domenica 4 agosto 2024

Una Chiesa che si fa prossima

 

Il tema di questo incontro di vescovi, “La prossimità stile di Dio, stile dei vescovi in comunione”, mi ha fatto pensare alla svolta operata dal Concilio Vaticano II.

La distanza dalla modernità, a partire dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese e acuita con l’annessione dello Stato pontificio al Regno d’Italia, si era fatta sempre più evidente, fino alle soglie del Concilio. Non era soltanto l’arroccamento nella Città del Vaticano, sotto l’impressione di un assedio del “mondo”, ma anche un distanziamento dalla realtà quotidiana della gente comune. Nel suo Diario del Concilio, in data 14 novembre 1960, quando ancora si era nella fase preparatoria, Yves Congar, al termine di una celebrazione del Papa in San Pietro, annotava: «Mentre faccio ritorno mi perdo un po’ attraversando quartieri popolari e popolosi: vie molto strette senza marciapiedi, biancheria stesa alle finestre, piccole botteghe di artigiani, striscioni con l’invito a votare comunista… Dico a me stesso: ciò a cui ho appena assistito, ciò che abbiamo “fatto” in San Pietro, non ha ALCUN rapporto con QUESTO mondo. Non coincide neppure con un millimetro. Vi è un apparato di Chiesa che funziona per se stesso, senza alcun contatto con la gente» (Diario del Concilio (1960-1963), San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, I, p. 85).

Il Concilio voltò pagina, come scrisse Paolo VI, adottando una modalità che «contrasta in parte con l’atteggiamento che segnò alcune pagine della sua [della Chiesa] storia»; al posto della condanna, della chiusura, aveva adottato il linguaggio «dell’amicizia, dell’invito al dialogo» («Linguaggio dell’amicizia e invito al dialogo: note di ‘stile conciliare’», in M. Vergottini (ed.), Nel cono di luce del Concilio (= Quaderni dell’Istituto 26), Studium, Roma 2006, p. 24).

Nel suo discorso di chiusura del Concilio, il papa prendeva atto del grande cambiamento: il programma di dialogo, partecipazione, collaborazione, ascolto, solidarietà con il mondo moderno si era realizzato: «Il magistero della Chiesa […] è giunto, per così dire, a dialogare con lui [l’uomo contemporaneo]; e pur conservando sempre l’autorità e la forza che gli sono proprie, ha assunto la voce familiare ed amica della carità pastorale, ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti gli uomini; non si è indirizzato solo all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche nello stile della conversazione ordinaria. Facendo appello all’esperienza vissuta, utilizzando le risorse del sentimento e del cuore, dando alla parola maggior fascino, vivacità e forza persuasiva, esso ha parlato all’uomo d’oggi, così com’è. […]. Amare l’uomo – diciamo – non come un semplice mezzo, ma come un primo termine nell’ascesa verso il termine supremo e trascendente» (Omelia di Paolo VI nella solenne chiusura del Concilio, 8 dicembre 1965, EV, I, 457*-458*).

Nella medesima omelia aveva offerto come paradigma della spiritualità del Concilio la parabola del buon Samaritano: il Concilio aveva provato per il mondo contemporaneo la stessa compassione, la stessa vicinanza di quell’uomo per il ferito che giaceva lungo la strada: «Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. (…) Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano odierno» (EV, I, 456*-457*).

«Non la Chiesa da una parte e il mondo dall’altra – avrebbe detto il vescovo Luigi Bettazzi –, ma la Chiesa fermento del mondo, perché tutti possano camminare verso il regno di Dio» (Difendere il Concilio, p. 72).

 

Nessun commento:

Posta un commento