Partiamo presto. L’autostrada sale lentamente, ma la lasciamo presto per costeggiare il Royal Natal Park. I boschi di pini e abeti si alternano con quelli di eucalipti, quelli coltivati con quelli selvaggi, le terre da pascolo con le fattorie. Pare di vedere certi paesaggi inglesi. L’occhio si riposa a tanto verde. Il ministero dell’agricoltura e dell’ambiente lavora con impegno per salvaguardare l’ecologia del Paese.
Padre Sylvester mi indica il luogo dove è nato. I suoi antenati venivano dall’India, portati a Durban dall’Impero britannico come esperti coltivatori di canna da zucchero. Da lì gli indiani si sparsero gradatamente in tutto il Paese. Il nonno di Sylvester lavorava nella fattoria di una famiglia italiana, i Piccioni. Allevava in proprio i cavalli. Una volta ne caricò 10 sul treno per venderli a Durban. Il treno deragliò e tutti i cavalli vennero uccisi. Naturalmente nessun risarcimento. Il babbo di Sylvester non aveva ancora sette anni quando tutta la famiglia si trasferì a Pietermaritzburg. Presto i genitori morirono e il bambino andò con una zia a Durban. L’Apartheid divenne legge nel 1948 e gradatamente il governo iniziò a separare le zone dove avrebbero dovuto abitare bianchi, meticci, indiani e neri. Nel 1955 – Sylvester aveva due anni – la sua famiglia fu obbligata a lasciare la casa e andare a vivere nell’aerea riservata agli indiani. Aveva sei anni quando il padre morì e la mamma dovette tirare su da sola i cinque figli. Scuole separate, autobus separati, cinema separati…
Un giorno, a 17 anni, Sylvester entra nella cattedrale di Durban. È bianco il prete che parla. Sylvester ne rimane affascinato. Pensava fosse un europeo. Quando viene a sapere che è un Oblato sudafricano non vuole crederci. “Allora ci sono anche dei sudafricani bianchi diversi! Allora sarà possibile una convivenza tra i differenti gruppi…”.
Intanto lasciamo l’autostrada e, diretti a Bloemfontein, seguiamo la strada che si inoltra verso Sterkfontein Dam Nature Riserve. Lo scenario gradatamente inizia a cambiare: sempre meno boschi sempre più savana, pascoli, terreni coltivati, alberi di spine. All’orizzonte si delinea un vasto anfiteatro di montagne. Sulla sinistra i picchi oltre i 3000 metri che proteggono il piccolo stato del Basutholand.
Mi sento attratto da un piccolo villaggio zulu lungo la strada e chiedo a Sylvester di fermarsi. Vedo la gente da lontano e domando se possiamo andare a parlare un po’ con loro. Lasciamo la strada e ci inoltriamo tra l’erba alta. Ci accoglie una bella signora alla quale Sylvester spiega che sono un padre italiano, da Roma. Possiamo entrare. Cammino tra le case di fango costruite e rifinite alla perfezione, con ordinate linee geometrici sulle pareti, i tetti di paglia compatta… Donne e bambini si fanno attorno. Fa freddo ma c’è un sole splendente che rende tutto più bello. Il villaggio segue la Chiesa africana indipendente, una delle più potenti in Sud Africa, un cristianesimo che convive con le credenze tradizionali. Hanno grande rispetto per i cattolici. Una piccola preghiera insieme, la benedizione, qualche soldo per il vestito di un bambino. Mi pare d’essere tornato ai tempi di padre Gerard e dei primi Oblati.
