Anche gli Oblati, come tutti i cristiani, sono chiamati alla santità.
Sant’Eugenio de Mazenod, per primo, ha nutrito un desiderio sempre crescente di
santità, e l’ha raggiunta.
L’ha desiderata per sé: “Noi stessi dobbiamo essere veramente dei
santi. Questa parola sintetizza tutto ciò che potremmo dire”, scriveva quando
ancora sognava un suo progetto di vita (A Tempier, 13 dicembre 1815).
L’ha sognava per tutti coloro ai quali era rivolto il suo ministero:
voleva “condurre le persone ad essere prima ragionevoli, poi cristiane e infine
aiutarli a diventare sante” (Prefazione
alla Regola).
L’ha desiderata per gli Oblati, che supplicava: “In nome di Dio, siamo
santi” (18 febbraio 1826). Voleva, come scrive nella Regola, che essi
“ardessero dal desiderio della propria perfezione” (art. 697). Per loro pregava
costantemente “perché la grazia vi mantenga ogni giorno nella più alta santità”
(A p. Végreville, 17 aprile 1860).
Ha creato la comunità oblata come un luogo di santificazione: “ci
aiuteremo insieme… per la nostra santificazione comune”, scriveva al futuro
primo compagno, chiedendo di “lavorare insieme alla gloria di Dio e alla nostra
santificazione” (A Tempier, 13 dicembre 1815).
Ha abbracciato la vita
religiosa come mezzo efficace di santificazione e ha scritto una Regola per
indicare la via della santità ; essa serve “per la vostra santificazione”
(A p. l’Hermette, 17 agosto 1852) e in essa “si trova il segreto della vostra
santificazione, contenendo tutto quanto può condurvi a Dio” (Lettera circolare, 2 agosto 1853).
Ha scelto la missione come ministero nel quale santificarsi e
santificare. Ha compreso e costantemente sottolineato l’intrinseco legame tra
santità e missione. “A quale santità non ci obbliga la vocazione apostolica,
che ci spinge a lavorare senza sosta alla santificazione delle anime con i
mezzi che hanno usato gli apostoli?” (Note
di ritiro, 1826).
Essere santi e uomini apostolici sono sinonimi. A p. Tempier chiedeva
di raccomandare ai missionari “di vivere da santi e da veri apostoli” (30 marzo
1826). E a p. Mouchette, riguardo agli scolastici: “Devono sapere che il loro
ministero è la continuazione del ministero apostolico… Che si affrettino dunque
a diventare santi, se ancora non si è giunti ad essere come occorre essere” (2
dicembre 1854). “Il missionario - scrive a chi gli domanda la descrizione della
nuova vocazione – essendo chiamato proprio al ministero apostolici, deve
tendere alla perfezione… Deve dunque fare di tutto per pervenire a questa
santità bramata, che deve produrre frutti così grandi” (6 gennaio 1819).
Si raggiunge quindi la santità vivendo con interezza la vita
missionaria e religiosa: “Tutti i membri della Congregazione lavorano a
diventare santi nell’esercizio del loro ministero e nella pratica esatta delle
Regole comuni” (A p. Courtès, 13 marzo 1830).
In modo particolare: diventando altri Gesù, vivendo uniti, donandosi
interamente alla missione, con totalità. Sant’Eugenio non è mai stato l’uomo
del compromesso o delle mezze misure e anche ai suoi ha proposto un impegno
radicale di vita: “Nella nostra famiglia non voglio stoppini fumosi: che si
arda, che si scaldi, che si illumini oppure ci se ne vada” (19 luglio 1846). Il
cammino che propone abbraccia la vita intera. Gli Oblati, leggiamo nella Prefazione alla Regola, “devono lavorare seriamente a diventare santi, […] vivere
[…] in una volontà costante di giungere alla perfezione”. “Nessun limite alla
nostra santità personale”, esclamava il superiore generale p. Léo Deschâtelets
leggendo questo testo (Circolare 191,
15 agosto 1951).
Che questa non sia soltanto un ideale o un’utopia lo dice la santità
di sant’Eugenio e quella di tanti altri Oblati che lo hanno seguito. “Preti
santi, questa la nostra ricchezza”, esclamava lui stesso (18 agosto 1925).
Potremmo dire anche noi quello che egli diceva guardando gli Oblati:
“Mi glorierò dei miei fratelli, dei miei figli, perché mancando io di virtù che
mi siano proprie e personali, mi sento fiero delle loro opere e della loro
santità”.
Ma forse dovremmo fare di più: diventare come loro. “Noblesse oblige -
scriveva il superiore generale mons. Dontenwill in occasione del primo centenario
della Congregazione. Figli e fratelli di santi, noi stessi dobbiamo lavorare a
diventare santi” (Circolare n. 113,
25 dicembre 1915).
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