Poiché a Rimini il popolo non voleva
saperne delle prediche del santo, Sant’Antonio parlò ai pesci, che in gran
moltitudine accorsero a sentire le sue parole. È così che qui a Jaffna
sant’Antonio è diventato protettore dei pescatori: lo invocano fiduciosi perché
continui a chiamare i pesci.
Su un’isoletta deserta si erge una
antica edicola dedicata al santo. Adesso i pescatori, di loro iniziativa, vi stanno
costruendo una chiesetta. Sono andato a visitarla.
Il villaggio dei pescatori è
completamente cristiano; lo si vede dall’arco, con nel mezzo la croce, che si
erge sulla strada e dalle molte edicole con le statue della Madonna e di Gesù.
Lungo le strade, per terra, le reti sono distese ad asciugare. Il papà di un
Oblato mi accoglie nella sua umile casetta e mi accompagna sul piccolo molo. Ci
aspetta una barca tradizionale spinta con una canna di bambù che punta sul
fondale bassissimo. Più avanti passiamo su una barca a motore e ci dirigiamo
verso l’isola, in un gioco di gimcana tra le reti sostenuti dai pali e posate
sul mare in giochi complessi.
A mano a mano che ci si allontana
dalla riva, disseminata di barche, le casette dei pescatori si distendono seminascoste
tra le palme. Più lontano le massicce fortificazioni del 1600 costruire dagli
Olandesi dopo aver soppiantato il dominio dei Portoghesi. A poppa, accanto al
timoniere, Tarzan, un ragazzo tutto orgoglioso e contento di ospitare uno
straniero sulla sua barca.
Sbarchiamo sull’isola, accolti con
festa da una decina di muratori e carpentieri che stanno costruendo la chiesa.
Verranno qui in pellegrinaggio durante la pesca o con le loro famiglie nei
giorni di festa. Lavorano per la gloria del santo. Tutto il villaggio procura
il materiale, trasportato con le barche. Dopo avermi fatto passare in rassegna i
lavori, mi guidano verso una raduna bianca di sale perché possa ammirare il
volo di uccelli senza numero che hanno qui il loro rifugio. Mi pare d’essere
fuori dal mondo.
L’Oblato che mi accompagna,
impeccabile della sua veste bianca, incoraggia tutti e benedice. I lavori
riprendono e noi torniamo al villaggio con il giovane Tarzan che fa da
capitano.
Soltanto quando scendo dalla barca
noto accanto al molo la casermetta dei militari, ormai onnipresenti nella
penisola di Jaffna e in tutta la regione. Il tocco di paradiso appena provato sembra
svanire davanti alla sofferta situazione di questo popolo.
Nella penisola c’è un militare ogni
quattro civili. Ad ogni angolo polizia e soldati armati. Naturalmente sono
tutti del sud, singalesi: portano un’altra lingua, un’altra cultura, un’altra
religione. Hanno vinto la guerra e ora occupano la regione conquistata. Anche
la casa degli Oblati è circondata da caserme prefabbricate e in costruzione.
Per prima cosa, in ambiente interamente cristiano e indù, erigono, in mezzo al
capo militare, la statua di Buddha per affermare la loro identità.
Fra un mese, dopo 23 anni, si
terranno le elezioni amministrativi, fortemente indirizzate dal governo
centrale. È di oggi la notizia dell’arresto di un membro del partito Tamil. Nel
frattempo tutta l’amministrazione è in mano all’esercito.
Tra la gente c’è paura, risentimento,
senso di umiliazione: “Siamo ormai degli schiavi”, mi sento ripetere. È troppo
vivo ancora il ricordo delle distruzioni, delle atrocità, delle persone
scomparse. La casa provinciale, nella quale erano sfollate una quarantina di
persone che avevano perso tutto, è stata appena restaurata dai danni dei
bombardamenti e dalla requisizione da parte dell’esercito, che fra l’altro ha
gettato alla pioggia gran parte della biblioteca.
Passando davanti al liceo,
piantonato da militari armati fino ai denti, vedo sciamare una fiumana di
giovani che hanno appena terminato gli esami di maturità: tutti in divisa, vestiti
di bianco secondo il costume tradizionale, con le cravatte rosse, sia ragazzi
che ragazze; queste hanno in più i fiocchi rosse alle trecce robuste e
verissime. Mi si riaccende la speranza.
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