Ratnapura, la città delle gemme.
Dista 85 chilometri da Colombo, ma ci sono volute tre ore per raggiungerla.
Nelle stradine della capitale occorre andare a passo d’uomo perché alle 9 del
mattino, quando siamo partiti, siano nel bel mezzo del mercato che si distende
su tutta la carreggiata. Lungo il fiume, fino a Ratnapura il traffico è
intenso, perché è un susseguirsi di cittadine e villaggi, quasi una
continuazione di Colombo, e poi la strada è quella che è.
Scrosci violenti di acqua
annunciano, prima del tempo, l’arrivo della stagione delle piogge; anche qua le
stagioni stanno cambiando. Le nubi mi impediscono di vedere il Picco d’Adamo,
che so si erge alla mia sinistra; una montagna sacra perché vi è impresso,
nella roccia, la grande orma, un mezzo metro, del piede di Buddha, che secondo
la tradizione sarebbe venuto in Sri Lanka tre volte. Gli Indù sostengono invece
che si tratta dell’impronta del piede di Shiva, mentre per i Musulmani è quella
di Adamo, portato qui dopo la cacciata dal Paradiso (la sua tomba, assieme a
quella di Eva, sarebbe in India, appena attraversato il Ponte di Adamo che si
parte dallo Sri Lanka).
La piccola pianura contenute dalle colline è
una tutta una risaia dalle mille tonalità di verdi, tendenti sempre più al
giallo, ora che la messe è matura. Tra i campi, disseminate qua e là, la
capanne dei cercatori di gemme. Sono squadre di 11 persone, una capanna per
alloggiare e un pozzo nel quale scendere a cercare le pietre preziose.
Non posso resistere alla tentazione
di andare a visitare questa gente. Lascio la strada e mi avvio per un piccolo
sentiero. Mi scorgono mentre mi avvicino e da più parti mi chiamano. Entro in
una delle capanne: i lavoratori sono seduti o distesi nell’ora della pausa
meridiana. Sul fuoco una pentola con il riso. Parlano soltanto singalese, ma si
mostrano contenti e mi portano al pozzo, una larga cavità di una ventina di
metri. Al fondo si diramano due gallerie orizzontali dalle quali traggono una
densa sabbia fangosa; la tirano su con un argano di legno e la setacciano in
cerca delle gemme.
Ora la strada si è fatta deserta e
sale gradatamente tra le montagne mostrandomi il volto ancora sconosciuto di
questo Paese dalle sempre nuove sorprese. Sui 1800 metri i bananeti e le palme
di cocco iniziano l’antagonismo con gli abeti, ma non ce la fanno e devono
cedere il passo a loro che si arrampicano dritti e sicuri verso le cime oltre i
2000.
Scendiamo sull’alto versante e si
apre un nuovo scenario: dalle cime scendono le fitte e ordinate piantagioni di
tè, una delle maggiori ricchezze del Paese. Ci arrestiamo a 1700 metri, Bandarawela,
sede del noviziato degli Oblati.
Come Cornelia, la madre dei Gracchi
dell’antica Roma repubblicana, alla matrona che faceva sfoggio dei suoi
gioielli, mostrò i suoi due figli: “Ecco i miei gioielli”, anch’io, a chi voleva
vendermi le pietre preziose, avrei voluto mostrare i 25 giovani Oblati, ma lui
non ne sapeva niente, né di Lucrezia né dei novizi.
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