venerdì 2 marzo 2018

In quel chiostro, quarant'anni più tardi



Per entrare nell’Auditorium dell’Università Antoniana sono passato per il chiostro del più grande convento di Roma. Forse non c’ero più entrato da quegli anni Settanta del secolo scorso.
Improvvisamente mi sono ricordo di quando la domenica pomeriggio mi inoltravo su per i corridoi di cui non si scorgeva la fine. Gli occhi abbagliati di sole, lentamente mi adattavo alla penombra. I rumori della città si erano attutiti fino a lasciarmi nel più profondo silenzio. Le pareti sembrano ovattate. Nella penombra solitaria si udivano solo i miei passi timorosi. Avrei voluto camminare in punta di piedi per non disturbare i frati mistici e penitenti dipinti sui quadri grandi appesi ai muri. Fissati sulle tele, contemplavano, estatici, realtà invisibili di Paradiso, o miravano, affranti, il teschio segno d’ogni vanità.
Le porte si susseguivano uguali, a ritmo regolare. Dietro ognuna di esse si celava un mistero. Mi trovavo nel cuore dei secoli.

Ed eccomi davanti all’unica cella nota, minuscola particella dell’immenso convento. Disadorna come tutte le celle. L’essenziale, nulla di più. Il padre Serafico non troverebbe avuto niente da gettare dalla finestra. Unico accessorio insolito un fornellino elettrico incastonato tra il muro e l’armadio.
Padre Novo mi accoglieva con festa. Sempre lo stesso: saio, manicotti, aria indaffarata.
Pochi minuti ed ecco Micor, abito sacerdotale, mantellina nera, e sotto il braccio una scatola di biscotti. Poi Minimo, dimesso e distinto, capelli a spazzola. In mano una busta di plastica da supermercato da cui spunta una bottiglia di Vecchia Romagna. Poi Santino, giovanile e spigliato. Mi piacevano questi religiosi, ognuno di un Ordine diverso. Dai quattro angoli di Roma si davano appuntamento nella cella di Novo per formare un originale convento nel convento.

In quelle domenica senza tempo, di rinnovava lo straordinario quartetto. Mi piaceva stare con loro. Mi aiutavano a pensare in grande.
Novo preparava il caffè, poi leggeva alcune pagine di sapienza e narrava gli ultimi avvenimenti della diffusione del Vangelo.
Tirava fuori lettere d’ogni parte del mondo. Io, il più giovane, le leggevo ad alta voce e passavano davanti a noi missionari dell’Indonesia e del Madagascar, monaci della Francia e della Spagna, religiosi persi tra i poveri e i giovani: situazioni le più diverse ed una comune ansia di unità. Mi si aprivano sconfinati orizzonti e mi si scaldava il cuore.

Era ormai notte quando uscivo dal convento. Non vedevo più né corridoi né quadri né chiostri. Non vedevo le luci di Roma. Non sentivo più il silenzio monastico né il rumore della città. Ero in altra luce e in altra armonia.


Nessun commento:

Posta un commento