Per entrare nell’Auditorium
dell’Università Antoniana sono passato per il chiostro del più grande convento
di Roma. Forse non c’ero più entrato da quegli anni Settanta del secolo scorso.
Improvvisamente mi sono ricordo
di quando la domenica pomeriggio mi inoltravo su per i corridoi di cui non si scorgeva
la fine. Gli occhi abbagliati di sole, lentamente mi adattavo alla penombra. I
rumori della città si erano attutiti fino a lasciarmi nel più profondo
silenzio. Le pareti sembrano ovattate. Nella penombra solitaria si udivano solo
i miei passi timorosi. Avrei voluto camminare in punta di piedi per non
disturbare i frati mistici e penitenti dipinti sui quadri grandi appesi ai
muri. Fissati sulle tele, contemplavano, estatici, realtà invisibili di
Paradiso, o miravano, affranti, il teschio segno d’ogni vanità.
Le porte si susseguivano
uguali, a ritmo regolare. Dietro ognuna di esse si celava un mistero. Mi trovavo
nel cuore dei secoli.
Ed eccomi davanti all’unica
cella nota, minuscola particella dell’immenso convento. Disadorna come tutte le
celle. L’essenziale, nulla di più. Il padre Serafico non troverebbe avuto niente
da gettare dalla finestra. Unico accessorio insolito un fornellino elettrico
incastonato tra il muro e l’armadio.
Padre Novo mi accoglieva con
festa. Sempre lo stesso: saio, manicotti, aria indaffarata.
Pochi minuti ed ecco Micor,
abito sacerdotale, mantellina nera, e sotto il braccio una scatola di biscotti.
Poi Minimo, dimesso e distinto, capelli a spazzola. In mano una busta di
plastica da supermercato da cui spunta una bottiglia di Vecchia Romagna. Poi
Santino, giovanile e spigliato. Mi piacevano questi religiosi, ognuno di un
Ordine diverso. Dai quattro angoli di Roma si davano appuntamento nella cella
di Novo per formare un originale convento nel convento.
In quelle domenica senza
tempo, di rinnovava lo straordinario quartetto. Mi piaceva stare con loro. Mi
aiutavano a pensare in grande.
Novo preparava il caffè, poi
leggeva alcune pagine di sapienza e narrava gli ultimi avvenimenti della
diffusione del Vangelo.
Tirava fuori lettere d’ogni
parte del mondo. Io, il più giovane, le leggevo ad alta voce e passavano
davanti a noi missionari dell’Indonesia e del Madagascar, monaci della Francia
e della Spagna, religiosi persi tra i poveri e i giovani: situazioni le più
diverse ed una comune ansia di unità. Mi si aprivano sconfinati orizzonti e mi
si scaldava il cuore.
Era ormai notte quando uscivo
dal convento. Non vedevo più né corridoi né quadri né chiostri. Non vedevo le
luci di Roma. Non sentivo più il silenzio monastico né il rumore della città. Ero
in altra luce e in altra armonia.
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