“Mi alzerò, andrò da mio padre e
gli dirò: Padre…” (Lc 15, 1-32)
Il Padre è sicuramente l’attore
centrale della parabola.
- Per primo, da lontano, vede
venire il figlio: l’ha sempre atteso e non ha mai cessato di amarlo;
- è sconvolto fino alle viscere: lo
stesso verbo che il Vangelo riserva per Gesù quando si commuove davanti alle
folle;
- si mette a correre: comportamento
non dignitoso per la sua età e autorità;
- si getta al collo del figlio, e
quindi impedisce a quest’ultimo di umiliarsi, come aveva progettato di fare,
gettandosi ai suoi piedi;
- lo bacia in segno di perdono e di
comunione.
Seguono tre gesti simbolici ad
indicare la completa reintegrazione nella relazione filiale:
- il dono della veste lunga, di
festa che serve a onorare l’ospite o a significare la sua dignità di figlio (un
vestito prezioso costituiva spesso il regalo che un re faceva a un suo suddito
che voleva onorare); l’ordine del padre è, letteralmente, “fare uscire di
nuovo” dall’armadio o dal baule in cui la veste era conservata: non l’aveva data
a nessun altro, l’asserbava per il ritorno del figlio!
- l’anello al dito, probabilmente
con il sigillo, e quindi il ragazzo viene ristabilito nella dignità filiale con
tutta l’autorità e poteri ad essa annessi;
- i sandali: sono il segno di un
uomo libero (lo schiavo camminava a piedi nudi). Gli ospiti quando arrivavano
si toglievano i calzari, il figlio è invece calzato.
Non manca naturalmente il banchetto
e i festeggiamenti!
Così fa con noi il Padre celeste.
Del figlio scapestrato mi colpiscono
due verbi che indicano azioni apparentemente contrarie: rientrare in se stessi
e alzarsi.
Si vede che il figlio minore aveva
ascoltato il vangelo di domenica scorsa! quando Gesù chiedeva di sedersi a
pensare.
Fa proprio così. Davanti a una
situazione tragica come quella nella quale si trova, la cosa più saggia è
fermarsi, sedersi e pensare con calma: “Rientrò in sé stesso”.
Fino a quel momento era stato
sempre fuori, dissipato, dis-tratto, attratto dalle tante cose belle che
aveva attorno a sé. Preso dall’ebbrezza della libertà, dal potere dei soldi, figuriamoci
se aveva tempo per pensare. La vita spesso non è nelle nostre mani, siamo
pilotati dal di fuori, da altri e da altro.
Il grande cambiamento avviene
quando finalmente decide di “entrare dentro di sé”, di cominciare a ragionare,
a pensare con la propria testa, operazione oggi (come allora) sempre più
difficile.
È una tappa fondamentale della
conversione, del ritorno a Dio.
Sant’Eugenio de Mazenod diceva che
dobbiamo aiutare a diventare prima ragionevoli, poi cristiani, infine santi. Il
primo passo è proprio diventare ragionevoli, umani, “entrare in sé”.
Il secondo verbo è ripetuto due
volte: prima la decisione “Mi alzerò”, poi l’attuazione “Si alzò”.
Non basta pensare, bisogna agire di
conseguenza. Rientrare il sé non chiude in sé stessi, diventa anzi una molla che spinge fuori, all'azione.
Alzarsi. Il vangelo usa il verbo
greco anistēmi, risorgere! È vero che nel Nuovo Testamento è attestato 73
volte nel senso di sollevare, alzarsi, levarsi, ma è anche vero che per 35 volte
ha lo speciale significato di risuscitare o risorgere. A nessuno dei
commentatori che ho consultato è venuto in mente che qui, nel caso del figlio
minore, possa esservi un accenno di resurrezione. A me invece piace pensarlo: la
risoluzione di alzarsi è già una risurrezione. Si può ricominciare. Anche se le
motivazioni che invitano il ragazzo ad alzarsi non sono delle più pure, non
importa, basta ricominciare.
Dunque tre tappe:
- fermarsi a pensare (siamo umani!)
- prendere la decisione di alzarsi
e di ricominciare
- alzarsi per davvero!
Per il resto… nessun problema:
entra in azione il personaggio principale della parabola che ci aspetta a
braccia aperte!
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