venerdì 17 giugno 2011

Forma e riforma della Chiesa

Di tempo in tempo nella Chiesa si leva un grido: “Riforma!”. È la denuncia di una insoddisfazione del nostro modo di seguire Gesù, la confessione dei nostri sbagli e della lontananza dall’ideale di vita che egli ci ha proposto. Il grido è anche la proclamazione dell’intento di ritrovare la purezza evangelica e l’esigenza di adeguarsi con radicalità alla parola di vita. La storia della Chiesa è scandita dalle riforme. La prima, forse, è quello che portò gli apostoli a istituire i “diaconi”.
A pochissimi anni dagli inizi nella prima comunità di Gerusalemme, si avvertiva già una disuguaglianza tra i credenti, in contrasto con il progetto iniziale che li voleva un cuore solo e un’anima sola e con i beni in comune. I credenti di origine straniera venivano discriminati proprio nella distribuzione dei beni. Bisognava correre ai ripari, “riformare” la comunità, perché trovasse nuovamente l’originaria e originale fraternità.
In alcuni momenti storici l’azione di riforma è stata talmente determinante da caratterizzare l’epoca: si parla così di “Riforma gregoriana”, o addirittura di “Riforma” in assoluto, quando ci si riferisce a Lutero e al movimento che ne è nato.
Ma è la Chiesa o sono i suoi membri e le sue istituzioni che esigono di essere riformati? Per i suoi membri non c’è alcun dubbio. Siamo tutti peccatori. Chi di noi non avverte il bisogno di riformare costantemente se stesso? La parola che usiamo abitualmente per indicare il cambiamento a cui siamo sempre chiamati è “conversione”. Essa nasce dal riconoscimento dei nostri peccati e dal desiderio di ricominciare in novità di vita.
Spesso l’esigenza di conversione non è avvertita soltanto personalmente, ma da interi gruppi e movimenti di cristiani, insoddisfatti del loro modo di vivere. È tipica quella che si avverte ciclicamente all’interno della vita monastica e religiosa, per la quale si usa proprio la parola “riforma”. Il monachesimo benedettino ha conosciuto grandi riforme, come quella cluniacense, cistercense, camaldolese… Lo stesso è avvenuto all’interno del francescanesimo, tra i Carmelitani, gli Agostiniani… In questi casi la riforma è il tentativo di tornare alla “forma” primitiva, all’ispirazione originaria del fondatore. Essa nasce dalla convinzione che l’ideale di vita sia nelle origini e che, a mano a mano che ci si allontana da esse, si perde lo smalto iniziale in un graduale e progressivo rilassamento. La constatazione della mediocrità della vita presente diventa un appello a ritrovare l’ispirazione nel passato.
Anche le istituzioni della Chiesa hanno visto e vedono una permanente riforma. Non è il ministero come tale che la domanda, ma il modo di esercitarlo; non la Parola, ma il modo di viverla e di annunciarla; non il sacramento, ma il modo di amministrarlo e di attuarlo. Ed ecco le riforme liturgiche, canoniche… Ma la Chiesa come tale è veramente “reformanda”?
I Padri e la grande tradizione teologica hanno sempre distinto tra la riforma della Chiesa e la riforma nella Chiesa. La prima, propriamente parlando, non si può dare perché la Chiesa, nella sua realtà misterica più profonda è Cristo stesso, il Santo. Ma dobbiamo pensare la Chiesa come un organismo vivente, che se non cresce e non si rinnova costantemente muore; ad un popolo in cammino che, come tale, si protende costantemente in avanti verso una meta mai raggiunta, pena l’atrofia e la paralisi; a una comunità che vive nella storia e quindi sempre stimolata a rispondere in modo creativo alle nuove sfide ed esigenze. La riforma fa allora parte della sua stessa natura di realtà storica.
Il Concilio è chiaro in proposito: “la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento” (LG 8). Con formulazione più ampia la Gaudium et spes riconosce che “benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele del suo Signore e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene, la Chiesa, quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e l’umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo. Qualunque sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del Vangelo” (n. 43).
Si comprende allora la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II, non soltanto per i peccati e gli errori dei singoli membri della Chiesa, ma dalla Chiesa intera, sempre bisognosa di conversione e di riforma. Si comprendono gli appelli forti e decisi di Benedetto XVI a risanare il marcio che c’è nella Chiesa.
I carismi, sia detto per inciso, hanno un ruolo determinante al riguardo. Essi sono dati alla Chiesa dallo Spirito Santo proprio per rinnovarla costantemente. Come non pensare a quanto Dio ha operato attraverso Benedetto, Francesco, Domenico, Caterina da Siena, Teresa di Gesù, Ignazio... Lo stesso vale per i carismi di oggi. Le persone a cui essi sono elargiti – ricorda la Lumen gentium – sono resi “adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa” (n. 12).
