La collatio vedeva i
sette anacoreti seduti in cerchio nel calmo meriggio. Apa Pafnunzio espose la sua
domanda, il suo dubbio. La risposta gli arrivò subito da uno dei fratelli,
sicura e perentoria, prima ancora che avesse terminato di formularla. La conosceva
già. Non aveva bisogno di risposta alcuna. Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse,
che lo accompagnasse nel dubbio, che vi si calasse dentro e lo aiutasse a
scendervi fino in fondo, ad articolare in modo nuovo la domanda, con sfumature nuove,
perché nuova, lentamente, germinasse la risposta.
Sul sentiero del ritorno
pensò alla grande domanda che era uscita dalla bocca del Signore rivolta al
Padre, lassù sulla croce: “Perché?”. Non ci fu risposta alcuna. Il Padre rimase
in silenzio. Forse lui stesso, riecheggiando la domanda, lui che già sapeva la
risposta, si domandò a sua volta: “Perché?”. La risposta, la risurrezione,
venne soltanto dopo, quando il Figlio era già inabissato sotto terra.
“Davanti all’ateo – si
disse allora apa Pafnunzio – devo farmi ateo, piuttosto che esporre le prove
dell’esistenza di Dio. Davanti al dubbio dell’altro devo diventare dubbioso a
mia volta, piuttosto che manifestare le mie certezze.
Condivido la domanda
dell’altro: è la mia domanda. Val più di una risposta sicura e perentoria”.
(I detti dei Padri del deserto di Scite, 49)
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