Inizio ad
attraversare Antananarivo con l’aurora della fresca estate. La città inizia a
svegliarsi. È l’ora dei carri trainati dai buoi, la cui circolazione è interdetta
durante il giorno. Ai crocicchi si squartano i maiali e i piccoli macellai di
strada ne comprano i pezzi che rivenderanno sui marciapiedi. Dai forni uomini e
donne escono con sulla testa ceste ricolme di baghette per la vendita agli
angoli delle strade. Quando giungo sul fiume spunta il sole dorando l’orizzonte.
A mano a mano che procedo si spargono al bordi sterrati delle vie le verdure
degli ortolani e la città-mercato si rianima velocemente. Per il 35% dei
malgasci anche oggi sarà una lotta per riuscire a conquistare la propria “apoca”
di riso (il riso, come i fagioli, la pasta, non si vende a chili, ma riempiendo
la lattina di latte condensato della Nestlè, usata come unità di misura). La vita
è ricominciato anche oggi. Mi si stringe il cuore vedendo quanto è stentata e
misera. Ma basta scorgere un ragazzo e una ragazza che camminano tenendosi per
mano, o due anziani sottobraccio perché torni la speranza.
Una volta
attraversata la città procedo con padre Alfonso verso Fianarantsoa. La distanza
è di solli 400 chilometri, ma impiegheremo tutta la giornata, ben undici ore. La
strada è un sali scendi tra colline e montagne, senza mai un rettilineo. Da metà
viaggio in poi il fondo strada si deteriora pietosamente. È la via principale
per il sud, l’unica strada dalla capitale a Fianarantsoa, ma così stanno le
cose; non vi sono autostrade in Madagascar.
I paesaggi
compensano i disagi della strada. Le risaie a terrazza degradano lentamente
nella ampia vallate, per poi salire ripide su per le montagne; si incuneano in
ogni anfratto, si appropriano di ogni angolo libero da rocce. I villaggi si posano
su ogni collina, serrando compatte le case, tutte uguali, del colore della
terra, con tetti di paglia o di lamiera. Ruscelli, fiumi, laghetti, stagni,
cascatelle. Pinete, foreste… Sembra uno scenario disegnato dalle fate.
A mano a mano che
ci si allontana dalla capitale il traffico si assottiglia fin quasi a
scomparire, tanto che alla fine del viaggio Fianarantsao mi appare come una
città autarchica, capace di vivere da sola, con la sua agricoltura.
A metà strada
Antsirabe, la città tessile e industriale, sempre secondo gli standard minimi
della regione. Una città ariosa, piena di verde. La stazione ferroviaria è un
gioiellino… peccato che la ferrovia non funzioni dal tempo della colonia
francese. In città le auto sono molto poche, in compenso appaiono i pouss-pouss,
così si chiamano risciò locali trainati da uomini che corrono veloci a piedi
nudi. I carri con i buoi possono circolare tutto il giorno. Frotte di persone
che si muovono a piedi in file interminabili ai margini della lunga strada che
attraversa la cittadina.
Nelle risaie si
alternano simultaneamente tutte le fasi del riso: vi sono donne che tolgono le
erbacce, uomini che sarchiano con una specie di piccolo aratro tirato a mano,
altri che raccolgono il riso a piccoli mannelli tagliandolo col falcetto… Sulle
aie c’è chi batte il riso, sbattendo proprio i piccoli sul terreno, mentre le
donne lo sollevano al vento… Altre donne lavano i panni nell’acqua delle risaie…
Vicino ad ogni
villaggio i ragazzi, a gruppetti, tornano a casa da scuola. Centinaia e
centinaia, scalzi, con una busta di plastica per il libro e il quaderno. Non
andranno oltre le elementari. Quale futuro li aspetta, così lontani dal mondo,
in casupole senza acqua corrente e senza luce? E pensare che il Madagascar è un
paese ricco d’oro, minerali, pietre e legnami pregiati… il tutto a beneficio di
una piccolissima minoranza.
Per tutta la
giornata mi scorre sotto gli occhi un mondo ancestrale complesso, che lascia
sospesi e una natura affascinante e che pure mostra i segni dello scempio
perpetrato dagli uomini…
Nessun commento:
Posta un commento