Il libro sull’unità scritto dalla Scuola Abbà
è stato tradotto in francese e questa sera si è tenuto, via internet, un dialogo
a più voci con il pubblico francese.
A me, tra le altre domande, è stato chiesto perché
scrivere un libro sull’unità.
Mi è stato facile rispondere. Perché l’unità
è il sogno di Dio. È il desiderio di un Padre che vorrebbe vedere i figli e le
figlie che vivono in armonia, che si amano, che si aiutano. L’unità è la vita
di Dio e il destino dell’umanità. Non viviamo per il nostro piccolo gruppo, ma
per il mondo intero, per la fraternità universale, Vivere l’unità per collaborare
all’armonia tra le persone, i popoli, le nazioni: perché tutti siano uno. Il mondo
unito è l’utopia che ci ha affascinato.
L’unità è una vocazione, la vocazione a cui
ogni persona è chiamata, la vocazione di tutta l’umanità, di tutta la storia,
dell’universo intero. Vocazione significa chiamata, invito ad andare nella
direzione di colui che chiama, il Padre. L’unità è dunque un cammino, è
dinamica, si fa, diviene, non è mai pienamente realizzata. Non per niente Gesù
ne fa oggetto di preghiera.
Ma sappiamo come fare l’unità e portare l’unità?
Abbiamo tante esperienze belle e positive, ma a volte anche idee riduttive se
non sbagliate. Come quando pensiamo che l’unità sia uniformità, o come quando pensiamo
che per fare unità occorra rinunciare alla propria identità. L’unità è la vita
di Dio che è Uno senza spariscono le differenze. Così la nostra unità è
plurale, ricca del contributo di ciascuno.
L’unità presuppone la rinuncia a se stesso,
mettersi da parte, diventare “nulla”. Anche
questo può essere frainteso. Basta capire cos’è questo farsi nulla. Non è
disprezzo di sé. Il nulla è una porta che io apro, liberamente, senza che
nessuno mi costringa. È una porta che io apro perché voglio permettere all’altro
di entrare, è il mio modo di amarlo, di fargli spazio perché possa esprimersi.
Così il mio “nulla”, vissuto liberamente come
atto d’amore e di accoglienza, mi arricchisce infinitamente, mi fa essere più me
stesso; la persona infatti è data soltanto nella relazione: “Non è bene che l’uomo
sia solo”, disse Dio agli inizi.
Si comprende allora perché Chiara Lubich abbia sempre considerato l’unità come la faccia di una medaglia; dall’altra parte c’è Gesù Abbandonato. È lui che insegna come accogliere l’altro. Gesù, proprio nel dono pieno di sé, fino alla morte e alla morte di croce, riceve il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Ossia raggiunge la più profonda identità. Il momento nel quale è “nulla” coincide con il massimo del suo “essere”. Gesù ha dato tutto, spogliandosi anche della sua divinità e questo atto di assoluta povertà gli dà la ricchezza massima: in lui – porta aperta – entra tutto il creato, l’umanità intera.
Il libro ha voluto mettere in luce la bellezza della nostra vocazione, indicare alcune linee per attuarla, sgombrare il campo da possibili fraintendimenti.
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