«Io in
Africa non c'ero mai stata; sì, di passaggio, due-tre volte a Dakar, di notte,
tornando dall'America, quando l'aereo scende, si ferma un'ora e riparte. Perciò
il mio primo viaggio in Africa è stato questo». Inizia così il racconto che,
attraverso una registrazione, Chiara Lubich rivolge il 5 luglio 1965 a un
gruppo di giovani riunite ad Ala di Stura (Trento).
Tutto
inizia qualche anno prima, nella provincia di
Lebialem, nel sud-ovest del Camerun, dove la malattia del sonno sta decimando
il popolo Bangwa, la mortalità infantile tocca il 90%. Gli déi sembrano non
udire le suppliche del popolo, così il Fon Defang, di Fontem, spronato dalla sua
gente, si rivolge al vescovo di Buea perché anche i cristiani preghino il loro
Dio. Nel ’62, monsignor Julius Peters, a Roma per il Concilio Vaticano II,
conosce Chiara Lubich e le trasmette la richiesta di aiuto del popolo Bangwa.
Partono quattro focolarini medici e due focolarine. Li raggiungono presto un
altro medico e un’infermiera, Cosimo e Rosa Calò, che hanno appena celebrato il
loro matrimonio.
Finalmente Chiara – dal 21-25 giugno 1965 – li incontra tutti
insieme a Douala. «Ho avuto l'impressione di
trovarmi di fronte a dei piccoli eroi. I focolarini, andando in macchina su una
strada che attraversava la foresta, lunga 300 chilometri – credo sia l'unica strada asfaltata –, mi hanno raccontato tante cose della loro vita.
Quello che fa breccia nel cuore degli africani è l'amore che hanno per loro».
Si
rende conto di quanto siano geograficamente distanti gli uni dagli altri, «chi
da una parte chi da un'altra, a curare questi ammalati, e tantissimi bambini.
Mi faceva un po' impressione vederli così sparsi per il Cameroun... I due
sposini Calò sono andati a finire proprio dentro, dentro per la foresta...».
Non è questo lo “stile” del focolare, il cui segreto è nella vita d’unità.
Matura così l’idea di raggrupparli e far nascere una cittadella.
Ecco il suo racconto:
Quello
che a me faceva impressione è che vedevo due di qua, uno di là, un altro di
là... troppo lontani fra loro, e le comunicazioni troppo difficili. Poi c'era
un particolare che veramente non potevo sopportare: che Cosimo e Rosa erano
così lontani dalla missione che potevano andare a Messa soltanto la domenica.
Allora io mi sono domandata: ma per due focolarini vale di più, in questo caso,
andare alla Comunione tutti i giorni, oppure è volontà di Dio che magari
rinuncino per stare in mezzo alla foresta? E io ho subito capito che i
focolarini sono i messaggeri dell'unità, sono gli apostoli dell'unità e che
senza Gesù Eucaristia non potranno mai alimentarsi dello spirito dell'unità,
perché è Gesù Eucaristia che porta questo spirito nelle anime nostre e fra le
anime nostre. E ho subito capito che, nonostante l'eroismo di questi due, io
avrei dovuto fare in modo di metterli più vicini ad una missione, dove ci fosse
stato un sacerdote.
C'è
una valle nel centro del Cameroun, abbastanza raggiungibile: si arriva a Buea,
e da lì si potrebbe con tre ore arrivare in questa valle, tre ore di macchina.
In questa valle il vescovo vorrebbe fare un centro tutto nostro, edificare una
chiesa, un ospedale dove lavorano i nostri medici e le infermiere, una scuola,
un liceo dove i piccoli e anche quelli grandicelli possono andare a scuola, una
scuola per catechisti sposati...
Lì,
naturalmente, l'entusiasmo mio era arrivato al culmine... formare questa
cittadella sul monte, perché tutti quelli che sono nel Cameroun e anche tutti
quelli più lontani possano vederla, e possano ammirare come si vive in una
città con l'Ideale.
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