Il tema di questo
incontro di vescovi, “La prossimità stile di Dio, stile dei vescovi in
comunione”, mi ha fatto pensare alla svolta operata dal Concilio Vaticano II.
La distanza dalla
modernità, a partire dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese e acuita con
l’annessione dello Stato pontificio al Regno d’Italia, si era fatta sempre più
evidente, fino alle soglie del Concilio. Non era soltanto l’arroccamento nella
Città del Vaticano, sotto l’impressione di un assedio del “mondo”, ma anche un
distanziamento dalla realtà quotidiana della gente comune. Nel suo Diario del
Concilio, in data 14 novembre 1960, quando ancora si era nella fase
preparatoria, Yves Congar, al termine di una celebrazione del Papa in San
Pietro, annotava: «Mentre faccio ritorno mi perdo un po’ attraversando
quartieri popolari e popolosi: vie molto strette senza marciapiedi, biancheria
stesa alle finestre, piccole botteghe di artigiani, striscioni con l’invito a
votare comunista… Dico a me stesso: ciò a cui ho appena assistito, ciò che
abbiamo “fatto” in San Pietro, non ha ALCUN rapporto con QUESTO mondo. Non
coincide neppure con un millimetro. Vi è un apparato di Chiesa che funziona per
se stesso, senza alcun contatto con la gente» (Diario del Concilio (1960-1963), San Paolo, Cinisello Balsamo 2005,
I, p. 85).
Il Concilio voltò
pagina, come scrisse Paolo VI, adottando una modalità che «contrasta in parte
con l’atteggiamento che segnò alcune pagine della sua [della Chiesa] storia»;
al posto della condanna, della chiusura, aveva adottato il linguaggio
«dell’amicizia, dell’invito al dialogo» («Linguaggio
dell’amicizia e invito al dialogo: note di ‘stile conciliare’», in M. Vergottini (ed.), Nel cono di luce
del Concilio (= Quaderni dell’Istituto 26), Studium, Roma 2006, p. 24).
Nel suo discorso di
chiusura del Concilio, il papa prendeva atto del grande cambiamento: il
programma di dialogo, partecipazione, collaborazione, ascolto, solidarietà con
il mondo moderno si era realizzato: «Il magistero della Chiesa […] è giunto,
per così dire, a dialogare con lui [l’uomo contemporaneo]; e pur conservando
sempre l’autorità e la forza che gli sono proprie, ha assunto la voce familiare
ed amica della carità pastorale, ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da
tutti gli uomini; non si è indirizzato solo all’intelligenza speculativa, ma ha
cercato di esprimersi anche nello stile della conversazione ordinaria. Facendo
appello all’esperienza vissuta, utilizzando le risorse del sentimento e del
cuore, dando alla parola maggior fascino, vivacità e forza persuasiva, esso ha
parlato all’uomo d’oggi, così com’è. […]. Amare l’uomo – diciamo – non come un
semplice mezzo, ma come un primo termine nell’ascesa verso il termine supremo e
trascendente» (Omelia di Paolo VI nella
solenne chiusura del Concilio, 8 dicembre 1965, EV, I, 457*-458*).
Nella medesima omelia
aveva offerto come paradigma della spiritualità del Concilio la parabola del
buon Samaritano: il Concilio aveva provato per il mondo contemporaneo la stessa
compassione, la stessa vicinanza di quell’uomo per il ferito che giaceva lungo
la strada: «Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni
umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. (…) Una corrente di
affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano odierno»
(EV, I, 456*-457*).
«Non la Chiesa da una
parte e il mondo dall’altra – avrebbe detto il vescovo Luigi Bettazzi –, ma la
Chiesa fermento del mondo, perché tutti possano camminare verso il regno di
Dio» (Difendere il Concilio, p. 72).
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