La
lavanda dei piedi il Giovedì Santo è un rito liturgico che conserva un forte
valore di segno. Papa Francesco gli ha ridato inaspettato vigore andando nelle
carceri, luoghi “periferici”, lontano dalle basiliche, inginocchiandosi davanti
a giovani uomini e donne, cristiani e musulmani.
La
prima volta, era il 28 marzo 2013, all’Istituto Penale per Minori di “Casal del Marmo” a
Roma, parlò con una semplicità disarmante:
Questo è
commovente. Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli. (…) Lavare i piedi è: “io
sono al tuo servizio”. E anche noi, fra noi, non è che dobbiamo lavare i piedi
tutti i giorni l’uno all’altro, ma che cosa significa questo? Che dobbiamo
aiutarci, l’un l’altro. A volte mi sono arrabbiato con uno, con un’altra … ma…
lascia perdere, lascia perdere, e se ti chiede un favore, fatelo. Aiutarci l’un
l’altro: questo Gesù ci insegna e questo è quello che io faccio, e lo faccio di
cuore, perché è mio dovere. (…) Adesso
faremo questa cerimonia di lavarci i piedi e pensiamo, ciascuno di noi pensi:
“Io davvero sono disposta, sono disposto a servire, ad aiutare l’altro?”.
Pensiamo questo, soltanto. E pensiamo che questo segno è una carezza di Gesù,
che fa Gesù, perché Gesù è venuto proprio per questo: per servire, per
aiutarci.
L’anno
seguente, 17 aprile 2014, alla Fondazione Don Carlo Gnocchi di Roma, il suo
discorso fu così essenziale che non è neppure registrato nei documenti
ufficiali della Santa Sede:
Lui ha fatto questa strada
per amore, anche voi dovete amarvi, essere servitori nell’amore: questa l’eredità
che ci lascia Gesù; e fa questo gesto di lavare i piedi che è un gesto
simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi, ai commensali, alla gente che
veniva a pranzo o a cena perché in quel tempo le strade erano tutte di terra e
quando entravano a casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù fa un gesto, un
lavoro, un servizio da schiavo, da servo. E questo lo lascia come eredità fra
noi: noi dobbiamo essere servitori gli uni degli altri.
«Anche
voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri» (Gv 13, 14). Queste parole domandano un atteggiamento di umiltà e di
concreto servizio. Una comunità può crescere nell’amore a condizione che ognuno
lavi i piedi all’altro, nel duro della vita quotidiana, nella ferialità dei
piccoli gesti, nel silenzio nascosto che non aspetta riconoscimenti. Viene
immediatamente alla mente la mamma che non si risparmia, che si dona dalla
mattina alla sera come fosse la cosa più normale del mondo. Anche ai figli,
anche al marito sembra un atteggiamento normale, quasi fosse un servizio loro
dovuto. È così che si ama. Ognuno è chiamato ad essere madre dell’altro in un
costante e reale servizio quotidiano e concreto.
Questo
richiede di entrare nel mondo interiore dell’altro, vedere con i suoi occhi,
sentire con i suoi sentimenti, condividere tutto di lui. È l’invito di Paolo a
farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, l’invito a
farsi tutto a tutti (cf 1 Cor 9,
19-23). È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi
sentimenti gli uni verso gli altri (cf Rm
12, 5), in una dimensione tipicamente pasquale. Sulla croce Gesù ha portato
all’estremo il «farsi tutto a tutti», condividendo tutto di noi: egli che non
conosceva peccato si è fatto peccato per noi (cf 2 Cor 5, 21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf Mc 15, 34), si è sottoposto alla nostra
stessa morte (cf Fil 2, 6-8). Sul suo
esempio siamo chiamati a «portare i pesi gli uni degli altri» (cf Gal 6, 2), ad amare «sinceramente come
fratelli», «intensamente, di vero cuore» (1
Pt 1, 22). Un amore intero, capace di rendere «partecipi delle gioie e dei
dolori degli altri» e di essere animato «da affetto fraterno» (1 Pt 3, 8-9), purificando dalle
ambiguità e dagli egoismi, avvalorando le doti della persona.
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