martedì 8 giugno 2021

Giovanni Santolini, eroe per abitudine


Lo Zaire era al collasso. Il vecchio dittatore, al comando dal 1965, dopo venticinque anni di potere assoluto, prese una decisione inaudita. Il 24 aprile 1990 riunì generali, magistrati, ministri, governatori di province, parlamentari e giornalisti stranieri nel palazzo delle conferenze del Partito unico, il Movimento Popolare della Rivoluzione (Mpr), avvolto nell’uniforme nera da maresciallo, annunciò che, dopo aver ascoltato la voce del popolo, dichiarava la fine del partito unico e l’apertura alla democrazia: tre partiti, stampa libera, sindacati liberi e, entro un anno, libere elezioni. “E che ne sarà del capo in tutto questo?” si chiese Mobutu alla fine del suo discorso. “Il capo di stato è al di sopra dei partiti politici. Sarà l’arbitro o, ancora meglio, la suprema istanza giuridica”. I presenti e quanti seguivano per radio non credevano alle proprie orecchie. Il Paese impazzì di gioia.

Il passaggio sarebbe stato garantito da una “Conferenza sovrana nazionale”, a cui avrebbero preso parte non soltanto politici e personalità di rilievo, ma anche membri della società civile e delle Chiese, provenienti da tutte le province.

La Conferenza ebbe inizio il 7 agosto 1991, con la partecipazione di 2800 delegati. Alla presidenza Mobutu nominò un suo uomo di fiducia, convinto che niente sarebbe cambiato. Se ne convinsero anche i delegati. Il 23 settembre i soldati del centro paracadutisti a Ndjili si ammutinarono, invasero il centro città, saccheggiarono grandi magazzini, negozi, pompe di benzina e abitazioni private. Il popolo, stremato dalla fame e dalla povertà, si unì ai militari. Il saccheggio continuò per giorni e giorni. 117 i morti e circa 1500 i feriti.

Mobutu non reagiva. I suoi soldati potevano fare quello che volevano. Molti sospettarono che fosse stato lui a provocare l’ammutinamento nel tentativo di sabotare la Conferenza.

Dopo il saccheggio fu designato un nuovo presidente dell’Assemblea. Questa volta fu eletto tramite votazione:  Mons. Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kisangani e presidente della Conferenza episcopale nazionale. Era il riconoscimento del ruolo svolto dalla Chiesa in tanti anni di dittatura. I vescovi sotto la guida del cardinal d Kinshasa, Joseph-Albert Malula, si erano mostrarti sempre critici nei confronti del regime. Le cose si mettevano bene per la democrazia, ma si mettevano male per Mobutu che, a gennaio, ordinò la chiusura della Conferenza.

Il 16 febbraio scoppiò la protesta in tutta Kinshasa, organizzata dai cristiani. I vescovi avevano chiesto la riapertura della Conferenza. I preti ne avevano parlato durante la messa domenicale. Qualcuno decise di passare all’azione, nonostante che i vescovi non fossero d’accordo nell’organizzare una marcia.  Dopo la messa delle nove, iniziò il corteo. In più di cento parrocchie di Kinshasa le persone affluirono per le strade. Non c’erano politici, ma semplici fedeli, ragazzi, studenti, giovani genitori, poveri… Marce simili ebbero luogo a Matadi, Kikwit, Idiofa, Kananga, Mbuji-Mayi, Kisangani, Goma e Bukavu. Più di un milione di persone si riversò in strada, si trattava del più grande raduno di massa nella storia del paese. Si parlò della “Marcia della speranza”.

Si unirono anche gli studenti di teologia dei Missionari Oblati. P. Giovanni Santolini, l’unico bianco tra di loro, volle unirsi al gruppo. «No, no, tu non venire perché noi siamo neri, nessuno ci distingue dagli altri, ma tu sei bianco, l’unico! I militari diranno subito: “prendiamo quello là!”». Giovanni partecipa comunque alla manifestazione. Come si poteva facilmente prevedere appena arrivata la famigerata divisione speciale presidenziale, subito si sente gridare: “Prendete quel bianco là!”. Lo rincorrono, lo gettano a terra, lo pestano, lo portano via. Ed ecco intervenire le mamme del corteo, circondano i militari e gridano: “Ah no! Padre Giovanni non si tocca”. I militari rimangono per un attimo disorientati. Fin quando uno gli grida: “Tornate nel tuo Paese, sporco belga!”. E Giovanni: “Veramente non sono belga, sono italiano”. Poi con il suo sorriso disarmante: “Non preoccuparti, capita a tutti di sbagliarsi”.

