«Ho tanto desiderato mangiare
questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 14-15).
È un desiderio che viene da
lontano. Già Isaia annuncia il proposito del Signore: «Preparerà il Signore degli eserciti / per
tutti i popoli, su questo monte, / un
banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, / di cibi succulenti, di vini raffinati» (25,
6).
Gesù, che inizia il suo ministero
con le nozze di Cana, amava stare a
tavola soprattutto con peccatori e pubblicani, fino ad essere tacciato di mangione e beone (cf. Lc 7, 34). Si
invita a pranzo da Zaccheo, gradisce l’invito a pranzo di Levi e di Simone. Lo
troviamo a pranzo alle nozze di Cana, nella casa di Marta e Maria a Betania.
Per non parlare delle parabole nelle quali i banchetti nuziali sono all’ordine
del giorno, o dove si finisce a tavola come nel racconto del figlio prodigo. Paragona il
regno dei cieli a
un grande banchetto, quando «molti verranno dall’oriente e dall’occidente e
siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8, 11; Lc 12, 37). Nell’attesa sta alla porta e bussa sperando di potere
entrare e cenare (cf. Ap 3, 20).
Quando tutto sarà compiuto si adempirà la beatitudine finale: «Beati gli
invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» (Ap 19, 9).
Quel
desiderio nel cenacolo trova finalmente il suo momento di attuazione, l’ora
propizia: «Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli
con lui, e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con
voi, prima della mia passione”» (Lc 22, 14-15).
Ha scelto bene, Gesù. Sapeva che la
convivialità è una delle espressioni più belle del vivere umano. È a tavola che
la famiglia si ritrova; a tavola che ci si racconta il vissuto quotidiano, ci
si apre alle confidenze, ci si “ricrea”, si prova la più pura gioia. Come altro
avrebbe potuto celebrare il suo Giovedì santo, se non con una cena?
Quante volte si è seduto a mensa
con i tuoi discepoli per vivere con loro la sincerità dell’amicizia. Quante
volte si è assiso alla mensa dei peccatori per far sentire la sua vicinanza e
la sua misericordia. Moltiplicò il pane per le folle perché di tutti provò compassione.
Questa
sera è diverso.
Quando i discepoli ricevono il pane spezzato e il calice del vino, questo non
è più il solito pane, questo non è più il solito vino, sono il suo corpo, sono
il suo sangue.
Dovremmo ascoltare attentamente i verbi del pane e del vino: Preso un pane, rese
grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio
corpo che è dato per voi; fate questo
in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice
dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che
viene versato per voi» (Lc
22, 19-20).
La sequenza dei verbi, prendere,
benedire, spezzare, donare, è diventata una formula liturgica. La stessa
impiegata nel racconto della moltiplicazione dei pani. I due momenti si
ricongiungono e si illuminano l’uno con l’altro.
Quel gesto dello spezzare il pane rimase indelebile nella
mente dei discepoli. I due di Emmaus riconobbero Gesù allo spezzare del pane; la
prima comunità cristiana era perseverante «nello spezzare il pane» (Atti 2, 42), «spezzavano il pane nelle
case» (Atti 2, 46). A Troade la
comunità si riuniva il primo giorno della settimana per «spezzare il pane» (Atti, 20, 7), così come durante la
tempesta sul mare, prima di approdare a Malta, sulla nave Paolo «prese un pane…
e lo spezzò» (Atti 27, 35). L’espressione
“spezzare il pane” (klásis tou ártou)
non si trova nella grecità classica, è tipica dei racconti evangelici, al punto
da diventare quasi una formula “tecnica” per indicare l’eucaristia, anche se si
imporrà quest’ultimo termine, legato al “rendimento di grazie”.
È un gesto che indica condivisione,
comunione di mensa, fraternità. È il gesto del capofamiglia, quasi generante la
fraternità. Ancora a casa mia, quand’ero ragazzo, nessuno pensava di prendersi
il pane da solo, era sempre il babbo che a tavola distribuiva il pane. È così
che ci si riconosce fratelli. Un unico pane diviso tra tutti. Niente di più
semplice e di più profondo che mangiare lo stesso pane. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di
Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti
infatti partecipiamo all'unico pane» (1
Cor 10, 16-17).
Quello spezzare anticipa lo
squarciamento del corpo di Cristo sulla croce, il cuore trafitto, di cui è
simbolo lo squarciarsi del velo del tempio. Il pane è spezzato per essere
donato, sminuzzato perché Dio sia accessibile all’uomo, non più nascosto nel
“santo dei santi”.
Il
pane spezzato è pane dato.
Gesù spezza l’unico pane in modo che il suo corpo possa essere dato ad ognuno. Gesù è dono di sé. Compie
in prima persona ciò che aveva chiesto ai discepoli: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9, 24). Egli perde la propria
vita spezzandola e donandola. Vive per l’altro, così come aveva chiesto
all’altro di vivere per lui. Nel
dare il pane dona se stesso interamente, incondizionatamente, nell’amore più
grande, fino a dare la vita.
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