lunedì 10 settembre 2012

Quella parola che dà pace e inquieta


Era stato l’ultimo vangelo imparato a memoria; l’ultimo perché il più difficile da ritenere. Marco l’aveva appreso subito, non soltanto perché il più breve; le parole erano concatenate l’una con l’altro, facilmente memorizzabili nella loro sequenza. Aveva impiegato tempo per il Vangelo di Giovanni, ma ne era valsa la pena, il vangelo mistico.
Da alcuni giorni, non sapeva bene perché, non riusciva ad andare oltre il capitolo quinto, non perché non ricordasse il seguito, soltanto perché quelle parole lo attiravano. Le declamava a fior di labbra, poi le ripeteva in silenzio, fino a quando si dissolvevano nel cuore e ne rimaneva l’essenza profumata. Ogni volta lasciavano un sapore nuovo ed aprivano a nuovi misteri.
“Voi scrutate le Scritture… ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza”. Era dunque leggendo le Scritture che Gesù, nella sua umanità, aveva preso coscienza di chi fosse veramente. E lui, apa Pafnunzio, in quale altro luogo poteva andare per conoscere veramente se stesso? Era giunto nel deserto, tanti anni addietro, proprio per questo. Ora gli era chiaro che l’unico luogo veritiero, l’unico specchio fedele, era la Parola di Dio. Per questo non si stancava mai di ripeterla. Lì apprendeva d’essere figlio di Dio; nientemeno!
Glielo diceva ancora una volta proprio quel capitolo di Giovanni: “Chi ascolta la mia parola…, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”. Che pace gli davano le parole di Gesù!
Nello stesso tempo lo inquietavano. Proprio da quel capitolo uscivano parole che lo inquietavano: “Voi non volete venire a me per avere la vita”, “Non avete in voi l'amore di Dio”. Erano parole rivolte ai Giudei, ma potevano essere rivolte anche a lui.
Pace e inquietudine, gioia di sapersi amato e timore di non sapere amare. Perché sempre così contrastante la Parola di Dio? Lo era stata anche per lo stesso Giovanni: non aveva egli detto nell’altro suo scritto, l’Apocalisse, che nella sua bocca le parole di Dio erano dolci come il miele, ma una volta ingerite gli procuravano crampi atroci?
Era questo il destino della Parola, dissetare e assetare, far trovare e spingere alla ricerca, in una tensione costante verso l’incontro ultimo, verso il bacio dello Sposo, quando quella bocca non pronuncia più parola, portando nella pienezza dell’unione ineffabile. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 44)

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