venerdì 23 marzo 2018

Il cenacolo: La lavanda dei piedi / 2


  
La lavanda dei piedi il Giovedì Santo è un rito liturgico che conserva un forte valore di segno. Papa Francesco gli ha ridato inaspettato vigore andando nelle carceri, luoghi “periferici”, lontano dalle basiliche, inginocchiandosi davanti a giovani uomini e donne, cristiani e musulmani.

La prima volta, era il 28 marzo 2013, all’Istituto Penale per Minori di “Casal del Marmo” a Roma, parlò con una semplicità disarmante:
Questo è commovente. Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli. (…) Lavare i piedi è: “io sono al tuo servizio”. E anche noi, fra noi, non è che dobbiamo lavare i piedi tutti i giorni l’uno all’altro, ma che cosa significa questo? Che dobbiamo aiutarci, l’un l’altro. A volte mi sono arrabbiato con uno, con un’altra … ma… lascia perdere, lascia perdere, e se ti chiede un favore, fatelo. Aiutarci l’un l’altro: questo Gesù ci insegna e questo è quello che io faccio, e lo faccio di cuore, perché è mio dovere.  (…) Adesso faremo questa cerimonia di lavarci i piedi e pensiamo, ciascuno di noi pensi: “Io davvero sono disposta, sono disposto a servire, ad aiutare l’altro?”. Pensiamo questo, soltanto. E pensiamo che questo segno è una carezza di Gesù, che fa Gesù, perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per aiutarci.

L’anno seguente, 17 aprile 2014, alla Fondazione Don Carlo Gnocchi di Roma, il suo discorso fu così essenziale che non è neppure registrato nei documenti ufficiali della Santa Sede:
Lui ha fatto questa strada per amore, anche voi dovete amarvi, essere servitori nell’amore: questa l’eredità che ci lascia Gesù; e fa questo gesto di lavare i piedi che è un gesto simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi, ai commensali, alla gente che veniva a pranzo o a cena perché in quel tempo le strade erano tutte di terra e quando entravano a casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù fa un gesto, un lavoro, un servizio da schiavo, da servo. E questo lo lascia come eredità fra noi: noi dobbiamo essere servitori gli uni degli altri.

«Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri» (Gv 13, 14). Queste parole domandano un atteggiamento di umiltà e di concreto servizio. Una comunità può crescere nell’amore a condizione che ognuno lavi i piedi all’altro, nel duro della vita quotidiana, nella ferialità dei piccoli gesti, nel silenzio nascosto che non aspetta riconoscimenti. Viene immediatamente alla mente la mamma che non si risparmia, che si dona dalla mattina alla sera come fosse la cosa più normale del mondo. Anche ai figli, anche al marito sembra un atteggiamento normale, quasi fosse un servizio loro dovuto. È così che si ama. Ognuno è chiamato ad essere madre dell’altro in un costante e reale servizio quotidiano e concreto.

Questo richiede di entrare nel mondo interiore dell’altro, vedere con i suoi occhi, sentire con i suoi sentimenti, condividere tutto di lui. È l’invito di Paolo a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, l’invito a farsi tutto a tutti (cf 1 Cor 9, 19-23). È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (cf Rm 12, 5), in una dimensione tipicamente pasquale. Sulla croce Gesù ha portato all’estremo il «farsi tutto a tutti», condividendo tutto di noi: egli che non conosceva peccato si è fatto peccato per noi (cf 2 Cor 5, 21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf Mc 15, 34), si è sottoposto alla nostra stessa morte (cf Fil 2, 6-8). Sul suo esempio siamo chiamati a «portare i pesi gli uni degli altri» (cf Gal 6, 2), ad amare «sinceramente come fratelli», «intensamente, di vero cuore» (1 Pt 1, 22). Un amore intero, capace di rendere «partecipi delle gioie e dei dolori degli altri» e di essere animato «da affetto fraterno» (1 Pt 3, 8-9), purificando dalle ambiguità e dagli egoismi, avvalorando le doti della persona.


Nessun commento:

Posta un commento