I disordini continuano, sono ormai all’ordine del giorno. Sempre uno dei giovani Oblati ha la felice idea di andare a liberare due giovani che i militari hanno trascinato via. Li raggiunge e li apostrofa: “Se protestano è anche per il vostro bene”. Poi si rivolge a uno di loro : “Ma tu hai mangiato stamattina?”. Il militare risponde: “No!”. “Ecco vedi, il tuo presidente non ti dà neanche da mangiare. Stamattina i giovani che avete preso protestano per cacciare via questo dittatore e tu li picchi!”. Il militare lascia andare i due giovani. Lo studente oblato contento dice loro: “Li ho convinti!”. Invece il militare era andato a chiamare altri sei colleghi: “C’è là un autentico sovversivo, dobbiamo prenderlo”. Tornano insieme e portano via lui e un altro studente Oblato, che era andato per difendere gli altri. Li trascinano di forza, malmenandoli, verso la prigione. Quanti hanno visto corrono da p. Giovanni: “Hanno preso René, hanno preso Joseph e li stanno portando via”. Giovanni con decisione: “Andiamo a liberarli, se li portano in carcere per loro è finita. Andiamo, andiamo, andiamo!”. Tutti di corsa dietro di lui, una piccola folla che continua a ripetere: “Andiamo, andiamo, andiamo!”. Arrivano su una collinetta da dove vedono i due giovani che vengono pestati dai militari. Il capo comincia a sparare, col mitra. Giovanni si ferma un attimo: “O non ha tirato, o non ha le munizioni, spara a salve, oppure io sono già morto!”. Si rianima subito e riprende a gridare: “Andiamo, andiamo, andiamo. Non ha munizioni, è una finta, andiamo, andiamo!”. Si gira: nessuno dietro di lui, tutti dileguati! È rimasto solo, con accanto Macaire. Continuano ad avanzare con le mani alzate: “Siamo uomini di pace, noi…”. Il militare: “No, no, se avanzate vi sparo contro”. Giovanni si rivolge a Macaire: “Ci ha già sparato, Non è vero, andiamo, andiamo!”. I militari si lasciano avvicinare inizia la discussione: “Questi sono preti, non potete portarli via”. Erano sorpresi che non avessero paura di loro. Giovanni conosce la mentalità del militare zairese: “Se costui non ha paura è certamente perché conosce un capo più importante del mio… è più forte di me; se io gli faccio del male, il suo capo farà del male a me”. È tale la decisione e la sicurezza di Giovanni che i militari rimangono di sasso e lasciano che si riprenda i due giovani Oblati e li porti via con sé…

Dopo due o tre ore vengono altri militari, questa volta per prendere alcuni giovani che per fuggire alle rappresaglie si sono rifugiati nella casa degli Oblati. Entrano e ne portano via uno di loro. Giovanni riparte in azione, senza demordere. Li segue, li ferma e inizia a discutere: “Non avete il diritto di venire a casa nostra e fare questo”. Tra loro c’è uno dei militari che poco prima aveva visto liberare i giovani Oblati ed ora è inferocito. Si mette di traverso e comincia a parlare in una lingua che Giovanni non conosce: “Se osi tornare indietro, ti sparo”. Giovanni non capisce. Tranquillamente prende per il braccio il giovane sequestrato: “Adesso rientriamo a casa e basta, finito”. E il militare: “Se osi passare di qui ti uccidiamo”. I giovani studenti Oblati dall’altra parte del ponticello che porta al seminario fanno segni dispesati perché non passi. Giovanni saluta tranquillamente i militari con un bel: “Ciao!”. Quello che lo minacciava è, ancora una volta, talmente sorpreso che, come tanti altre che avevano seguito la scena, avrà dovuto pensare: “Questo ha certamente dei poteri magici”. E dice un semplice: “Passa”. I giovani gridano: “Il buon pastore quando viene il lupo non scappa!”. Giovanni è diventato un eroe.


Quando Giovanni Santolini raccontava episodi come questi, con il suo solito humor, senza mai drammatizzare, terminava: «Un eroe? Ma è capitato per caso e non ho potuto fare diversamente. Se tu stai lì e dai la vita per questa gente, è normale che gli dai la vita facendo delle fotocopie quado devi fare le fotocopie, scrivendo a macchina quando devi scrivere a macchina, programmando l’orario dei professori quando lo devi fare, andando a una marcia quando devi andare, facendoti pestare… Non è che uno fa l’eroe per fare l’eroe, è che hai talmente l’abitudine di stare attento all’altro che quanto ti dicono: “C’è una persona che ha bisogno…”, tu gli dai una mano; se ti dicono: “Hanno preso quello….”, tu rispondi: “Va bene, andiamo a liberarlo”. Diventi eroe per abitudine, non perché sei un eroe, ma perché hai l’abitudine di fare quello che nel momento presente pensi sia giusto. Non ditemi: “Hai fatto quelle cose? Hai affrontato i militare? Hai rischiato la pelle? Io non avrei mai avuto il coraggio!”. “Ma neanche io ho il coraggio”».

Questa potrebbe essere la prima pagina della biografia che mi è stato chiesto di scrivere a 25 anni dalla morte di p. Giovanni Santolini. Chissà se può andare…

1 commento:

  1. A me sembra bellissima come prima pagina e non vedo l’ora che il libro sia scritto per leggerlo! Giovanna

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