una lunga treccia arrotolata dietro la nuca. La sua conferenza verteva sul Bhàkti, l’amore puro che gli indù sono chiamati a vivere, in totale abbandono e fedele donazione a Dio. Non una lezione teorica, raccontava semplicemente come, assieme alla moglie, viveva il rapporto con il bambino-Krishna.

Una ventina d’anni prima una piccola statua del dio Krishna, venerata da due generazioni in una famiglia indiana, espresse un desiderio: “Mi piacerebbe essere trasferita in casa del professor Upadhyàya perché lui e sua moglie mi sono fedeli devoti”. Così l’11 novembre 1986 il bambino Krishna entrò in casa del professor Upadhyàya, direttore degli studi di ricerca post-laurea in Sanscrito e Cultura indiana antica all’Università di Bombay.

“La statuina che è giunta a casa nostra – raccontava – non è una semplice icona o statua o fotografia del dio Krishna: è proprio lui, è nostro figlio, un bambino vero!”. Ogni mattina lui e la moglie andavano a porgergli il loro ossequio. Gli toglievano la coperta dal letto, gli cantavano una dolce melodia, gli porgevano una piccola giara d’acqua pregandolo di volersi lavare da sé. Altre volte gli lavavano loro stessi denti e viso. Prendevano quindi il tè e lo servivano anche a lui in una tazzina che gli sistemavano su un piccolo vassoio e tante mille attenzioni. Poi ci sono i pasti, il riposo pomeridiano, le visite degli amici, le feste, il riposo serale… Il tutto accompagnato da inni, nenie e dolci conversazioni (Krishna abitualmente parla loro nel sonno). L’intera giornata ruota attorno al bambino Krishna: “Parliamo con lui, scherziamo con lui. Alle volte ci fa perdere la pazienza, allora cerchiamo anche di intimorirlo… Altre volte lo coccoliamo. Insomma io e mia moglie viviamo spontaneamente senza fatica insieme con Lui ogni momento della nostra giornata. Dio è il centro della nostra vita, tutte le nostre attività sono rapportate a lui”.

Rimasi incantato dalla semplicità di questo grande professore, così come della sua grande fede e profonda devozione.

Dopo la conferenza andai a visitare il professor Upadhyàya nella stanza d’albergo. Fui accolto con profonda cordialità e invitato a sedermi per terra, sul tappeto, davanti al piccolo Krishna: naturalmente l’aveva portato con sé a Roma. Con mia sorpresa mi accorsi che erano due gemelli, grandi appena cinque centimetri. La signora mi mostrò l’intero guardaroba del Dio. Avrebbe dovuto preparargli un vestito nuovo perché ad agosto sarebbe stato il compleanno. Noto che il piccolo Krishna ha in mano un minuscolo flauto e mi interesso anche a questo strumento. Nel pomeriggio, prima di riprendere i lavori del dialogo Indù-Cristiano, il professor Upadhyàya mi viene incontro eccitato: “Durante la siesta mi è apparso il piccolo Krishna e di ha detto: Sono stato contento che il tuo ospite sia venuto a farmi visita. Hai visto come si è interessato del mio flauto? Ho un messaggio per lui: Digli di essere vuoto come un flauto, in modo che attraverso di lui possa far risuonare le mie melodie”.

Ne nacque una profonda amicizia. L’ho incontrato parecchie volte a Roma, in Thailandia, in India… Indimenticabile l’accoglienza che riservò nel 2005 alla sua università. La Bharatiya Vidya Bhavan (Casa delle sapienza indiana).

L’ultimo incontro fu nella sua casa al centro di Mumbai, la vigilia di Natale 2016. Un appartamento piccolo, stracolmo di libri, sparsi ovunque. Due camere e cucina, dove vive il professore con la moglie e con il figlio sposato.

Gli chiedo chi è un guru, perché lo so, Upadhyàya è un guru. “È colui che illumina la via, e mostrare la strada, che eliminare la tenebra e dà luce agli occhi per poter vedere fuori di noi e dentro di noi”. La parola ha la radice che significa luce. E come si sceglie il proprio guru? gli domando ancora. “Il guru non si sceglie, è il guru che sceglie te. O piuttosto è una misteriosa, inspiegabile attrazione reciproca. Come è accaduto a Gesù con i suoi primi discepoli – continua a spiegarmi. Le ha guardati negli occhi, loro lo hanno guardato negli occhi e c’è stata l’attrattiva. La stessa che sta all’origine dell’innamoramento di un ragazzo e di una ragazza: perché proprio quella ragazza, quando ce ne sono di più belle, di più ricche? È il mistero dell’amore… In definitiva è Dio che ha scelto quelle due persone a percorrere una strada insieme come due tronchi che navigano sullo stesso fiume, uno accanto all’altro”.

Intanto la moglie Koikyla e la nuora ci offrono tè indiano con ginger e menta e tipici snacks del Gujarat: pakora fritte in nostra presenza e minuscoli dolci con diversi ingredienti. Noi, essendo Natale, gli regaliamo una statuina di Gesù Bambino, fatta dai gen 4.

Gli chiedo se mi fa vere un testo del Bhagawad-Gita in sanscrito, poi azzardo: “Perché non salmodiate un capitolo?” Koikyla canta tutta una parte del testo sacro. Ha il libro aperto, ma lo sa tutto a memoria. Canta anche la nuova; anche lei lo sa a memoria, pur non conoscendo l’antica lingua sanscrita. Si crea una atmosfera sacra.

Il prof. Upadhyàya mi chiede se possiedo il testo del Bhagawad-Gita. “In inglese”, gli risposto. Sorride: “È come se invece di vivere con la moglie avessi soltanto una sua foto!”. Me ne offre una copia in sanscrito, anche con alcune illustrazione.

Parlando di prossimi appuntamenti, ci prega di ricordargli le date, “perché ormai sono vecchio e ho poca memoria. L’unica cosa che ricordo è Dio”.

Prima di uscire gli chiedo se posso vedere il Baby Krishna che aveva portato con sé a Roma nel 2002, quando ci eravamo conosciuti la prima volta. Passiamo così nella mini cucina dove si trova il piccolo tempio di famiglia dedicato a Krishna e ai due piccoli gemelli Krishna. Sorpresa: il Gesù Bambino che avevamo appena regalato è già collocato accanto a Krishna! Faranno Natale insieme! Gesù non è venuto in terra proprio per entrare nelle nostre culture?

Oggi mi giunge la notizia che “il professore Upadhyàya, pioniere nel dialogo hindu-cristiano con Chiara Lubich, ha raggiunto "Ananda", il luogo del riposo del giusto”. Ci incontreremo ancora…