Quale la via per ogni riforma nella Chiesa? Le vie e le formule sono tante quanti sono i riformatori. Potremmo rileggere al riguardo l’intramontabile libro di Y. Congar, Vera e falsa riforma della Chiesa (questo il titolo della tradizione italiana; l’originale parla di “réforme dans l’Église”). A me sembra di poter cogliere due linee costanti emergenti dalla storia dei carismi.
La prima è racchiusa nel termine stesso: “ri-forma”. Si tratta di “trovare nuovamente” (ri-) la “forma” della Chiesa. Ogni riforma ha guardato alle origini, alla Chiesa primitiva di Gerusalemme, individuando in essa il modello per ogni comunità cristiana, per la Chiesa di sempre. P.C. Bori, nel suo studio sulla Chiesa primitiva, ha mostrato come “la memoria della Chiesa delle origini, e particolarmente la descrizione della sua vita secondo gli Atti degli apostoli, ha sempre costituito, si può dire, un modello, un esempio, un ideale (talvolta un mito) nel corso della storia della Chiesa. Specialmente nei periodi critici, nelle svolte decisive, la possibilità di un ritorno all’antico, alle origini, l’idea di una riforma in riferimento alla ‘ecclesiae primitivae forma’ si è riproposta con vigore sempre nuovo…
I testi degli Atti si sono posti come stimolo, provocazione, principio di crisi nella coscienza cristiana, nel dilemma tra perenne, assoluta validità dell’ideale e continua necessità di una sua storicizzazione[1]. Ogni riforma dovrebbe giungere a rendere presenti nell’oggi quelle origini. Esse non sono lontane, confinate in un mitico tempo passato, e non sono neppure annuncio di utopia per i tempi futuri; sono vive qui e ora, realtà sperimentabile, visibilizzata. La memoria si fa appello, rivolto alla Chiesa intera, a vivere secondo la propria natura e, nello stesso tempo, ne annuncia la reale attuabilità.
Ma da cosa si è sempre rimasti colpiti guardando la Chiesa delle origini? Dall’u­nità che la caratterizza. È lì il fascino segreto che attira e che innamora. Nell’unità si ritrova ogni altra dimensione evangelica. In una parola, possiamo dire che la “forma” della Chiesa è la carità, fonte dell’unità. “La Chiesa è amore”. Riforma significa ritrovare l’amore che è forma della Chiesa. Nei documenti ecclesiali si parla sovente della carità come compito della Chiesa. Forse dovremmo soffermarci di più sulla “forma” come tale. Icona della Trinità la Chiesa è amore come Dio è Amore. E Dio è Amore prima di tutto in sé, nella comunione delle Tre divine Persone. Da tale mutuo amore scaturisce l’amore per la creazione e ogni creatura. Ugualmente, la Chiesa può esercitare un servizio di carità perché è carità.
Una seconda costante per ogni riforma, che mi sembra emerga dalla storia dei carismi, è l’azione collettiva. Al termine del suo libro su Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar parla della “responsabilità collettiva” delle colpe e delle tragedie lungo la storia della Chiesa, che accomuna pastori e fedeli. Se le deviazioni e gli sbagli sono collettivi, anche i cambiamenti di vita e di strutture domandano di essere collettivi. Avrebbero impresso una svolta alla Chiesa i grandi carismatici e riformatori se attorno a loro non si fosse creato un movimento di conversione e di riforma? Se la forma della Chiesa è l’amore, si può vivere l’amore – quello cristiano, quello trinitario – da soli? O non si dovrà coinvolgere l’intera comunità nella dinamica dell’amore?
Solo nella comunione è garantita l’autentica riforma nella Chiesa, perché tra quanti ne vivono la “forma” e sono uniti nell’amore reciproco Gesù stesso, capo della Chiesa, si rende presente. Sarà lui in mezzo a noi a dare sempre nuova forma alla sua Chiesa.
Illuminanti le parole del cardinale J. Ratzinger nel suo libro Rapporto sulla fede: “Dobbiamo avere sempre presente che la Chiesa non è nostra ma sua [di Cristo]. Dunque, le ‘riforme’, i ‘rinnovamenti’ – pur sempre doverosi – non possono risolversi in un nostro darci da fare zelante per erigere nuove, sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è una Chiesa ‘nostra’, a nostra misura, che può magari essere interessante ma che, da sola, non è per questo la Chiesa vera, quella che ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio dire che ciò che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque, ‘riforma’ vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate… L’ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di santità, non di management che ha bisogno a Chiesa per rispondere ai bisogni dell’uomo”. Santità come amore vissuto, forma del singolo cristiano e della Chiesa intera.
(Unità e Carismi 2011/1)


[1] P.C. Bori, Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini – Atti 2,42-47; 4,32-37 – nella storia della Chiesa antica, Paideia, Brescia 1974, p. 11.

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