Un piccolo tempio
taoista… Una donna canta le nenie accompagnandosi con uno strumento a
percussione davanti a un’infinità di piccole divinità o antenati. Un monaco predice
il futuro. Un giovane porta un fascio di fiori che distribuisce ai quattro lati
di una divinità con una testa volta per ognuno dei quattro punti cardinali. Un
altro accende i bastoncini di incenso… Tutta superstizione? Come non rimanere
incantati da tante sincerità d’animo?
Matteo Ricci, che
ha dato la vita per il Vangelo in Cina, aveva capito la religiosità di questo
popolo. Pasquale D’Elia, che ha curato l’edizione italiana della Storia dell’Introduzione del Cristianesimo
in Cina, riassume così il suo pensiero: “I testi cinesi, dalle lontane
origini di questo popolo fino all’avvento di Confucio e anche al di là, sono
costanti nel riconoscere all’Imperatore Supremo (Shangdi) o Cielo (Tian) i
principali attributi del vero Dio. Fin da quando Hammurabi regnava in Babilonia
e Abramo lasciava la Mesopotamia, i Cinesi ammettevano che il Cielo o
l’Imperatore Supremo è un Essere unico, personale, intelligente, signore e
dominatore dell’universo, che conferisce e revoca a piacimento il mandato imperiale, che vede e sente tutto, che premia
i buoni e punisce i cattivi, non solo durante la vita presente ma anche dopo la
morte”.
Per questo Ricci,
riferendosi alla “pura dottrina antica ” conservata, sviluppata e difesa
dal Maestro Confucio (551-479 a.C.), e dopo di lui dai
filosofi Moti (479-381 a.C.), Mencio (372-289 a.C.), non aveva esitato ad
affermare: ”Di tutti i popoli antichi e moderni, non rischiarati dalla luce
della rivelazione cristiana, sarebbe difficile e forse impossibile trovarne uno più religioso del popolo cinese”.
(Pasquale D’Elia, Fonti Ricciane, vol.
1, Roma, 1942, p. XLI s.)
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