La mamma avrebbe voluto che P. Sylvester diventasse medico. Avrebbe voluto pagare lei l’università, ma lui non ne volle sapere, erano poveri e sapeva i sacrifici che lei faceva per far vive e studiare tutti. Andò a lavorare per mantenersi gli studi di psicologia. Gli ci vollero 10 anni per laurearsi. A quel punto entrò tra gli Oblati. Divenne prete, gli fecero prendere specializzazioni nell’Università Kwazulu-Natal e poi negli Stati Uniti. Lo mandarono addirittura a studiare teologia biblica a Roma: “Ti immagini, mi racconta, dover studiare greco ed ebraico a 40 anni?”. Adesso è il presidente dell’Istituto teologico di Cedara.
Ci troviamo ormai al centro del grande anfiteatro delle montane, sempre più vicine. Saliamo al passo, 1700 metri, e ci fermiamo per guardare in dietro, da lassù, il Kwazulu, la terra degli zulu. Troppo bello!
Sono ormai le 11 quando lasciamo la provincia Kwazulu-Natal ed entriamo in quella del Free State. Quando gli Afrikaans lo fondarono nel 1800, si chiamava Orange Free State. Orange perché l’arancio è il colore del’Olanda da dove vengono gli Afrikaans, anche se mischiati con portoghesi e altri europei. “Orange Free State? Noi, continua a raccontare Sylvester, dicevamo che non ci sono arance, non è uno stato e soprattutto non è libero!”. A lui, di origine indiana, così come alla popolazione nera, era consentito passare soltanto attraverso l’autostrada, senza fermarsi né tanto meno abitarvi.
Appena entriamo nella nuova regione, cambio di scena. Il “passo” non introduce in una nuova vallata ma su un altipiano di 2000 metri, con laghi e picchi lontani. Era il luogo ideale per gazzelle, antilopi, zebre, leoni. Vedo soltanto un branco i babbuini che, immobili lungo il ciglio della strada, guardano passare le rare auto. In alto volteggiano le aquile.
Incontriamo rari piccoli villaggi di qualche centinaio di minuscole case costruite recentemente dal governo in sostituzione delle baracche che si ammassavano in maniera caotica senza nessuna infrastruttura.
“Sono stato in carcere 15 giorni, quando ero studente di teologia dagli Oblati, perché avevo difeso due dei nostri Oblati messi in prigione per questioni razziali. Sei di questo partito? mi domandavano. No. Di quest’altro? No. Ma da che parte stai? Da quella di Gesù Cristo e del suo Regno. Non dovrai mai predicare il vangelo. E invece lo farò sempre…
“Non potevano fare tanto contro di noi perché sapevano che la Chiesa era troppo forte. Quando decisero di processare l’arcivescovo oblato di Durban, Hurley, presidente della conferenza episcopale sudafricana, vescovi di tutto il mondo annunciarono che sarebbero stati presenti al processo. Il governo disse che all’ultimo momento era stato smarrito l’incartamento che lo riguardava.
“Pensavamo che l’Apartheid sarebbe finita in un bagno di sangue e invece… Dobbiamo ringraziare la buona volontà dell’ultimo governo razzista guidato da De Klerk, Nelson Mandela, la Chiesa… Quando nel 1994, per la prima volta potetti votare nel nuovo Sud Africa libero, piansi di gioia. Finalmente ero riconosciuto come cittadino nel paese mio e dei miei padre. Avevo 41 anni”.
Siamo ormai nel Golden Gate Highlands National Park. Impieghiamo due ore per percorrere a percorrere i poco più di 30 chilometri della deserta strada serpentina che lo attraversa. Ad ogni svolta dobbiamo fermarci. Sempre nuove montagne, nuovo picchi, nuove scene che mi lasciano senza fiato. “Guarda cosa ha fatto il Padre per noi”, continua a ripetermi Sylvester che ha percorso tante volte la strada senza che la meraviglia venga mai meno.
La nazionale n. 5 ci riporta nella savana interamente adibita a pascolo. Infine la statale n. 1, che attraversa il Sud Africa da Città del Capo allo Zimbabwe. Siamo sempre a 2000 metri sull’altipiano centrale. È ormai notte quando giungiamo a Bloemfontein.
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