

Partenza presto da Roma, scalo a Bruxelles, Douala
e infine Yaoundé. Più di 12 ore di viaggio, niente in confronto ai viaggi dei
nostri primi missionari. Mentre scendo dall’aereo una delle assistenti di volo mi
dice: “Preghi per me, padre, perché sono una peccatrice”. “Anch’io lo sono” le ho risposto.
Fuori mi attende il giovane superiore dello
scolasticato degli Oblati. Saluto di rito: testata a destra, a sinistra e in
alto sulla fronte…


È notte fonda, giunta senza preavviso, come accade
spesso all’equatore. Le strade sono scarsamente illuminate, in compenso sono
smisuratamente affollate: bancarelle, negozietti, punti ristoro, pentole al
fuoco… tutto all’aperto, lungo la strada appunto, sul marciapiede si direbbe se
ci fossero i marciapiedi. Una festa, un via vai disinvolto, con musiche a tutto
volume… Il traffico è congestionato, meglio dire creativo, carismatico: taxi
che si fermano in mezzo alla strada per un lungo contrattare con i clienti,
assenza assoluta di semafori, auto in panne, piccoli incidenti, tutto
contribuisce a una lentezza esasperante. Gli ultimi 500 metri che ci separano
dall’incrocio che ci porterà finalmente a casa lo percorriamo a tempi di record,
45 minuti. A differenza dell’India dove tutti suonano il clacson anche se non
hanno nessuno davanti, qui tutto si muove con calma rassegnata, si suona solo
quando qualcuno sta proprio per venirti addosso. Mondi diversi.

Ed ecco la distesa delle costruzioni della facoltà,
tutte a pian terreno, adagiate su un interminabile tappeto verde. Il viale d’entrata,
affiancato dalle palme, porta dritto alla chiesa.
La messa africana, incanta sempre, soprattutto per
il canto che fa ondeggiare tutta l’assemblea. Sgargianti i colori della festa
negli abiti fantasiosi.


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