Roma, visita alle Sette chiese |
«Da
questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli
altri» (Gv 13, 35). È il distintivo,
il segno di riconoscimento, la caratteristica tipica dei cristiani, perché così
Gesù ha pensato la sua comunità. È il segno distintivo dei cristiani, perché
così Gesù ha pensato la sua comunità. Ciò che caratterizza i suoi discepoli non
è la preghiera, il servizio ai poveri, l’ascesi, aspetti fondamentali della
loro vita che condividono con i seguaci di ogni religione. È la reciprocità
dell’amore che, come appare fin dagli inizi, quando la comunità nascente di Gerusalemme era ammirata per la comunione
dei beni che ci si viveva loro, per l’unità che vi regnava, per la
«letizia e semplicità di cuore» che la caratterizzava (cf. Atti 2,46). «Il popolo
li esaltava», leggiamo sempre negli Atti degli Apostoli (cf. 4, 33), con la
conseguenza che ogni giorno «andava aumentando il numero degli uomini e delle
donne che credevano nel Signore» (5,13-14). La testimonianza di vita della
comunità aveva una forte capacità attrattiva.
Un
affascinante scritto dei primi secoli del cristianesimo, la Lettera a Diogneto, prende atto che «i
cristiani non si differenziano dagli
altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non
abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non
adottano uno speciale modo di vivere». Sono persone normali, come tutte le
altre. Eppure possiedono un segreto che consente loro di incidere profondamente
nella società, diventandone come l’anima (cf. cap. 5-6).
I discepoli di Gesù sono riconosciuti per il
loro reciproco amore? «La storia della Chiesa è una storia di santità»
ha scritto Giovanni Paolo II. Essa tuttavia «registra anche non poche vicende
che costituiscono una contro-testimonianza nei confronti del cristianesimo» (Incarnationis Mysterium, 11). In nome di
Gesù per secoli i cristiani si sono combattuti in guerre interminabili e
continuano ad essere divisi tra di loro. Ci sono persone che ancora oggi associano i cristiani con le
Crociate, con i tribunali dell’Inquisizione, oppure li vedono i difensori ad
oltranza di una morale antiquata, che si oppongono al progresso della scienza.
La
testimonianza che Gesù richiede è quella di una comunità che mostri la verità
del Vangelo. Essa deve far vedere che la vita da lui portata può realmente
generare una società nuova, nella quale si vivono rapporti di autentica
fraternità, di aiuto e servizio vicendevole, di attenzione corale alle persone
più fragili e bisognose.
Senza
estraniarci dai luoghi che abitiamo e dalle persone che frequentiamo, se
viviamo tra noi quell’unità per la quale Gesù ha dato la vita, potremo creare
un modo di vivere alternativo e seminare attorno a noi germi di speranza e di
vita nuova. Una famiglia che rinnova ogni giorno la volontà di vivere con
concretezza nell’amore reciproco può diventare un raggio di luce nell’indifferenza
reciproca del condominio o del vicinato. Una “cellula d’ambiente”, ossia due o
più persone che si accordano per attuare con radicalità le esigenze del Vangelo
nel proprio campo di lavoro, nella scuola, nella sede del sindacato, negli
uffici amministrativi, in un carcere, potrà spezzare la logica della lotta per
il potere e creare un clima di collaborazione e favorire il nascere di una
insperata fraternità.
Non
facevano così i primi cristiani al tempo dell’impero romano? Non è in questo
modo che hanno diffuso la novità trasformante del cristianesimo? Siamo noi oggi
“i primi cristiani”, chiamati, come loro, a perdonarci, a vederci sempre nuovi,
ad aiutarci; in una parola, ad amarci con l’intensità con cui Gesù ha amato,
nella certezza che la sua presenza in mezzo a noi ha la forza di coinvolgere
anche altri nella logica divina dell’amore.
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