lunedì 6 maggio 2013

La religiosità del popolo cinese


Un piccolo tempio taoista… Una donna canta le nenie accompagnandosi con uno strumento a percussione davanti a un’infinità di piccole divinità o antenati. Un monaco predice il futuro. Un giovane porta un fascio di fiori che distribuisce ai quattro lati di una divinità con una testa volta per ognuno dei quattro punti cardinali. Un altro accende i bastoncini di incenso… Tutta superstizione? Come non rimanere incantati da tante sincerità d’animo?
Matteo Ricci, che ha dato la vita per il Vangelo in Cina, aveva capito la religiosità di questo popolo. Pasquale D’Elia, che ha curato l’edizione italiana della Storia dell’Introduzione del Cristianesimo in Cina, riassume così il suo pensiero: “I testi cinesi, dalle lontane origini di questo popolo fino all’avvento di Confucio e anche al di là, sono costanti nel riconoscere all’Imperatore Supremo (Shangdi) o Cielo (Tian) i principali attributi del vero Dio. Fin da quando Hammurabi regnava in Babilonia e Abramo lasciava la Mesopotamia, i Cinesi ammettevano che il Cielo o l’Imperatore Supremo è un Essere unico, personale, intelligente, signore e dominatore dell’universo, che conferisce e revoca a piacimento il mandato  imperiale, che vede e sente tutto, che premia i buoni e punisce i cattivi, non solo durante la vita presente ma anche dopo la morte”.
Per questo Ricci, riferendosi alla “pura dottrina antica ” conservata, sviluppata e difesa dal  Maestro  Confucio (551-479 a.C.), e dopo di lui dai filosofi Moti (479-381 a.C.), Mencio (372-289 a.C.), non aveva esitato ad affermare: ”Di tutti i popoli antichi e moderni, non rischiarati dalla luce della rivelazione cristiana, sarebbe difficile e forse impossibile  trovarne uno più religioso del popolo cinese”. (Pasquale D’Elia, Fonti Ricciane, vol. 1, Roma, 1942, p. XLI s.)

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