martedì 6 agosto 2013

Perché non parlare del negativo?


Nella lunga lettera che mi è giunta dal lettore di cui ho riferito ieri, si parla anche di un fatto grave e doloroso: un Oblato che ha lasciato il sacerdozio. “Ora, senza nessun giudizio sulla persona – mi si scrive –, a me sembra che l'abbandono dello stato religioso e dello stato sacerdotale, dopo i voti perpetui ed un impegno per la vita, sia un evento che ci interpella, ci coinvolge, ci fa pensare se c'è qualcosa in noi che non va, come sia possibile che una importante e accurata pastorale vocazionale possa condurre ad esiti di questo tipo… So bene che la libertà personale è un bene, ma io faccio molta fatica a capire come un impegno “per sempre” possa essere disatteso. Per chiarezza devo dire che non capisco nemmeno come si possa rompere un matrimonio (sono un laico, vedovo), ma in questo caso si può sempre pensare che uno dei due si comporti talmente male da spiegare una separazione, anche se resta per me molto difficile capire un successivo matrimonio. Il problema, o il punto, però non è questo. Penso che sia molto problematico affrontare l'argomento dell'abbandono dello stato religioso e dello stato sacerdotale sul giornale (si riferisce alla rivista “Missioni OMI”), anche se forse sarebbe giusto”.
Certo che occorre parlarne, al momento opportuno, con le persone giuste…
Cosa ne penso?
Anni fa ho scritto una pagina piuttosto dura, che ho pubblicato sul mio libro “Sotto lo sguardo di Dio”.
Forse vale la pena rileggerla, almeno in parte:

È stato un colpo basso, di quelli che non ti aspetti e che ti lasciano senza fiato.
Se n’è andato, ha lasciato il sacerdozio.
È un colpo troppo duro.
Lo sento come un tradimento. Un impegno così solenne preso davanti a tutto il popolo di Dio. Aveva promesso che avrebbe posto la sua vita a completo servizio del Vangelo e della Chiesa, e ora me lo vedo andare via. Mi sento tradito anch’io: avevo riposto in lui tanta fiducia...
Ho speso 15 anni - forse i più belli della mia vita - nella formazione di tanti giovani Oblati. Ne ho accompagnati all'altare una sessantina e ogni volta è stata una emozione profonda e sempre nuova. Quando il vescovo mi domandava: "Sei certo che questo giovane è degno di diventare sacerdote?", non ho mai risposto con la scarna formula del rito, ma - a costo di scandalizzare qualche canonico - ho sempre raccontato la storia di quel giovane lì in ginocchio davanti a tutti i fedeli radunati in chiesa. Mi piaceva ripercorrere il filo d’oro di quella chiamata. Invocavo a testimoni parenti, amici, e tutta la gente che l'aveva conosciuto.
Ora uno di questi giovani, sacerdote da pochi anni, ha abbandonato la comunità cristiana che aveva cominciato a servire con tanta dedizione e ha chiesto di lasciare il suo ministero sacerdotale. Non mi do pace. Abbiamo passato insieme anni straordinari, condividendo la gioia di essere tutti di Dio, elaborando piani per conquistare al suo amore altre persone, popoli interi... Da quando ho saputo che ha deciso di lasciare il ministero gli ho parlato, gli ho scritto, gli ho ricordato i momenti di luce in cui aveva sentito con forza la chiamata a seguire Gesù... Invano. Non mi ascolta. Non vuole sentire ragioni. Mi sento impotente...
Aveva la vocazione, continuo a ripetermi con una fitta al cuore. Ne sono sicuro. Lo conosco troppo bene. Non passa giorno che non penso a lui, che non prego per lui, perché gli voglio bene, ora più di prima. E mi domando: Perché? Mi do tante risposte, ma nessuna mi convince.
Non posso puntare il dito e giudicare. Se questo è un fallimento - e in un modo o in un altro un prete che lascia il suo ministero è sempre un fallimento - è anche il mio fallimento. Lui è parte di me, è della mia famiglia, è un membro del corpo di cui anch'io sono parte. Soffro con lui - perché soffre, lo so - e spero con lui. Mi è chiesto soltanto di amare di più perché il dialogo ricominci e sia più vero e profondo.
Ora mi assale il dubbio. Aveva veramente la vocazione?
Che domanda stupida mi sto ponendo, come se la vocazione fosse una cosa, un oggetto che si ha, si perde, si ritrova... Non è un mazzo di chiavi, la vocazione! È un rapporto, una relazione viva e dinamica con sua storia, un cammino, una crescita, che non si può arrestare: momenti belli, difficoltà, smarrimenti, notti, nuovi slanci, luce, pace, intimità... È il progetto d'amore di Dio, il suo svelamento progressivo, la concreta attuazione. (…)
Oggi scriverei le stesse cose, ma certamente con molta più misericordia…


2 commenti:

  1. Sei entrato nel mistero del cuore umano e vi vedi tutta la fragilità che lo pervade.Anche il miglior rapporto matrimoniale è sempre a rischio.Tutta la vita è sempre in bilico tra la fedeltà e l'abbandono.Ti ringrazio di averne parlato nel blog perchè siamo tutti fragili come i cristalli che da un momento all'altro sono incrinati per una minima vibrazione.Coraggio!

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    1. Infatti. Mi è molto piaciuto il libretto allegato a una delle ultime Città Nuova, "Le spie dell'amore" di Rino Ventriglia. Da quella lettura dovrebbe risultare chiaro a chicchessia che la vita a due non è per niente semplice! Tutta una tensione a stanziarsi in Dio, d'accordo, anche qui un gioco d'amore, che ha però bisogno di un'attenzione particolare, anche psicologica...

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